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Normale, sul piano del gioco e dei risultati, lo era diventata già dall'inizio del 2008, dopo una prima parte di stagione su livelli stratosferici come prestazioni (fisiche, più che di gioco) e risultati. L'apice lo si è toccato nel derby natalizio, l'ennesima partita in cui si dimostrò che la vittoria l'Inter non se la costruiva o guadagnava, semplicemente decideva di andarsela a prendere, e la prendeva.
Nel girone di ritorno invece la squadra si è sfaldata sotto il peso di una serie quasi imbarazzante di infortuni, e di un'Europa da conquistare. Si è iniziato a giocare partite alla pari con le altre squadre di Serie A, si è smesso di correre e di imporre la propria muscolarità, e come ovvia conclusione, si è anche iniziato a perdere. L'inerzia era il carburante di una squadra a pezzi fisicamente, tenuta insieme solo dal morale e dalla dignità di chi non poteva perdere uno scudetto già vinto. Paradossalmente, penso che se Mancini non avesse sbroccato quella sera della sconfitta col Liverpool, forse avrebbero perso davvero il campionato. Quello sfogo assurdo e improvviso, e subito ricucito come se nulla fosse, ha messo alla luce un disagio che, se l'avessero lasciato circolare nei corridoi della Pinetina, avrebbe prodotto altre figuracce. I riflettori sui malumori interni, sono stati il collante che ha evitato la caduta verticale. Il crollo c'è comunque stato, ma una Roma adolescienziale non ha saputo approfittarne, tanto che più di vittoria dell'Inter, si dovrebbe parlare di sconfitta giallorossa.
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L'aspetto forse più affascinante di questo campionato è stato il suo intrecciarsi a doppio filo con le vicende tragicomiche nerazzurre. Siamo stati un po' tutti osservatori di un'Inter incapace di accorgersi di quello che era ormai evidente: che l'incantesimo era, non dico finito, ma sospeso.
Fino all'ultimo (derby perso con il Milan, pareggio con il Siena) hanno voluto affidarsi all'inerzia, quasi che si dovesse vincere per volere divino, per manifesta superiorità nei mezzi e nelle intenzioni, ma non nella pratica. L'Inter si sentiva forte, ma non ha saputo rendersi conto che stava perdendo uno scudetto, che era ritornata normale. Sabato sera, mentre ero impegnato nella trasferta di lavoro ravennate, ho visto sventolare bandiere nerazzurre nonostante la Coppa Italia l'avesse vinta la Roma. Il simbolo di una stagione in cui si doveva vincere e si è vinto, di una convinzione irriducibile che va aldilà del campo, del gioco e del risultato e rasenta il patetico. Scene simili di una convinzione radicata all'interno della propria fazione che si afferma sulla Realtà, se ne sono viste anche nella Roma seconda ma "moralmente prima". E' un calcio identitario, dove persino i risultati sono scavalcati dall'umore delle sue componenti: i tifosi integralisti, i calciatori piagnoni, le società schizofreniche. Vincere non è che non basta più, semplicemente è un corollario alla messa da celebrare, diventa relativo, interpretabile e manipolabile. E dunque si gioisce se si sprecano occasioni, si licenziano allenatori vincenti, si sprecano ulteriori miliardi per perfezionare il perfetto. Un calcio onanistico dove si gioca in 11 contro se stessi.
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