Uscendo dall’ufficio mi trovo sempre a fissarlo, in alto, spropositato, gigantesco (come solo a Milano riescono a fare). E’ il claim di un cartellone pubblicitario, forse di un’intera campagna. Reclamizza un paio di braghe che all’apparenza sono piuttosto trendy, con tasche enormi dappertutto, vita bassa color sabbia militare. I manichini di turno che indossano le braghe sono tre: un rappresentante della specie femminile, uno maschile e un cucciolo d’uomo. In basso a destra sonnecchia un leopardo, giuro! una bestia del genere con le macchie e gli artigli. Sotto le loro scarpe e in lontananza si allunga, in assenza di prospettiva, il deserto. I tre manichini appartengono a un’etnia meticcia, pelle scurina, capello nero, zigomo alto, e tutti ostentano il torso nudo (tranne la femmina, magra come un chiodo e con una fascia a coprirle gli attributi sessuali secondari). Lo sguardo è orientato a una fatidica e impegnativa missione, impossibile sapere quale, perchè hanno gli occhi che scompaiono all’orizzonte. E poi la frase a caratteri cubitali, che io digrigno fra i denti, bestemmiando, ogni volta che mi trascino in direzione della metro: what are you fighting for? what are you fighting for? what are you fighting for?
Quando mi lascio alle spalle il cartellone, tutte le sacrosante volte, mi dico che non posso star male per un cartellone, mi ripeto che così non va bene, parlo coi muri e dico che la devo piantare, e che la vita è bella anche se ci sono le pubblicità. Poi scuoto la testa e spazzo via questi tentativi riformisti e mi vedo per quello che sono, e rimugino sulla frase: perchè quella frase?
Perchè nella società post moderna, dove il conflitto si vuole abolito (infatti lo esportiamo, come la democrazia e la satira) occorre trovare altre strade: tutti si devono sentire in lotta, possibilmente per una giusta causa, possibilmente lontana: i manichini del cartellone combattono per qualcosa di nobile, visto che non sono vestiti come nazi-skin e sono negri (ma belli) e vivono in simbiosi con la natura (il coguaro/leopardo) e l’ambiente (il deserto). E’ tutta qui la tragedia di quel cartellone: l’indignazione per l’ingiustizia (bagaglio teorico standard di chi è nato col culo al caldo nelle moderne società metropolitane, di solito negli anni ottanta), per comodità, diventa un paio di braghe, una lattina di roba frizzante, un euro al bambino negro di turno via sms, il comizio di un cantante prima che cominci a suonare. E via dicendo. Esiste un vero e proprio ventaglio di proposte per fare quelli che sono impegnati: dal volantino (giuro) che pubblicizza “la settima giornata mondiale del prigioniero politico rivoluzionario” all’adozione del gatto maltrattato, dalla fornitura di medicine e roulotte alla donazione di libri, dalle cause animaliste (segmento di mercato plantigradi) a quelle dell’apertura di conti bancari etici e solidali. Ma queste sono cose già dette, ci sono libri e libri che ne parlano. Finalmente adesso la pubblicità ci rende le cose più semplici, non serve più nemmeno l’impegno, non occorre prevedere spese aggiuntive. Basta acquistare un paio di braghe per sentirsi coinvolti nella lotta per un mondo migliore, semplicemente andandosene sculettando nel deserto, accompagnati da un ghepardo rincoglionito e dai componenti (etnicamente interessanti) di una famiglia di fatto. E tu? mi chiedo scendendo le scale della metro a Moscova, tu per che cosa stai lottando?
5 Responses to “What are you fighting for?”