Tutta colpa della new wave universitaria così frizzante e al passo coi tempi. Da un lato ci sono i mostri sacri (Ingegneria, per l'appunto, e Medicina, Giurisprudenza, Architettura, Matematica, Fisica...) le cosidette "vecchie" facoltà caratterizzate da grossi carichi di lavoro e dotate, perlomeno nel comune sentire popolare, di una propria autorevolezza. Poi ci sono i nuovi corsi di laurea spuntati come funghi nell'ultimo decennio, che hanno portato una ventata di freschezza e piani di studio più immateriali e sfaccettati, ci si diverte di più, magari, assecondando pure il trend del momento. Sempre rimanendo nella provocatoria ottica dei pregiudizi, vengono viste come pratiche più facili da sbrigare, sicuramente più divertenti da seguire ma infondono anche meno sicurezza riguardo al dopo laurea, quando si dovrà cercare un benedetto posto di lavoro. Sorge dunque una specie di dicotomia: affidarsi alle granitiche fondamenta delle antiche discipline o lasciarsi tentare da scenari più colorati? In tempi ormai prossimi all'esame di maturità, per alcuni può essere un dubbio nient'affatto banale. Si avvicina una scelta quasi decisiva per la propria esistenza (certo, si può sempre cambiare) e il discorso "segui la tua passione" non è il più gettonato, o perchè c'è incertezza su quale siano, queste passioni da seguire, o perchè "di passione non si campa", come i più pragmatici tengono a sottolineare. Per questi e più in generale per chi già si spreme sui banchi delle aule accademiche, è un dibattito che scalda gli animi di studenti e non solo, anche di osservatori della società odierna, preoccupati per una deriva "immateriale" delle iscrizioni universitarie. Si dice che viviamo in un'epoca della comunicazione e del virtuale, e sarebbe il caso di abbandonare le attività materiali per concentrarci su questioni di finanza, servizi e comunicazione, per l'appunto. Viviamo anni di ribollimento mediatico, in cui i giovani sono strettamente connessi ai mass media e ricambiano a loro volta l'interesse buttandosi su facoltà stile scienze della comunicazione, mentre gli iscritti a materie classiche come fisica o matematica sono in caduta libera. E' il meccanismo della retorica dell'intrattenimento e dell'esplosione della creatività individuale che innesca questa fuga verso un certo tipo di facoltà a scapito di discipline sicuramente con meno "appeal". Certo, i mostri sacri godono ancora di un grande afflusso (basta vedere quanti non riescono a passare gli esami d'ingresso) ma, per fare un esempio, l'aumento costante degli iscritti al nuovo corso di Ingegneria Gestionale (fabbrica di manager) potrebbe rientrare in questa tendenza verso l'immateriale e l'estro. Sembra quasi che per alcuni studenti progettare un impianto termico sia un'attività ormai superata. Dove potrà portarci questa dedizione? Una società fatta solo di comunicatori e di gestori di servizi non può ovviamente sopravvivere. Come del resto non può sopravvivere chi non trova sbocco nel mondo del lavoro perchè ricerca non se ne fa, ed è pienamente legittimo e giusto soddisfare le proprie predisposizioni. Ci sono tante obiezioni e precisazioni che si possono muovere a questa dicotomia, probabilmente si tratta di una discussione un pò forzata, ma nei prossimi numeri sentiremo il parere di alcuni studenti riguardo alle varie parti in causa, le facoltà. Aspettiamo di ricevere anche i contributi di chi vuole contribuire ad aizzare o chiarire il dibattito tra tempi moderni e mestieri antichi.
5 Responses to “A me una laurea, prego.”