Nell’arte del Novecento c’è una sola parola d’ordine: intenzione. È l’intenzione che determina un’opera d’arte, non è più importante che sia un dipinto o una scultura, che sia creata secondo le regole artistiche, con materiali tradizionali o che riproduca i canoni di bellezza classica. Forse il primo grande scossone lo diede Duchamp quando unì una ruota di bicicletta e uno sgabello o quando rovesciò un un’orinatoio denominandolo fontana. Fu ancora più rivoluzionario nel regalo per le nozze della sorella: in una lettera le scrisse di prendere un libro di matematica e appenderlo fuori dalla finestra, questo era il suo regalo, era un’opera d’arte ma non era fisica, era solo un’idea, un’intenzione. Duchamp non fu di certo il primo a trasformare l’arte e ad allontanarla dai canoni estetici classici, il concetto di bello era già caduto precedentemente, nel 1800 Isidore Ducasse, Conte di Lautréamont aveva dato una nuova definizione di bello come “l’incontro fortuito, su un tavolo anatomico, di una macchina da cucire e di un ombrello”. Questa spiegazione è piuttosto emblematica e forse oscura al primo impatto, in realtà è semplicissima: il concetto di bello non esiste più! Non ha più importanza!
Un ambiente in cui l’arte contemporanea si esprime in tutta la sua completezza è sicuramente la Biennale di Venezia.
L’ultima Esposizione internazionale ha chiuso i battenti il 6 novembre, chi ha potuto visitarla si sarà accorto dell’immensità dello spazio dedicato alle opere d’arte di artisti spesso sconosciuti; l’eccezionalità della mostra consiste anche nella completa disponibilità dei lavori, il visitatore può toccarli, spostarli, giocarci, entrare a far parte dell’opera d’arte, sentirsi per pochi minuti immerso in un mondo parallelo, in un mondo diverso, alternativo. Le opere esposte sono tra le più differenti, sono opere di denuncia, di divertimento, di descrizione del proprio paese di origine.
Quanto può essere affascinante giocare con biglie di metallo all’interno di una stanza e rimanere incantati dal rumore che le palline provocano colpendo le barre di legno, che delimitano l’area di “gioco”? Oppure quali intense emozioni possono essere provocate dal vento della Russia? Senti il freddo che piano piano penetra nelle ossa e magari se chiudi gli occhi puoi immaginare la steppa ammantata di neve.
Davanti a molte opere esposte alla Biennale si provano emozioni forti che pervadono tutto il corpo, non è più solo il senso della vista a essere stimolato, ma anche l’olfatto, l’udito, il tatto. Alcuni lavori provocano quasi uno stordimento, uno di questi costringe il visitatore a camminare su un pavimento in cui viene proiettata un’immagine poco comprensibile, la cui particolarità è quella di scorrere velocemente sotto i piedi del fruitore, provocando uno spaesamento piacevole. Chiunque entri nella stanza si trova costretto ad attraversarla se vuole proseguire la sua visita, può farlo il più in fretta possibile oppure sostarci un po’ a riflettere sul suo significato o semplicemente cercare di camminare dritto nonostante lo scorrimento dell’immagine stordisca notevolmente.
Molti sono convinti che tutto questo non sia arte, io non credo. Queste opere devono essere viste considerando tutte le avanguardia del novecento e alla luce dell’affermazione dell’intenzionalità come caratterista fondante dell’opera d’arte.
Dopo tutto chi ha mai pensato di costruire un grandioso lampadario scintillante con gli assorbenti interni? Se anche qualcuno l’ha anche solo immaginato, non l’ha poi realizzato e di sicuro non ha mai avuto il coraggio di presentarlo alla biennale di Venezia, coraggio che invece ha dimostrato l’artista Joana Vasconcelos.
Chi ha mai progettato un tunnel di bustine di tè al cui interno si sprigiona il delizioso profumo della bevanda?
Elencare tutte le opere particolari presenti alla mostra sarebbe un’impresa disumana. La cosa più importante dell’esposizione è l’accessibilità che l’arte contemporanea dimostra, non importa comprenderne il significato, basta essere disposti ad aprirsi verso questo mondo, questa realtà a noi contemporanea che non possiamo ignorare perché ci identifica e ci caratterizza. Noi abbiamo camminato su un pavimento di bottiglie di birra rovesciate, noi siamo saliti su un’opera d’arte-montagna alta 40 metri, noi abbiamo avuto il coraggio di ammirare e lasciarci emozionare da opere d’arte che alcuni reputano non degne di essere chiamate con questo nome.
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