Ho visto il film d'animazione Ratatouille.
La fenomenologia semantica della pellicola in questione richiama alla memoria del vissuto empirico gli esempi più riusciti della produzione popolare nostrana, quella dove i protagonisti del cosiddetto volgo si ergevano, a seguito di vicende trasmigranti ed equazioni collaterali di indubbio effetto, al ruolo di protagonisti e/o eroi assoluti, in particolare così visti dalla loro sfera coabitativa che, dunque, passava dal ritenerli inetti al ritenerli eccellenti. Il processo d'eccellenza è la linea guida dominante di questo non-film.
Nello specifico, l'ascesa del roditore celeste, (dove il celeste non è più un colore casuale, bensì a-laico) da semplice - appunto - roditore celeste a celeberrimo cuoco ed esponente d'un certo spicchio dell'intellighenzia culinaria francese, è una metempsicosi dei desideri nascosti di ciascuno. Dirò di più: come nel caduceo due serpi sapienziali si annodano intorno al bastone che fa da continuum, qui si misurano due serpeggiamenti che penetrano a spirale la narrazione fintosaggistica; ebbene io qui dico che Ratatouille indica la via del capolavoro agli astanti.
Sin dal titolo, che i più potrebbero confondere come un semplice coacervo fonetico di lemmi indicanti la figura del ratto, certamente, e della "vill", ovvero della comunità, del popolo, del villaggio e che, invece, nasconde, questo titolo, un tentativo, non di ermeneutica, ma anzi caratterizzato da una brillante, adamantina, genialità di nomen-omen.
Ratatouille altro non è che un piatto, un mix ben posato di verdure. Proprio come il topo protagonista è una mistura romantica di coraggio e impaccio. E allora che altro è, questo, se non la più ineccepibile prova di meta-filmografia che il cinema abbia mai partorito dai tempi di Kurosawa o Orson Welles?
In Ratatouille l'extraletterario è devastante, non solo per la nube mercantilizia e quella paradorniana, fatta di ignoranza e hortus conclusus, ma soprattutto per l'ipocrisia di chi addita mafie a partire dalla propria cosca. E sono contingenze transeunti, mentre i testi, se passano il metabolismo della specie, sono tutto tranne che transeunti, e noi possiamo dare giudizi evanescenti, anche entusiasti, in attesa che si compia la permanenza nomade di un libro o la sua definitiva scomparsa. Ratatouille non scomparirà, perciò mi permetto d'essere entusiasta; Ratatouille non è oggetto transeunte ma oggetto immobilis et evacuazionis, per dirla come Kaiser Soze. (o era il draghetto Grisù, non mi ricordo)
Inutile affermare, perciò, quanto in Ratatouille emerga anche un altro topos del cinema moderno, ma, io suggerirei, della totalità della tentacolarità dell'ars, ecco, questo topos, che in Ratatouille nemmeno topos è, ma, direi, noumeno del topos e quindi RATTO, questo non-non-concetto del-non-non-non-concetto è il Male.
Il Male in Ratatouille è incarnato in un non-Male che è poi il bene (o comunque il non-tanto-male, quindi il quasi-bene), vale a dire lo Chef. Il Male è il Male e non ha agenti o immagini: è il Male ed è l'"io" la trappola inindagata con cui l'incarnazione del male sembra essere demonicamente mossa, mentre la sua routine esistenziale è già il Male, senza separatezza dal soggetto agente.
Ma.
L'oggetto di questo Male, in Ratatouille è un oggetto-soggetto che, generalmente, nella vita vera, per così dire, è visto come Bene, ovverosia lo Chef, l'uomo della cucina: difatti difficilissimamente chi opera ai fornelli viene indicato come il Male, perché, non a caso, è sua la responsabilità di nutrire, quindi di far crescere, vale a dire di far rimanere in vita. Vita uguale non-male. Eppure in Ratatouille questo non avviene: anzi si palesa l'opposto contrario. Il Male s'incarna nel bene: e questo non-male è l'epicentro del lungometraggio-capolavoro qual è Ratatouille, proprio perché non-lungometraggio e quindi non-accettazione-dell'accettazione-della-non-accettazione. Ratatouille è oggetto a-letterario, a-sinottico e, soprattutto, extra-sinaptico prodromico della luce del sole, o della luna, a seconda dell'orario, che ci avvolgerà una volta usciti dalla sala cinematografica; sala cinematografica che non è più sala cinematografica, ma qualcosa d'altro, una non-sala cinematografica dove i non-topoi si stravolgono davanti ai topoi, tantissimi topoi, in Ratatouille ve n'è un'intera comunità, a dire il vero, pure se questa comunità, la comunità dei topoi, kantianamente, ci appare come una non-non-comunità e dunque... [Mode G. Genna OFF]
2 Responses to “Non recensione 2.0 a ‘Ratatouille’ (ovvero come un non-topo può non-diventare noumeno)”