Ritengo che sia un bel post quello che hai scritto sotto. E non a caso te lo sei tenuto dentro, a discapito del festival, della caduta del governo e via dicendo. Ammiro questa cosa di doverne parlare, a prescindere dall’appeal della notizia. Quindi grazie per l’esempio.
Venendo al merito, non mi piace molto l’abuso del termine generazione, che utilizzi spesso, come se quella degli anni settanta fosse stata esclusivamente la generazione della rivolta. Conosco persone che gli anni settanta, pur avendoli vissuti, non li ricordano come anni di guerra: gente che non lottava per sovvertire la società, ma respirava il periodo di cambiamento, magari si arrabbiava, lavorava, lottava per i propri diritti e si divertiva. Dunque la “generazione armata” cui fai riferimento non può godere, a parer mio, di questa classificazione, e loro stessi! quelli della lotta armata, non si sentivano una generazione (anche se adesso magari lo pensano). Si rispecchiavano piuttosto in un’avanguardia di intellettuali, destinati (loro malgrado) a passare dalla teoria alla prassi. In altre parole, avrebbero voluto farsi generazione. In realtà erano una minoranza di persone, per quanto il numero complessivo di fiancheggiatori, terroristi, collusi, infiltrati e simpatizzanti possa oggi spaventarci. Questo per dire che i casi d’ingiustizia che denunci non possono essere derubricati così facilmente, proprio in quanto compiuti da una minoranza organizzata (e non da una generazione) che ha sferrato un attacco indiscriminato e senza precedenti allo Stato.
Non è il periodo post-resistenza per intenderci, dove il perdono generalizzato ha rimosso il peccato collettivo degli italiani, e nemmeno tangentopoli è paragonabile, perchè fare un reato contro lo Stato è il pane quotidiano della maggioranza degli italiani, che lo si voglia ammettere o no. Questo spiega la differenza del trattamento ricevuto. Nei primi due casi si è rimosso cinicamente una colpa collettiva (se tutti peccano, non esiste il peccato). Nel caso dei terroristi (minoranza colta che si è mossa contro lo Stato) la pena va scontata fino in fondo.
Dunque gli ex-brigatisti pagano fino in fondo, ma questo non è sbagliato, questa non è ingiustizia. Nel paragonare il facile esito di tangentopoli alle pene comminate ai terroristi, l’errore non è che i secondi scontino, ma che i primi non lo facciano.
E proseguendo nel ragionamento, quando i nostri ex-terroristi sono fortunati e la pena dello Stato si esaurisce, gli rimane tuttavia da scontare la pena aggiuntiva che gli infliggono gli italiani, per la loro diversità, per i loro delitti efferati, per il loro tentativo, fallito, di farsi generazione. Questa mi pare che sia l’ingiustizia di cui stai parlando.
Ed è su questo punto che, ancora una volta, non sono d’accordo con te.
Credo che la Giustizia sia solo quella dello Stato (comunque esso si incarni) e questa dovrebbe essere proporzionata e certa, giusta per l’appunto cioè la mediazione delle diverse opinioni espresse da chi è rappresentato da quello Stato. E questa Giustizia ha un problema ben più serio dei casi di ingiustizia popolare che citi nel tuo post. Parlo dei minorenni in galera, delle celle orribilmente affollate, della mancanza di medicine di base, d’igiene, delle offese alla dignità, di farmaci salvavita che non ci sono (o venduti sottobanco), di fiumi di droga, di violenza dietro le sbarre, dell’assenza di cure palliative, di burocrazia agghiacciante, dell’impossibilità a rifarsi una vita. Non è esattamente la stessa cosa, evidentemente, per le persone rosse e nere che citi, alle quali viene più o meno democraticamente impedito di collaborare con lo Stato. Queste persone hanno pagato il debito con la società (duro o morbido che fosse) e adesso lavorano, di norma hanno una vita intellettualmente ricca, alcuni partecipano anche del gossip, scrivono e fanno politica. Meglio per loro, rispondo, non esiste incompatibilità tra il loro passato, la pena scontata e quello che sono adesso. Ma tuttavia esiste un limite, e questo limite è dato dall’avere cercato di demolire lo Stato a colpi di pistola. Un reato commesso da un amministratore pubblico qualsiasi può prevedere il licenziamento e l’impossibilità per il condannato di entrare nuovamente nello Stato. Ritengo corretto tutto questo perchè l’amministratore ha tradito la fiducia dello Stato e i meccanismi di rappresentanza che ne costituiscono uno dei principali fattori di esistenza. Invece un terrorista (magari pure assassino), non appena scontata la pena, può diventare sottosegretario o collaborare con lo Stato, e da questo percepire uno stipendio. Nessuna fiducia tradita in questo caso: apparentemente non è successo niente. Niente. Questa, in effetti, è la vera ingiustizia.
Gli ex-terroristi, a parer mio, non possono essere perdonati fino a questo punto, perchè il perdono totale è identico all’assenza del perdono (e al prevalere della vendetta), dimensioni entrambe che rifiuto in partenza. Nessuna colpa perpetua dunque, niente ergastoli o pene di morte. Semplicemente l’ex-terrorista sconti la sua pena e non entri nello Stato e nelle sue istituzioni. E il semplice dipendente pubblico che compie reato, venga allontanato con ignominia, dopo aver pagato alla collettività per la fiducia tradita. Dunque quello che non funziona è la disarmonia tra il trattamento ricevuto dai primi e quello ricevuto dai secondi, ma non (come tu affermi) nella direzione di permettere agli ex-terroristi di accedere alle cariche dello Stato come i dipendenti pubblici corrotti, quanto piuttosto, io credo, nell’impedirlo a entrambi.
Quanto alla colpa infinita e alla riprovazione sociale che a quanto pare, colpisce queste persone, mi dispiace per loro, sul serio. Ma non si può pensare di poter sparare in faccia alla gente e poi immaginarsi che tutto sia come prima, questo è troppo comodo per la propria coscienza e per quella collettiva. Io a prendere l’aperitivo con un fucilatore fascista non ci vado, perchè la pochezza dei suoi argomenti, la banalità malvagia di aver compiuto quello che ha fatto non è cosa interessante ai miei occhi. Stessa cosa per chi ammazza un padre di famiglia in bicicletta sproloquiando su un dattiloscritto. No grazie, si becchino pure la riprovazione sociale e si sforzino di compiere fino in fondo, e fino alla fine, dignitosamente (visto che i mezzi intellettuali ce li hanno), le rispettive riflessioni personali, le parabole delle loro vite, loro che ancora ce l’hanno una vita. Altro che cariche nello Stato.
State bene, Cyrano.
5 Responses to “Quando erano prigionieri politici: lettera aperta a Noantri”