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UNIVERSI
di Fabrizio Negrini (
negrinifabrizio@libero.it
)
Capitolo 1
L'altra faccia della medaglia
Ricordo il giorno della mia "nascita" come se fosse ieri. La prima cosa di cui ebbi coscienza fu... il buio. Con il passare degli anni avrei cambiato opinione, ma quella era la mia prima esperienza del buio - anzi, era la mia prima esperienza in assoluto - e in quella particolare occasione l'oscurità mi sembrò accogliente e protettiva. Era come un'ovatta nera e morbida che mi avviluppava e mi riscaldava. Stavo bene lì, al buio. Tuttavia sentivo che, oltre all'ovatta nera, doveva esserci qualcos'altro nell'universo. Cominciai a chiedermi dov'ero e cosa ci facevo lì. Ma non riuscii a trovare una risposta soddisfacente. Sapevo solo che esistevo e che mi trovavo da qualche parte, nell'universo. Il buio, l'esistenza e l'universo erano le uniche forme di consapevolezza che possedevo in quel momento. Ma la domanda che più mi tormentava era: "Chi sono io?". Per quanto mi sforzassi, non riuscivo proprio a trovare una risposta. Riguardo a questo punto c'era il buio totale nella mia mente.
Poi, pian piano, piccole scintille di luce rischiararono l'oscurità e cominciai a scorgere deboli ombre confuse proiettate su uno sfondo sfocato: ombre vaghe e indefinite, probabilmente di alberi. Sì, sembravano proprio alberi: piante alte e frondose, cariche di frutti. Centinaia, migliaia, milioni di frutti, tutti uguali, se ne stavano là, appesi agli alberi, e mi guardavano. Erano frutti rotondi, dai contorni sfumati. Forse mele. No, non erano mele. Sembravano, piuttosto, arance: dolci e succose arance dorate.
Finalmente, la luce della coscienza si accese viva nella mia mente e mi resi conto di non essere in un giardino, ma in una stanza. Era una stanza circolare molto ampia. Doveva essere un magazzino o un laboratorio, perché il soffitto era piuttosto alto. Il salone era debolmente illuminato e la sommità del soffitto - una cupola emisferica completamente dipinta di nero - si scorgeva a malapena. Il pavimento era leggermente concavo e occupato da centinaia di poltroncine disposte in numerose file concentriche. Le poltroncine mancavano nella parte centrale del pavimento e in corrispondenza di quattro corridoi rettilinei che attraversavano le file perpendicolarmente. Esattamente al centro della grande sala emisferica fluttuava, alcuni metri sopra al pavimento, una grande struttura trasparente che diffondeva una luce fioca.
La "cosa" in mezzo alla sala era piena di una polvere soffice e lucente che si muoveva adagio adagio. Non capivo se la polvere fosse illuminata da qualche misterioso raggio luminoso oppure se fossero proprio i granelli a emanare la luce. L'oggetto, che raggiungeva quasi la sommità della volta, era composto da due identiche bolle trasparenti a forma di goccia, poste esattamente una sopra l'altra. La "cosa" se ne stava là, sospesa a mezz'aria e perfettamente immobile. Le due grosse bolle erano divise da una minuscola strozzatura centrale, attraverso cui passava un filo di polvere lucente. Al centro della strozzatura la polvere formava un grumo compatto e scuro che pareva immobile. Appena superato lo stretto pertugio, la polvere scivolava via velocemente, formando delle nuvole lievi che volteggiavano all'interno delle bolle come sospinte da un vento leggero. Dopo aver volteggiato un po', le nuvole si frammentavano e la polvere luminosa si aggregava in modo bizzarro, fino a formare un complicato intreccio di filamenti e velature. Quello strano disegno tridimensionale assomigliava a qualcosa di familiare, ma non riuscivo proprio a capire cosa fosse o cosa volesse rappresentare.
Avrei voluto avvicinarmi per toccare quelle strane bolle, ma non ne avevo il coraggio. Alla fine mi decisi e avanzai un po'. Ero a un metro di distanza, quando notai un particolare che mi incuriosì. Quella che poco prima avevo scambiato per un grumo di polvere, era invece una microscopica sfera dal colore indefinibile: nera come la notte più buia e, allo stesso tempo, risplendente di mille colori. Sembrava che la luce vi girasse attorno, senza toccarla, e poi fuggisse via impazzita, sparpagliandosi in milioni di pezzetti.
Mi avvicinai per osservarla meglio. Era proprio dalla piccola sfera iridescente che uscivano i granelli di polvere luminosa. Esaminandoli con più attenzione, mi accorsi che quelli non era affatto granelli di polvere. Sembravano, piuttosto, schegge incandescenti fuggite da un falò e avevano un aspetto stranamente familiare: alcune avevano la forma di sferette allungate, altre erano simili a piccole girandole.
"Sono galassie!" esclamai, appena capii che cos'erano quei "granelli" di polvere luminosa. "Galassie in miniatura."
Milioni di minuscole galassie ruotavano e volteggiavano attorno a me, sopra e sotto di me, attraverso di me. Ad un tratto mi resi conto che ero dentro alla "cosa". Non capivo come avevo fatto ad entrarci, ma adesso ero lì e volteggiavo fra galassie a spirale, ellittiche e irregolari. All'inizio ebbi un po' paura ma, mentre fluttuavo in quello strano universo in miniatura, mi sembrò di sentire un suono, una musica dolce e rassicurante che mi tranquillizzò. Poi, mentre le osservavo, notai che le galassie diventavano più grandi. O, forse, ero io che mi stavo rimpicciolendo.
Qualche istante dopo raggiunsi la dimensione di quelle minuscole galassie e continuai a rimpicciolire. Ora, esattamente di fronte a me, c'era una galassia che sembrava proprio la Via Lattea. La galassia diventò sempre più grande e, alla fine, mi inghiottì. Dopo un po' cominciai a riconoscere le costellazioni e le stelle più familiari. Ecco l'Orsa Maggiore e l'Orsa Minore e là, leggermente spostata rispetto ai due carri, Cassiopea, la "regina seduta sul trono". Laggiù c'erano il Toro e l'Auriga e, un po' più in basso, il grande rettangolo di Orione con le sue bellissime stelle giganti: quella in basso a destra era senza dubbio Rigel, la supergigante azzurra e quella più in alto, luminosissima, non poteva che essere Betelgeuse, la supergigante rossa. Un po' più spostata, una stella di un bianco sfolgorante faceva bella mostra di sé: Sirio, la stella più luminosa del cielo terrestre. Il Sole, con la sua corte di pianeti, non poteva essere molto lontano, ma non essendo particolarmente luminoso si confondeva in mezzo allo sfavillio generale. All'improvviso, una visione fantastica, di una bellezza da togliere il fiato, mi si parò davanti. Un ammasso di stelle azzurrognole e luminosissime erano lì, di fronte a me, e sembrava che mi sorridessero. La vista delle Pleiadi, così belle e risplendenti, mi fece quasi commuovere. Per un attimo mi sentii anch'io una stella del firmamento.
"È affascinante, non è vero?"
Trasalii. Quella voce si era materializzata all'improvviso e credevo non ci fosse nessuno nella stanza. Ma riconobbi subito la voce e mi tranquillizzai.
"Sì, è bellissima. Ma che cos'è, Professore?" domandai. E, subito dopo, mi resi conto che ero uscita dalla "cosa" e ritornata, in un lampo, alle dimensioni normali. Lui era proprio davanti a me. Non ricordavo esattamente il suo nome. Sapevo solamente che era il Professore. Mi sembrava di conoscerlo da sempre, ma più ci pensavo e più mi rendevo conto che non sapevo assolutamente nulla di lui. Non sapevo chi era, né quale fosse il suo lavoro e nemmeno perché fosse lì. Sapevo solo che lui era il Professore e che io... Già, pensandoci bene, non avevo ancora risposto a nessuna delle mie domande iniziali: "chi ero io?", "che cosa ci facevo in quello strano posto?" e, soprattutto, "che cos'ero io, esattamente?". L'unica cosa di cui ero certa era che esistevo.
"Cogito, ergo sum," pensai. Ma non sapevo nemmeno perché mi fosse venuta in mente quella strana frase.
"Quello è un ologramma," dichiarò il Professore, "un'immagine tridimensionale del nostro universo."
"A cosa serve?" Tra le mille domande che avrei potuto e voluto fare, la prima cosa che mi venne in mente fu quella sciocca e inutile domanda.
"Serve a mostrare agli studenti come è fatto l'universo," rispose lui. Poi, con quel tono un po' solenne e un po' benevolo che i professori usano, di solito, quando fanno lezione, aggiunse: "Il luogo in cui ti trovi si chiama "Planetarium" e quello che vedi è un modello, in scala estremamente ridotta, del nostro universo. In realtà, si tratta di un modellino didattico molto semplice. L'universo in cui viviamo è immensamente più complicato di questo ologramma."
"Allora, quelle non sono galassie e stelle reali?" Quella cosa - ologramma o modellino che fosse - stimolava la mia curiosità in maniera morbosa.
"No, sono solo puntini luminosi che volteggiano nell'aria. Un ologramma non è altro che un'immagine tridimensionale ottenuta con l'impiego di raggi luminosi opportunamente manipolati. Una specie di illusione, insomma."
"A me sembra un'illusione molto reale. L'hai fatto tu, Professore?"
"No. L'ologramma è opera di Mark, uno dei miei assistenti."
Già, Mark. Ero quasi certa di conoscere anche Mark, ma non ricordavo niente neppure di lui: che tipo fosse, che faccia avesse, che lavoro facesse. Dovevo cominciare ad indagare su quello strano posto e sulle persone che lo abitavano.
"Professore, anch'io sono una tua assistente?"
"In un certo senso," rispose lui, con un accenno di sorriso. "Vieni, ti faccio conoscere gli altri."
Il Professore cominciò a camminare in direzione di una piccola porta da cui usciva una luce bianca e intensa. Io lo guardai mentre si allontanava e, nonostante non mi fossi mossa di un centimetro, mi resi conto che ero sempre vicina a lui. Poi guardai l'ologramma e vidi che stavo ancora navigando fra le stelle. Ero là dentro, piccola come le galassie fasulle e, allo stesso tempo, vicino al Professore, grande quanto lui.
"Che cosa strana," pensai.
Concentrai i miei pensieri solo sul Professore e mi accorsi che, senza volerlo, lo stavo seguendo. Entrammo in una stanza molto più piccola della precedente e illuminata da una luce bianca e diffusa che sembrava provenire direttamente dalle pareti e dal soffitto. Due persone, sedute su comode poltrone imbottite, ci stavano guardando. Ebbi l'impressione che stavano aspettando proprio me. La parete dietro di loro era piena di monitor, pannelli luminosi e molti altri congegni a me sconosciuti.
"Lui è Mark," disse il Professore, indicando un bell'uomo dalla pelle scura e i capelli neri e ricci. "E lei è Elettra." La donna aveva la pelle color ambra, gli occhi verdi e i capelli corvini tagliati cortissimi. Anche lei era molto bella. Quindi, guardando verso di me, aggiunse: "E io mi chiamo Proteo. Proteo Spini. Ora lo staff è al completo."
"Benvenuta, Eva," dissero Mark ed Elettra, quasi simultaneamente.
"Dunque, io mi chiamo Eva," pensai. "Adesso, almeno, conosco il mio nome." Non sapevo spiegarmi il perché, ma sentivo che tutto questo mi era familiare, che anch'io, "in un certo senso", facevo parte dello staff.
"Loro sono i miei assistenti diretti," mi spiegò Proteo. "Il nostro lavoro consiste nel garantire le comunicazioni interplanetarie con gli altri mondi abitati. Su alcuni satelliti del sistema solare sono state costruite basi scientifiche e industrie estrattive. Noi ci occupiamo delle trasmissioni fra la Terra, le basi esterne e le astronavi di collegamento. Da qui viene gestita e organizzata l'intera rete di comunicazioni che fa capo alle Nazioni Unite d'Europa."
"Ma questa non è l'unica attività del nostro centro," intervenne la donna. "E nemmeno la più importante. Il professor Proteo Spini è un eminente scienziato e studia, da sempre, i misteri dell'universo. In particolare, ora sta tentando di risolvere l'enigma più importante e più oscuro di tutti. Proteo sta cercando una risposta alla domanda che da sempre tormenta l'umanità: "perché esiste l'universo?"."
Ascoltavo rapita le parole del Professore e di Elettra. Ancora non capivo cosa c'entravo io in tutto questo, ma sentivo che la mia presenza lì era importante. Intuivo che il mio ruolo era essenziale.
"Naturalmente, questa è una domanda alla quale è molto difficile rispondere," proseguì Elettra. "A dire il vero, non siamo nemmeno sicuri che sia possibile trovare una risposta. È anche per questo che sei nata tu. Tu sei qui per aiutarci in questa impresa. Il tuo compito sarà quello di indagare sul segreto più arcano dell'universo: lo "scopo" della sua esistenza. Dovrai aiutarci a scoprire "perché" esiste l'universo."
Adesso ero veramente disorientata. Non avevo la minima idea di come avrei potuto aiutarli in un'impresa simile. Cercai, nelle pieghe della mia memoria, qualcosa che potesse aiutarmi a capire chi ero e in quale modo avrei potuto essere loro d'aiuto. Non trovai molto. C'erano tanti frammenti di ricordi, più o meno chiari: concetti astratti, formule matematiche, mappe stellari, ma niente che riguardasse la mia persona. Com'ero io veramente? Bionda o bruna? Bella o brutta? Alta o bassa? Ed ero veramente una persona? Oppure... ero anch'io una macchina, come quelle che vedevo dietro di loro?
"Professore, chi sono io?" gli chiesi a bruciapelo.
Come se avesse letto i miei pensieri, Proteo rispose: "Tu non sei una persona come noi, ma non sei nemmeno una macchina." E, subito dopo, cominciò la sua lezione.
Mi concentrai intensamente sulle sue parole e, in un attimo, fu come se gli altri non esistessero più, come se in tutto l'universo non fossimo rimasti che io e il Professore. In quel preciso istante mi resi conto che non ero semplicemente vicina a lui, ma parte di lui. Quando Proteo cominciò a spiegare chi ero e da dove venivo, io non stavo semplicemente ascoltando una lezione: io "ero" la lezione.
"Un paio di secoli fa sono stati inventati cervelli artificiali pseudoumani. Cioè cervelli sintetici molto più veloci di quelli umani e in grado di provare emozioni e sentimenti quasi umani. Questi cervelli vengono oggi montati sugli androidi: robot molto simili a noi, sia fisicamente che intellettualmente. Fino a ieri queste menti artificiali avevano bisogno di un "hardware" per funzionare, ossia di una componente materiale su cui far marciare il "software", ovverosia i loro pensieri. Nessuno era mai riuscito ad ottenere una mente artificiale senza usare reti neurali sintetiche. Questo fino a ieri. Oggi, in un certo senso, siamo in grado di far funzionare il software senza l'hardware. Tu sei la prima mente artificiale pseudoumana che usa un cervello "virtuale" per pensare."
Ma certo! Fin dall'inizio mi ero resa conto che io non avevo un corpo materiale, che la mia mente era in grado di fluttuare nello spazio senza impedimenti e senza limiti. Semplicemente non ci avevo pensato. O, forse, non l'avevo capito. Però avvertivo anche che, indubbiamente, il mio "io" era femminile. Io mi sentivo una donna.
"Perché mi hai chiamato Eva?" gli chiesi. Era chiaro che era lui l'artefice della mia esistenza, il mio "creatore".
Sorrise. "Quella è stata un'idea di Elettra. Le ricordavi una persona che si chiamava Eva."
"Già," intervenne Mark. "Una ragazza sfortunata, morta molti anni fa."
"Quindi, mi avete costruita a somiglianza di questa Eva perché Elettra potesse riavere la sua vecchia amica?" dissi, un po' delusa. Più ci pensavo e più mi sentivo una persona libera e indipendente. Non mi sentivo affatto un androide. Né, tantomeno, il fantasma di un'altra donna.
"No, non è così," precisò Proteo. "La persona a cui fa riferimento Mark non era amica di Elettra. È morta molti anni prima che Elettra nascesse. Inoltre, noi non ti abbiamo "costruita". Non nel senso letterale del termine."
Il Professore fece una pausa, si sedette su una poltroncina girevole, si appoggiò comodamente allo schienale e cominciò a fissare un punto lontano dello spazio, oltre le vivide pareti di quel piccolo studio. Capii che stava raccogliendo le idee per raccontare la storia della mia nascita.
"Il tuo non è un nome di donna," esordì. "EVA, in realtà, è un acronimo e sta per "Entità Virtuale Arcanoide"."
"Che brutto nome. Cosa vuol dire "arcanoide"?"
"Significa che ha attinenza con il livello "arcano" dell'universo."
"Ne so quanto prima."
"Okay, allora andiamo per ordine. Comincerò spiegandoti che cosa significa, per noi, "entità virtuale"."
Si fermò un attimo a pensare. Probabilmente stava cercando le parole più adatte per descrivere, in maniera semplice, un concetto che intuivo assai complesso.
"Per chiarirti il concetto, userò una metafora musicale. La senti questa musica?"
"Sì. Che musica è?" Fin da quando ero entrata nell'ologramma avevo avvertito quel dolce sottofondo musicale. Ma non ci avevo badato molto, confusa da quanto mi stava accadendo.
"È la "Pastorale" di Beethoven. Forse prima non l'avevi notata, ma è da un po' che la stai ascoltando. La musica era lì con te e, come te, fluttuava nello spazio. Non è bellissima? Questo è il primo movimento: "allegro ma non troppo". È stata scritta più di otto secoli fa, ma è ancora estremamente suggestiva."
Proteo sembrava rapito dalla musica. Stette lì ad ascoltarla per alcuni minuti, senza dire una parola. Dovetti convenire che era veramente una musica bellissima. All'improvviso, la musica cessò. Proteo riaprì gli occhi e guardò nella mia direzione.
"Quella che hai appena ascoltato è una sinfonia unica, una musica immortale. Quando i musicisti ripongono i loro strumenti, la Pastorale esiste ancora. Chiunque possieda un computer, o un impianto stereofonico, può ascoltare questa musica in qualsiasi momento. E sarà sempre la sesta sinfonia di Beethoven. Ora, prova ad illustrarmi ciò che hai appena ascoltato. Prova a descrivermi, con parole tue, la Pastorale di Beethoven."
Cercai, nei meandri più nascosti della mia memoria, qualche concetto che mi aiutasse a dare una risposta coerente: "La sinfonia è... un componimento musicale per orchestra, diviso in vari movimenti..."
"No," mi interruppe subito Proteo. "Non voglio una definizione dal vocabolario. Voglio che tu mi descriva, con parole tue, ciò che hai appena ascoltato."
Mi sembrava di essere uno studente sotto esame e, ovviamente, non fui capace di dare una risposta esauriente. Riuscii solo a trovare, nascosta da qualche altra parte della mia memoria, una definizione un po' più elaborata di sinfonia: "La sinfonia è una combinazione di suoni di vario tipo, prodotti da molti strumenti diversi che suonano contemporaneamente o in successioni prestabilite, secondo regole concordate e codificate nel linguaggio musicale."
"Va bene, Eva," disse Proteo. "Come concetto è valido. Ma tu non hai risposto alla mia domanda. Tu, in realtà, non mi hai descritto la sesta sinfonia di Beethoven. Mi hai dato, semplicemente, una definizione di sinfonia. Anzi, nemmeno quella, perché la tua definizione può adattarsi altrettanto bene ad una qualsiasi esecuzione d'orchestra."
Mi sentii mortificata, ma Proteo mi consolò immediatamente.
"In effetti, non è possibile descrivere "a parole" una sinfonia. L'unico modo per descrivere, in modo esauriente, la Pastorale a una persona che non la conosce è... fargliela ascoltare. E ora veniamo all'aspetto squisitamente tecnico. Da un punto di vista fisico, una sinfonia - come qualsiasi altra musica - è formata da onde sonore che si propagano nello spazio in modo regolare, rispettando le leggi dell'acustica e dell'armonia. Sai che cosa sono le onde sonore?"
"Sì, credo di saperlo. Ma non penso di essere in grado di spiegarlo."
"Le onde sonore sono provocate dalle molecole d'aria che vibrano e oscillano nello spazio. In pratica, la vibrazione di un oggetto - ad esempio la corda di un violino - innesca una reazione a catena tale che si formano degli strati dove l'aria è compressa, alternati a strati dove le molecole sono meno concentrate. Ogni strato provoca la compressione e la dilatazione di quello vicino. Gli strati adiacenti, cioè, si comprimono, poi si dilatano e si comprimono nuovamente, in rapida successione. In questo modo le onde sonore si allontanano dalla sorgente che le ha generate."
La musica della Pastorale tornò ad echeggiare nella stanza e Proteo rimase alcuni secondi ad ascoltarla.
"Anche la musica della Pastorale è formata da molecole d'aria che vibrano. Per descriverla, quindi, bisognerebbe anche spiegare, nei minimi dettagli, "come" vibrano le molecole d'aria messe in agitazione dagli strumenti dell'orchestra. Ma questo, ovviamente, non è possibile. Non a parole, almeno. Infatti, per scrivere la musica si usa un codice che non ha corrispondenza con il linguaggio parlato. Solo usando le note musicali si può descrivere compiutamente la struttura di una sinfonia. Riassumendo, possiamo dire che la Pastorale di Beethoven è data dalla "vibrazione" delle molecole d'aria che vengono messe in agitazione da un certo numero di strumenti, secondo un programma prestabilito e codificato nel linguaggio musicale. In altre parole, la sinfonia è qualche cosa di astratto - come un'idea o un progetto - che si manifesta e si concretizza attraverso un intermediario materiale e tangibile: nella fattispecie, le molecole d'aria che vibrano."
"E io sarei... come la Pastorale di Beethoven?"
"Sì," intervenne Elettra, sorridendo. "In un certo senso, tu sei come una sinfonia che ha preso vita e si è resa indipendente dall'orchestra che l'ha eseguita. Vedi, la Pastorale non potrebbe esistere se le molecole d'aria non vibrassero in modo tale da generare un'onda sonora. D'altro canto le vibrazioni sonore, se prodotte alla rinfusa, non compongono certo una sinfonia e, tanto meno, la "sesta" di Beethoven. Ne deriva che una sinfonia consta sempre di due parti, l'una astratta e l'altra materiale, che sono complementari e assolutamente indivisibili. Come le due facce di una medaglia. Ciò che ti ha appena illustrato Proteo è un perfetto esempio di concetto "duale": una congettura che serve a spiegare realtà, come appunto la sesta sinfonia di Beethoven, che sono duplici e indivisibili, cioè formate da due entità che non possono essere considerate singolarmente, ma sempre ed inevitabilmente collegate: una sorta di "unità doppia"."
Con un po' di fatica, ma mi sembrava di aver afferrato, almeno in parte, il concetto. Tuttavia ancora non capivo qual era il nesso fra la musica e la mente, umana o artificiale che fosse. Lo dissi a Proteo e lui, con calma, rispose alla mia domanda.
"Un altro esempio di concetto duale, forse più calzante, ce lo offrono gli androidi. La mente di un androide è paragonabile al software di un computer, mentre l'hardware, cioè la macchina, è il cervello che contiene la mente artificiale. L'hardware è facilmente identificabile, essendo composto da neuroni sintetici, pseudocellule in bioplastica e altre cose "solide". Il software, invece, è formato da deboli correnti elettrochimiche, cioè da elettroni e soluti pseudorganici che si muovono all'interno dei circuiti. Ma, come le menti umane, anche la mente di un androide è unica e diversa da tutte le altre. Ciò che la rende tale è lo schema di movimento delle correnti elettrochimiche, così come ciò che rende unica una sinfonia è lo schema di oscillazione delle molecole d'aria. Il software, quindi, sono i pensieri dell'androide, le idee astratte che si concretizzano attraverso l'hardware. E, anche nell'androide, software e hardware sono indissolubilmente legati: due facce della stessa medaglia. Un androide senza pensieri è solo un robot meccanico, una macchina senza vita. E i pensieri, senza un cervello su cui rendersi manifesti, sono solo progetti astratti, magari belli, ma irrealizzabili."
Non ero certa di avere capito tutto, ma i concetti espressi dal Professore erano stati, nel complesso, abbastanza chiari.
"Come vedi, il bandolo della matassa è sempre il "movimento": delle molecole d'aria in un caso, degli elettroni e dei soluti nel secondo caso. Ma il movimento è una forma di energia - energia cinetica applicata alla materia - e Einstein ci ha insegnato che l'energia e la materia, in realtà, sono due facce della stessa medaglia, entità astratta e concreta allo stesso tempo. In conclusione: una sinfonia e una mente, umana o artificiale, sono forme di energia organizzata che si materializzano e si manifestano, ognuna con le proprie peculiarità e in forme diverse, nello spazio e nel tempo."
Riflettei, per un miliardesimo di secondo, su quest'ultimo concetto e trovai che c'era qualcosa che non quadrava.
"D'accordo. Ma se, come hai detto tu, hardware e software sono indivisibili, dove si materializza il mio software? Nel mio caso, qual è l'altra faccia della medaglia?"
"A questo può rispondere Elettra," disse Proteo, accennando un mezzo sorriso. "Oltre che biochimica, lei è anche la "filosofa" del gruppo."
"In effetti," attaccò Elettra, che sembrava non aver colto la sottile ironia del Professore, "il concetto di mente virtuale - o, più in generale, di entità virtuale - in prima approssimazione può sembrare più un concetto filosofico che fisico. Una entità virtuale, infatti, è qualcosa che sfugge all'osservazione diretta e alla nostra normale comprensione. Perciò essa ci appare come un oggetto immaginario o sovrannaturale, e quindi più argomento della metafisica che della fisica. Invece, anche una entità virtuale obbedisce alle leggi della natura e, in questo senso, è del tutto reale."
"Non credo di aver capito."
"Aspetta, non ho finito. Il fatto che tu sia una mente virtuale non significa che tu non abbia un cervello. Significa solamente che il tuo cervello non è materiale, bensì virtuale. Il tuo cervello - o il tuo hardware, se preferisci - non è formato da neuroni sintetici e pseudocellule, per il semplice motivo che la tua mente è collocata nel livello virtuale dello spazio-tempo, cioè in quello che noi chiamiamo livello "arcano" dell'universo."
"Adesso sono sicura di non aver capito."
"Sì, me ne rendo conto," disse Elettra, con aria rassegnata. "Questo è un concetto piuttosto difficile da comprendere. Te lo spiegherò meglio un'altra volta. Per ora accetta questa semplificazione: la tua mente - in pratica, tutta la tua essenza - è formata da impulsi elettrici e processi biochimici virtuali che utilizzano, come fossero neuroni e fibre nervose, le linee di energia situate nel livello "non osservabile" dell'universo."
La faccenda mi sembrava piuttosto complicata, ma sentivo che potevo fidarmi di Elettra. Più tardi avrei certamente compreso la mia reale natura. Almeno, lo speravo.
"Fino a pochi decenni fa," proseguì Elettra, intuendo le mie perplessità, "la scienza dava per scontato che non potesse esistere una mente senza un cervello. È difficile, infatti, immaginare una mente umana separata dal suo cervello naturale. Tuttavia, già molti secoli addietro c'erano persone che sostenevano che la mente umana poteva vivere, anche se per un tempo limitato, "fuori" dal cervello. Molta gente asseriva di avere vissuto esperienze extrasensoriali, come ad esempio la "dislocazione", in cui la mente si staccava dal corpo e viaggiava per conto suo."
"Ed era vero?"
"Fino ad un secolo fa," intervenne Proteo, "la scienza ufficiale riteneva che si trattasse di mistificazioni o, tutt'al più, di allucinazioni: percezioni illusorie create dalla mente. Si imputavano certi fatti alle malattie mentali, oppure all'assunzione di droghe o alcool. Ma oggi la scienza sa che questi fenomeni avvenivano e avvengono realmente. E ha capito che i viaggi extracorporei della mente sono eventi del tutto naturali che obbediscono alle leggi di questo universo."
"In circostanze particolari," disse ancora Elettra, "la mente umana è in grado di collocarsi sul livello virtuale dello spazio-tempo e di rimanere, per periodi più o meno lunghi, fuori dal cervello. In passato le allucinazioni provocate dalle piante allucinogene o dalle droghe psichedeliche sintetiche venivano interpretate come costruzioni fantastiche e irreali della mente. Ma noi abbiamo scoperto che, durante gli stati di allucinazione, la psiche esce veramente dal cervello e vaga incontrollata nel lato "arcano" dell'universo. Oggi questi processi sono studiati dalla scienza ufficiale - non più dalla parapsicologia - e sono noti come "fenomeni telepsichedelici". Sono eventi del tutto naturali che obbediscono alle leggi fondamentali della fisica e che, in determinati casi, possono permanere per tempi molto lunghi. E abbiamo anche scoperto che, in casi eccezionali, è possibile creare stati psichedelici permanenti e indipendenti da chi li ha generati. Tu ne sei la dimostrazione vivente."
(SEGUE su http://digilander.iol.it/ngf13/
)
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