NUMERO ZERO- 19 DICEMBRE 1999
ALBATROS
PAGINA 2- INTRODUZIONE
PAGINA 3-
FUGA DA ALCATRAZ
PAGINA 4- IL
FATTO
PAGINA 11- IL RACCONTO
(Pablo)
PAGINA 13- NONGIO
PAGINA 14- L’INNO (TESTE DA
TAGLIARE)
PAGINA 15–LA SCUOLA GIAPPONESE
PAGINA 20- I MITI (MALCOLM X)
PAGINA 23- CONSIGLI PER GLI ACQUISTI
PAGINA 24 – UTILIZZO DELLA
CANAPA
PAGINA 25 – SILVIA BARALDINI
E LA STRAGE CERMIS
PAGINA 28 – LETTERE
PAGINA 31 – RECENSIONI
PAGINA 33 – I GRANDI DELLA
MUSICA - AUGUSTO
GOOD MORNING BROTHER!!!!
Siamo arrivati finalmente all’inaugurazione di questa nuova Fanzine: ALBATROS. Il numero zero è arrivato, per la gioia (??) di tutti voi… Allora, da dove cominciare…
Come è nato questo giornale: Claudio mi chiama a casa. Ha appena finito di leggere i l libro di Jack Folla. Ha una voglia di cambiare tremenda. Dobbiamo cominciare da qualche parte… E così ecco l’idea del giornalino.
Chi siete e chi siamo: gli ideatori siamo ALICE&CLAUDIO (questo numero è stato scritto quasi interamente da noi) e abbiamo pensato di dare questa rivista solo a determinate persone. Ossia: ex detenuti di ALCATRAZ, amici della Prateria (WWW. LUNANET.NET) e persone che conosciamo che hanno una voglia tremenda di spaccare tutto. Di tutte le età.. Dai 50 in giù.. Non importa.
Di cosa di parla: di tutto. Non ha importanza. Principalmente però di cultura. Di fatti che ci hanno colpito, di fatti accaduti tanto tempo fa che però dobbiamo conoscere tutti e anche di sfoghi personali, di musica, cinema…
La rubrica è trimestrale, ossia uscirà a fine marzo, fine giugno, fine settembre e fine dicembre. Per ora non costa assolutamente nulla, ma è possibile che per quelli che la riceveranno per posta ordinaria , ci saranno le addebitazioni delle spese di spedizioni (perché comunque io sono perennemente senza soldi e così mi aiutereste un attimo… A questo proposito mi scuso per eventuali ritardi del giornale..). L’unica clausola che riguarda tutti quanti è questa: BISOGNA SCRIVERE QUALCOSA. Non importa cosa. Una lettera, consigli, un articolo, un approfondimento… Perché non vogliamo creare un giornalino di Claudio & Alice, ma un giornalino di tutti noi, fatto delle cose che pensiamo tutti.
Il numero zero: ha i suoi limiti e sono veramente tantissimi. Innanzitutto non c’è varietà di scrittori ed è una sola idea che circola per pagine e pagine. Secondo: mancano sicuramente tantissime cose, e nei prossimi numeri spero ci sarà una “Rivoluzione” (nel senso che, se manca qualche rubrica, voi la mettete). In pratica questo che avete in mano (o nel computer) è un’idea. Che noi dobbiamo realizzare nel migliore dei modi possibili. E’ per questo che DOVETE SCRIVERE. Ah, è saltata la pagina dedicata a uno scrittore (volevamo fare Baudelaire) per mancanza di tempo. Ci rifaremo la prossima volta. Scusate ancora.
A chi spedire il materiale: ovviamente a me, Alice , e Claudio. Ecco gli indirizzi:
ALICE SUELLA
VIA BOLOGNA 8
TRONZANO VERCELLESE VC 13 049
EMAIL SUELLA@SANTHIA.ALPCOM.IT
TEL: 0161/912324
CLAUDIO TORREGGIANI
VIA FERRI 12/1
42020 VILLASESSO (RE)
EMAIL CLAUDIO.TORREGGIANI@LIBERO.IT
TEL: 0522/531458
Credo non ci sia altro… Spero che questo lavoro non vi annoi troppo…
Alice & Claudio
FUGA
DA ALCATRAZ
Scrivo
mentre ascolto il Cd. Il nostro Cd. Molti di voi hanno già capito di che parlo,
vero? Quelli che ora si sentono rinascere, che ricordano mille parole e mille
note “insolite”, che sentono di nuovo la voglia di urlare e di vivere. E’ “Alcatraz-
un d.j. nel braccio della morte”, il cd di Jack Folla.
Jack
Folla è fuggito. Noi che siamo stati con lui per tanti mesi lo sappiamo. E
abbiamo provato le stesse, diverse emozioni quando lo abbiamo sentito ansimare,
con dietro quei cani che cercavano di riacciuffarlo. Abbiamo riso, pianto,
urlato… Ognuno teneva per mano migliaia di fratelli e sorelle e li guardava
negli occhi, riscoprendo tante bellissime anime. Ma, tra noi, ci sono delle
persone che non hanno avuto occasione di conoscere questo grande piccolo uomo.
Chi era Jack Folla? E perché ne parliamo?
Jack
Folla era, anzi “è” visto che non è morto, un condannato a morte. La matricola
numero 3957 che ogni giorno parlava, dalle 14:15 alle 15 su radiodue, dal
penitenziario di Alcatraz dicendo ciò che noi italiani “liberi” vorremmo poter
dire senza averne il coraggio o la
possibilità. Chi si sentiva in trappola, senza speranza, ha trovato in Jack una
guida, una spinta per poter tornare a vivere. Io e Claudio siamo cambiati tanto
grazie a lui. Pensate, una semplice trasmissione radiofonica ha potuto fare
tutto questo. E tutto solo perché abbiamo CREDUTO, capite? Siamo partiti con
una buona dose di solitudine e siamo ancora in viaggio con un po’ d’amore in
più. E’ per questo che è nato il giornalino, perché vogliamo tentare di portare
informazione nelle vostre/nostre menti e cercare di cambiare di un poco la
realtà che ci circonda. Ora la trasmissione è finita (Jack Folla è fuggito il
14 maggio scorso) ma si possono trovare ancora in giro il libro (Alcatraz- un
dj nel braccio della morte, pubblicato dalla Rai-Eri) e il cd di cui parlavo
prima. Io e Claudio ogni volta scriveremo qualcosa su di lui, un piccolo
omaggio o una citazione. Una cosa importante che non ho detto è che la
trasmissione è stata ideata (quindi anche i testi che leggerete qui sotto) da
DIEGO CUGIA. Scrittore anche di “Domino”, “Rumors-Voci incontrollate” e “Il
Mercante dei Fiori”. Diego
nell’introduzione del libro scrive: “Da
quando ho conosciuto Jack sono cambiato anch’io, come moltissimi ascoltatori.
Nessuno può rimanere indifferente all’ardita tenerezza di un uomo in catene che
ti chiama “fratello” e ha esordito dicendo: “Sono tornato per insegnarvi a
sognare”. Jack mi manca, fratelli e sorelle. Forse anche a
voi. Ma non dobbiamo ridurre le sue parole in semplici ricordi. Siamo qui per
cambiare il mondo, proviamoci! Ora
leggerete l’inno di Jack. “I mediocri girano liberi”. La mediocrità è ciò che
dobbiamo eliminare. Impossibile o semplice non ha importanza. Noi siamo il
popolo di Alcatraz e ce la possiamo fare. Gridate, urlate, piangete… Ma
muovetevi, dovete solo guardarvi attorno. Forse il tuo vicino di casa ha
bisogno di te, ma te ne freghi. Non farlo più. Esci dalla mediocrità e comincia
a volare. Sii anche tu un piccolo, grande Albatros.
I MEDIOCRI GIRANO
LIBERI
Giornalisti,
televisivi, politici, questa NON è la Vostra Radio.
…Ma
tu puoi venire, fratello. Tu, tra i venti e i quaranta, ma avresti voluto
averli ai tempi di Kerouac,
quando
sulla strada il mondo ha abbandonato le sue ultime idee. Tu puoi venire,
fratello.
E
anche i vecchi, i grandi vecchi che attraversano con le menti le montagne
E
tutte le cose che hanno amato e hanno perduto Siete ad Alcatraz, fratelli.
Ma
i mediocri girano liberi. I mediocri hanno invaso le strade,
occupato
tutto: politica, televisioni, giornali: tutto.
I
mediocri girano liberi. Ci hanno imposto che cosa comprare,
cosa è bello e cosa è brutto, i film da vedere, le
canzoni da ascoltare, quando ridere e quando piangere.
I
mediocri girano liberi come poliziotti e se vedono passare un’idea la sbattono
dentro.
I
mediocri si alleano con altri mediocri e formano un esercito di milioni di
fronti basse. Milioni di
Fronti
basse che gridano banalità e piantano le loro bandiere
Nei
nostri liberi stati mentali. Finché un giorno tutte le idee saranno chiuse ad
Alcatraz.
Spegnete
la radio e accendete le vostre Tv mediocri. Perché noi siamo quelli dei sogni
bruciati in una notte.
Quelli
che si sdegnano anche se non hanno più fiato per gridare.
Quelli
che ancora amano anche se sono stati traditi mille volte.
Questa
è la vostra radio e io parlo per te.
Sei
ad Alcatraz, fratello.
Claudio & Ali
IL FATTO
Questo
spazio è invece dedicato ai fatti accaduti ogni giorno, fatti di cui nessuno
parla e che invece tutti dovrebbero conoscere. Noi speriamo sempre che questo
inserto sia vuoto, vorrebbe dire che nel mondo non è accaduto nulla di
terribile e disumano. Dubitiamo però che questo potrà mai accadere, e ci
limitiamo così a scuotere la vostra coscienza affinché, un giorno, questo
nostro desiderio di Pace sarà reale. Quella sarà la vera Rivoluzione.
LA GUERRA DEI BAMBINI HA INVASO IL MONDO
Sono sfruttati come carne da cannone. Inviati in
avanscoperta sui campi minati, per proteggere le truppe più “preziose”.
Addestrati come spie. Utilizzati per le missioni suicide. Sono un esercito che
combatte insieme con gli eserciti “normali”, non meno vero degli eserciti veri,
in tutti i continenti e a tutte le latitudini. Almeno 300mila bambini ogni
giorno fanno la guerra. Non per gioco, ma per davvero, uccidendo e facendosi
uccidere. O almeno preparandosi ad uccidere e a morire. Bambini soldati nelle
forze armate regolari, anche nel nord del mondo, nei paesi “civili”; bambini
guerriglieri nelle giungle centroamericane e nelle savane africane; bambini
terroristi alle porte di casa nostra, nei Balcani o nell’Irlanda del Nord. Si
calcola che negli ultimi anni almeno due milioni di minori di 18 anni abbiano
partecipato alle guerre che hanno insanguinato il pianeta. Tra i 300mila
giovanissimi soldati in “servizio” attualmente, la maggioranza ha già avuto il
battesimo del fuoco in qualcuno dei 33 conflitti armati in atto o appena
conclusi. Sono alcuni dei dati resi pubblici dall’organizzazione “Human Rights
Watch”, che ha lanciato una campagna di informazione e sensibilizzazione in
appoggio agli sforzi che l’Onu e le sue agenzie, prima di tutto l’Unicef,
stanno compiendo per contrastare il fenomeno e convincere almeno i paesi
industrializzati a rispettare il limite dei 18 anni per l’arruolamento nelle
forze armate regolari. Quasi nessun paese, ora come ora, lo fa (NEPPURE
L’ITALIA, DOVE SI PUO’ ANDARE SOTTO LE ARMI A 17 ANNI!!) e i tentativi di
imporre una regola internazionale sono stati boicottati finora dall’amministrazione degli Usa, unico
paese, con la Somalia, ad avere rifiutato la firma sotto ogni documento contro
l’arruolamento di minori. Se anche i paesi industrializzati hanno le loro
colpe, è però nei paesi dell’Asia, dell’America Latina e soprattutto
dell’Africa che l’arruolamento dei bambini negli eserciti regolari assume
dimensioni mostruose, quasi incredibili se non fosse per la testimonianza degli
atti ufficiali. In Colombia si può diventare soldati a 13-14 anni, nella
repubblica sud-himalayana del Bhutan a 11. Ma in Birmania si può finire nelle
forze paramilitari a 7 anni e altrettanto succede nell’Africa centrale, in
Ruanda. Dieci anni è l’età minima dei soldati sudanesi, ma nel Burundi e nella
Repubblica democratica del Congo otto sono già sufficienti. Se si considerano
gli arruolamenti e le militanze nelle formazioni armate non regolari, la
situazione appare più confusa ma ancora più drammatica. Il primato dei
“guerriglieri-bambini” pare spetti all’Afghanistan, dove per il movimento
Herb-i-Wahdat combattono ragazzini di 10-11 anni, mentre nel Jamiat Islam si
viene reclutati a 10 e fra i talebani a 13. Un gran numero di guerriglieri in
erba viene utilizzato dai gruppi
rivoluzionari della Colombia e da Sendero Luminoso in Perù. Sono quasi tutti
minori gli irregolari hutu e tutsi incarcerati per le atrocità commesse contro
l’etnia nemica durante la guerra civile. Il Pkk curdo conta tra i propri
militanti bambini a partire dall’età di 7 anni, molti dei quali rapiti alle
famiglie, magari in Germania o in Svizzera, o “sacrificati alla causa” cedendo
a pesanti pressioni e minacce. In Europa sono certamente minorenni molti
militanti dell’Ira nell’Irlanda del nord e anche l’Uck nel Kossovo arruola
giovani e giovanissimi. Il fenomeno dei soldati-bambini è sempre esistito
(basti pensare a Sparta), ma negli ultimi anni ha assunto dimensioni sempre più
drammatiche a causa del progresso della tecnica dell’industria bellica, che
produce armi individuali sempre più leggere e semplici da usare. Inoltre le
crisi economiche e sociali, prodotte magari dai conflitti stessi, favoriscono
la diffusione dei “bambini da guerra”. Quelli che hanno le maggiori possibilità
di finire con un’arma in mano sono i minori che vivono nelle regioni più
povere, separati dalle loro famiglie, lontani da casa: orfani e rifugiati. Una
grande importanza, poi, ha l’impossibilità di accedere all’istruzione: in
Afghanistan, dove la percentuale di ragazzi che non frequentano la scuola con
l’avvento dei talebani è salita al 90% la proporzione dei minorenni nelle forze
armate è cresciuta dal 30 al 45%. Nel Sudan meridionale, fino a metà anni ’90,
l’arruolamento dei bambini veniva presentato alle famiglie come l’unico mezzo
per farli studiare. Poi ci sono pressioni ambientali, ricatto alimentare
(spesso l’esercito o il gruppo di guerriglia è l’unica struttura in cui si
mangia), necessità di trovare surrogati della famiglia e altri fattori
psicologici che pure hanno peso. Il fenomeno dei bambini-soldato riguarda
maschi e femmine. In alcuni paesi, come El Salvador, l’Uganda e l’Etiopia, le
bambine costituiscono un terzo dei minori coinvolti. In molti casi, le ragazze
vengono rapite per essere assegnate come mogli ai comandanti, o per essere
avviate alla prostituzione “militare” Ma vengono usate anche in combattimento,
come portaordini, come spie. O, insieme ai maschi, come “scopri-mine” da far
marciare davanti alle truppe più “preziose”. Questo spiega perché le ferite più
frequenti tra i bambini-soldato sino la perdita dell’udito, la mutilazione di
arti e cecità. In Guatemala, l’esplosione di mine è la causa principale della
morte tra i minorenni nell’esercito. Gli orrori, per i bambini-soldato, non
cominciano e non finiscono con la guerra. In diversi paesi, tra cui
Afghanistan, il Bhutan, la Birmania, la Colombia, il Guatemala, l’Honduras, il
Mozambico e il Nicaragua, i minorenni sono incoraggiati a commettere atrocità
contro i propri parenti e i propri villaggi, in modo che sia impossibile poi,
per loro, trovare rifugio lasciando le formazioni armate. E quando torna la
pace il più delle volte non si può tornare a casa né partecipare a programmi di
reinserimento. I soldati-bambini, educati alla violenza e al disprezzo della
vita, non sanno fare altro. Aspettano un’altra guerra per uccidere e per
morire.
Un
ragazzo cercò di scappare, ma venne riacciuffato. Gli legarono le mani e poi
dissero a noi, prigionieri fatti da poco, di ucciderlo con una coltellata. Io
quel ragazzo lo conoscevo da prima: eravamo dello stesso villaggio. Rifiutai di
ucciderlo e allora mi dissero che mi avrebbero sparato. Mi puntarono un fucile
contro e così fui costretta a farlo. Il ragazzo mi chiedeva: “Perché lo fai?” e
io gli rispondevo che non avevo scelta. Dopo che lo avemmo ucciso, ci sparsero
il sue sangue sulle nostre braccia, dicendo che così non avremmo avuto più
paura della morte e non saremmo scappati. Sogno sempre quel ragazzo: lui mi
parla e mi dice che l’ho ucciso per niente, e io mi metto a piangere.
L’esercito
era un incubo. Soffrivamo molto per le crudeltà che ci infliggevano. Eravamo
picchiati continuamente, il più delle volte senza un motivo, solo per
terrorizzarci. Ho ancora una cicatrice sulle labbra e ulcere nello stomaco
dovute ai calci dei soldati più anziani. Il cibo era scarso e poi ci facevano
fare lunghe marce con dei pesi: troppo per i nostri corpi malnutriti. Mi
obbligarono a imparare come si combattono i nemici in una guerra che non capivo
perché dovesse essere combattuta.
Ci
davano delle pillole che mi facevano impazzire. Quando la pazzia mi arrivava
alla testa, picchiavo la gente sul capo e davo botte finché non sanguinavano.
Poi, quando la pazzia se ne andava, mi sentivo in colpa. Se ricordavo quelli
che avevo picchiato andavo a chiedere loro scusa, e se non accettavano le mie
scuse soffrivo.
Ero
sulla linea del fronte. In genere mi assegnavano la missione di mettere le mine
nelle zone in cui sarebbero passati i nemici. Ci usavano per fare la spia nei
villaggi e per compiti di questo genere: se sei un bambino i nemici non fanno
tanto caso a te, e neppure gli abitanti dei villaggi.
RAGAZZA PERUVIANA
RECLUTATA A 11 ANNI DA SENDERO LUMINOSO
Picchiarono
tutti quelli che stavano lì, vecchi e giovani. Poi li uccisero: una decina di
persone… Li ammazzarono come cani… Io non uccisi nessuno, ma vidi gli altri che
lo facevano… Anche i bambini vennero massacrati… Poi ci fecero bere il sangue
delle vittime: versarono il sangue dei morti in una brocca e ce lo fecero bere…
Poi quando uccisero gli altri ci fecero mangiare il loro fegato e il loro
cuore: li tirarono fuori, li affettarono e li fecero fritti… Ad ognuno di noi
toccò un pezzetto.
LE “PICCOLE API” E LE
“CAMPANELLE”
I
guerriglieri colombiani chiamano “piccole api” i loro bambini-soldato, che
“pungono” il nemico prima che cominci l’attacco condotto dagli adulti. Le
truppe paramilitari anti-guerriglia, invece, chiamano i loro “piccole campane”,
giacché, piazzati sulla prima linea, danno l’allarme in caso di attacco.
“Piccole api” o “campanelle”, sono decine di migliaia i minorenni coinvolti
nella sanguinosissima guerra civile in Colombia: forse addirittura un terzo del
totale dei combattenti, secondo un rapporto di “Human Rights Watch”. In alcuni
reparti, la percentuale di ragazzi inferiori a 15 anni arriva all’85% degli
effettivi. E questo vale per tutte e tre le parti coinvolte nel conflitto: i
guerriglieri, l’esercito governativi e le forze paramilitari anti-guerriglia.
La guerra in Colombia è, in buona misura, una guerra che gli adulti conducono
per procura. Gli osservatori di HRW hanno accertato che i guerriglieri-bambini
vengono utilizzati prevalentemente come spie, per piazzare o localizzare mine e
come truppe di prima linea nelle imboscate contro l’esercito, i paramilitari e
la polizia. A loro volta, le forze armate colombiane, l’esercito e la polizia
nazionale, contano su 15mila minori “regolari”. Altre migliaia vengono
reclutate per compiti sedicenti “civili” e piazzate di guardia, in divisa, in
zone esposte agli attacchi della guerriglia. Molti giovanissimi guerriglieri
catturati vengono utilizzati inoltre come guide o informatori. Sono costretti a
marciare con i reparti, prendere parte ai combattimenti, fare lavoro di
intelligence e disinnescare le mine. Le unità paramilitari, che il più delle
volte operano in collaborazione con le forze armate regolari e si sono rese
responsabili di alcuni fra i peggiori crimini di guerra, fanno conto anch’esse
su un gran numero di bambini, che vengono reclutati a partire dall’età di 8
anni. Oltre la metà dei reparti che pattugliano le zone in cui è attiva la
guerriglia sono formati da bambini e ragazzi.
KABILA NON VUOLE PERDERE I
“KADOGO”
“I
bambini africani vengono trattati come giocattoli da guerra in tutto il
continente”, dice Reed Brody, uno dei leader di “Human Rights Watch”. L’Africa,
dove si calcola che siano non meno di centoventimila i minorenni che combattono
nei vari conflitti armati, è il continente più colpito dal fenomeno dei
soldati-bambino. E fra i paesi africani, quello in cui la situazione è peggiore
è la Repubblica democratica del Congo (ex Zaire). La guerra scoppiata qui
nell’agosto del ’98 è stata caratterizzata da un massiccio arruolamento di
bambini, sia da parte delle forze del presidente Kabila che da parte dei
ribelli del Rassemblement Congolais puor la Democracie (RCD). Kabila ha usato
soldati-bambini a sostegno della propria forza militare dal 1996. La sua
organizzazione , la ADFL ha reclutato migliaia di minori, che venivano chiamati
“Kadogo” o “i piccolini”, per la sua battaglia contro il regime di Mobutu.
Finita la guerra contro l’ex dittatore, tutti i tentativi esperiti dal governo
per smobilitare i giovanissimi sono stati boicottati dl presidente Kabila, il
quale, anzi, ha continuato le proprie personali campagne di arruolamento di
ragazzi e bambini al di sopra dei sette anni. Attualmente non esistono
statistiche affidabili, ma HRW già nel ’97 stimava “diverse migliaia” il numero
dei soldati-bambini nelle caserme congolesi. Con l’inizio della guerra
dell’anno scorso è stato ulteriormente intensificato. Un comunicato radio del 7
agosto 1998 invitava tutti i cittadini congolesi “tra i dodici e i vent’anni” a
presentarsi nelle caserme. Tra gli altri paesi africani maggiormente toccati
dal fenomeno, vanno segnalati l’Algeria, dove molti bambini militano nei gruppi
integralisti islamici, il Burundi, il Congo-Brazzaville, la Liberia, il Ruanda,
la Sierra Leone, il Sudan e l’Uganda.
Alice (notizie prese dalla
Stampa)
Un
altro atto ignobile in un paese in cui la normalità è ormai in esilio. Raoul,
un bambino di 11 anni residente nel Colorado, è stato condannato per incesto.
Oggi il bambino si trova nel carcere “Mount View”, è stato arrestato la notte del 30 agosto, senza nemmeno un
mandato d’arresto. L’episodio è avvenuto qualche mese fa. In pratica una vicina
di casa affacciata alla finestra lo ha visto strofinarsi contro la sorellina, 5
anni. La piccola aveva le mutandine abbassate. “Spingeva contro il sedere della
bambina, con le mani sui suoi fianchi. Aveva i pantaloni abbassati. Aveva i
pantaloni aperti. Allora sono corsa fuori e gli ho detto: “Cosa stai facendo?”,
ha raccontato Laura Mehmert, la quale ha chiamato gli assistenti sociali. Il
piccolo aveva detto che la sorellina aveva qualcosa nelle mutande, ma la
bambina – secondo il racconto della donna- aveva negato decisamente. Per tre
mesi gli assistenti sociali hanno indagato e la piccola avrebbe detto che il
fratello la toccava spesso sui genitali. Questi i fatti. Ora, io non sto a
giudicare, non so se sia tutto vero o tutta una “farsa”. So soltanto che si
tratta di un bambino di 11 e qualsiasi cosa abbia fatto o non fatto, ora sta
tremando dalla paura. Una società troppo violenta lo ha accolto a malo modo,
senza mezzi termini. Permanenza in carcere, si è visto allontanare dalla
famiglia con violenza. In tribunale è stato portato in catene, legato mani e
piedi. Ha disegnato tutto il tempo dell’udienza. Innocente o meno non si merita
tutto questo. La “scuola di correzione” americana ha tolto l’infanzia a
un'altra povera anima.
Dopo
l’assurda norma che dice che violentare una donna con i jeans è praticamente
legale perché consensuale (un passo indietro per la civiltà), ecco una buona
nuova. Ora anche i mariti violenti potranno sentirsi in diritto (quasi in
dovere, come uno sfogo giornaliero, se vogliamo) di picchiare la moglie, se ne
hanno voglia. Infatti quella grande donna di MONICA AMICONE (ricordate questo
nome) ha detto che non costituisce reato picchiare la moglie se fatto in
momenti di particolare prostrazione e senza la volontà di fare male. Se si è
depressi è concesso. E così ha assolto
un uomo di Caltanissetta che aveva picchiato più la volte la moglie a causa di
crisi economiche e personali. “Scusate, ero depresso”, e quindi assolto. Come
diceva Jack presto anche gli assassini verranno assolti. Basterà che lascerà un
biglietto con scritto: “Scusate, mi stava antipatico”.
Ancora
America, tanto per cambiare. Nel Missouri Cathy L. Adams, 39 anni, ha venduto
il nipotino neonato, partorito dalla figlia sedicenne, per 20 dollari (36 mila
lire). La donna afferma che si è trattata di un’adozione informale e non di una
vendita, ma la polizia l’accusa di traffico di bambini mentre sta cercando
ancora la madre del piccolo. La coppia che ha “comprato” il piccolo dice che i 20
dollari erano solo per le spese di benzina. Ai posteri l’ardua sentenza.
Sappiamo solo che il piccolo Michael, questo il nome del bimbo, è stato
ripudiato da chi dovrebbe davvero amarlo e accudirlo e sappiamo che gli è stato
affidato un prezzo. Non un valore, ma semplicemente una quota di vendita. E
ancora i diritti civili si affossano.
Anche
per gli animali la vita non è facile. Questa volta il fattaccio è accaduto in
Italia. Dodici cani da tartufo ucciso con pezzi di mortadella intrisi di
stricnina, un potentissimo veleno. Accaduto a Sestino, in provincia di
Casentino, un paio di mesi fa. Il giornale dove ho preso la notizia accentua
molto il danno economico della cosa, del fatto che ogni cane da tartufo costa
un pacco di soldi. A noi questo non interessa. I soldi a noi non interessano. A
noi interessa il dolore e la morte assurda, sia umana che animale. Noi siamo
qui per denunciare che una coppia ha perso 12 amici per… Per niente, come
sempre. E scusate se è poco. Qui di
seguito riporto la testimonianza di Fabio Roggiolani, portavoce dei Verdi in
Toscana e rilanciata via Inernet alle forze politiche.
Martedì 19 ottobre 1999.
Sono le 19.30 torniamo a casa, a Casina (RE) sulla
Provinciale Casina Ciano d’Enza, piove e dobbiamo ancora preparare le
pappe per i nostri amici. Scendiamo in
giardino… E’ successo ancora… Ancora una volta quel dolore sordo e quel
maledetto senso di impotenza mi ha
attanagliato lo stomaco. Ancora una volta, l’uomo ha giudicato ed eseguito la
sentenza. Mi hanno ucciso due cani, maledetti cacciatori. Maledetto paese che
li tutela. Maledette autorità che nulla possono nulla vedono e poi “non faccia
così, sono solo cani!”. Ancora una volta la stricnina. Sostanza proibita,
sostanza introvabile, ma che appare come per miracolo in quantitativi
rilevanti, nelle mani dei cacciatori e dei guardacaccia… Bravi… Paese in cui
per acquistare un antidolorifico per il mal di denti, ti occorre una ricetta e
un farmacista ti risponde: “Sa, non posso darle una scatola da 10 pasticche
senza ricetta perché, un dosaggio di 40 (!!!) potrebbe essere pericoloso!”.
Invece il più potente dei veleni il cui dosaggio in milligrammi, è letale per
qualsiasi essere vivente… Che fare, ditemi voi. Siamo andati ad abitare in un posto
isolato, sull’Appennino, il vicino più vicino è a 3 Km, tutto questo per vivere
in pace con i nostri dodici cani. Dodici cani adottati, dodici animali che
avevano avuto alle spalle tristi storie di incomprensioni con gli esseri (???)
umani. A nostre spese e con fatica abbiamo costruito un rifugio per noi e per
loro, una sistemazione dignitosa, un posto dove potessero crescere con quel
calore umano (che termine insignificante adesso!) di cui sono così bisognosi.
L’unica colpa: essere vicini ad una riserva di caccia, uno di quei posti ameni,
dove gli uomini liberano dei piccolissimi fagiani, mostruose pernici e
terrificanti quaglie per poi andarle ad abbattere, ucciderle, massacrarle,
dimostrando di essere l’essere supremo padrone e signore della vita delle altre
creature. I nostri cani abbaiavano. E’ probabile, ma se fosse colpa emettere
suoni con la bocca, fosse anche ad alta voce, quanti di noi rimarrebbero in
vita? I nostri cani disturbavano la selvaggina. Sì è vero, dal loro recinto (di
3000 mq). Senza mai uscire se non al guinzaglio ed in nostra compagnia.
Disturbavano la selvaggina con il loro abbaiare, è una colpa grave. La
selvaggina deve essere tranquilla, non si può spaventarla, altrimenti come
fanno i cacciatori ad ucciderli con tranquillità. E allora cosa c’è di meglio
se non provvedere. Basta una piccola polpetta avvelenata, un collo di gallina
ripieno di ossa tritate e vetro (così agisce prima) e stricnina. E il gioco è fatto, basta
lanciarlo al di là della recinzione in rete di acciaio elettrosaldata alta tre
metri, e… giustizia è fatta. Noi rimaniamo con il nostro dolore, con la
sensazione di impotenza, con lo sguardo fisso sul corpo rigido e bagnato, di
quelli che un attimo prima erano i nostri compagni di giochi. Quelli che con il
loro scodinzolare o il loro abbaiare al nostro ritorno ci scaldavano il cuore.
Quelli che avevano la colpa di spaventare la selvaggina… Forse con il loro
abbaiare gli volevano dire, che non tutti gli uomini sono cattivi, forse gli
dicevano che l’uomo sa essere compagno di gioia, forse questa è stata la loro
vera colpa.
La nostra intenzione non era quella di volere fare i
sentimentali e strappare lacrime facili… Noi stiamo dalla parte dei più deboli,
degli infedeli. Bambini, animali, persone come noi. Questa lettera rispecchia
tutte le emozioni che certi atti causano
inevitabilmente. Se vi è sembrata patetica mi dispiace, ma non era nostra
intenzione incutere sentimenti facili in voi.
Una
ragazze di ventun anni, Fanny, si è sottoposta alla marchiatura sulla pelle
nuda con un ferro rovente a Postdam, durante la registrazione di un programma
televisivo dell’emittente privata Sat 1. E’ accaduto sabato 6 novembre,
pomeriggio, il programma si chiama “Ricky”. L’operazione voleva essere una
dimostrazione pratica del “branding”, la dolorosa moda che consiste nel farsi
infliggere sulla pelle un marchio a fuoco. L’operatrice ha dapprima riscaldato
il ferro, arroventandolo alla temperatura di 1200 gradi centigradi con un becco
Bunsen, e poi ha proceduto ad applicarlo
sul polpaccio della ragazza. Quest’ultima ha avuto una smorfia di dolore,
mentre il sangue le copriva il polpaccio, ed è svenuta: è stata portata in
ospedale, e le riprese televisive sono state interrotte. Il pubblico ha avuto
smorfie di disgusto (non di orrore, di disgusto). Il presentatore si difende
dicendo che la ragazza era d’accordo… E allora se era disposto a spararsi a una
tempia glielo si faceva fare, infondo era d’accordo.
I GAY SONO SCANDALO
Una
notizia che riguarda il programma di Bonolis. Anche quella cretinata di “Ciao
Darwin 2” ha fatto qualche cosa di buono, in fondo. Ha portato in tv una
squadra di gay contro una squadra di eterosessuali. Sembrerebbe finalmente che
la mente degli uomini si sia allargata… Invece la chiesa ha accusato Bonolis di
invitare all’anormalità la gente.. “Proporre una squadra di omosessuali come se
fosse una cosa normale è assolutamente fuorviante. Per la maggior parte gli
uomini sono tutti eterosessuali: equipararli agli omosessuali va contro la
dottrina contenuta nella parola di Dio che li invita a controllarsi e a
liberarsi dalle tentazioni. Mandare queste persone in televisione in prima
serata e’ riprovevole. Non approvo affatto questo modo di fare tv, quella di
Bonolis è una buffonata”, ha detto Girolamo Grillo, vescovo di Civitavecchia.
Un’altra
notizia che riguarda la tv, ma puramente informativa. Il Che sarà di nuovo alla
tv grazie a un film scritto da GIANNI MINA’… Da evitare assolutamente di
guardare, mi raccomando!
ANCORA BAMBINI…
Un
altro bambino che si vede rifiutato, solo per egoismo e opportunismo, per
superficialità e immaturità.. Si chiama Carla e ha 10 anni. La madre e il padre
sono divorziati e la bambini è diventata una cosa troppo scomoda per poter
essere cresciuta e allevata… La madre, trentenne, vuole uscire con i suoi
coetanei, fare le ore piccole, e non avere una piccola rompina per i piedi. E
il padre non la vuole in casa perché la sua nuova moglie la considera “il terzo
incomodo”.. La bambina allora è fuggita di casa, in cerca di un posto dove
stare, perché con persone che non la volevano non poteva vivere… L’hanno poi
trovata i carabinieri, che hanno ascoltato la sua storia, confermata poi da
quegli stronzi (scusate il giudizio, ma non riesco a tenermelo dentro) dei suoi
genitori. Carla aveva sentito direttamente dalla voce dei suoi genitori che non
la volevano più. Credo sia la cosa più terribile che a un bimbo può accadere.
Per un bambino la mamma e il papà sono tutto… Credo che Carla si sia sentita
morire. Ora forse verrà portata in orfanotrofio, non ve lo so dire perché no ho
più avuto notizie, se ne saprò qualcosa vi informerò..
Ultima
notizia sui bambini (che sembrano veramente i protagonisti di questo nostro
NUMERO ZERO). La polizia pachistana sta cercando l’assassino di due bambini
(che ha abbandonato, mutilati, dentro a un barile) che ha lasciato un biglietto
in cui sostiene di averne ammazzati altri cento.
RELIGIONE, MORTE E
VARIETA’…
Passiamo
ora a notiziole che riguardano la Chiesa e i loro sacri funzionari e pastorelle
smarrite.. A parte la suora che non è stata rifiutata da due medici molto
spiritosi (notizia che conoscono tutti e di cui oramai si sa tutto) ci sono
altri 3 episodi che valgono la pena di essere citati. Uno molto “soft”… In un
paese, Monteroduni, il parroco ha dato la comunione a dei divorziati… Così il
vescovo ha chiuso la Chiesa e il paese ha dovuto fare la sua messa in aperta
campagna… Poi…. A Vernazza, nelle Cinque terre un parroco è stato assassinato
durante una rapina in canonica, ucciso a causa di colpi alla testa (dati con un
crocifisso.. ). E infine, un avvenimento più insolito… Un ragazzo di 27 anni, è
entrato in una chiesa di Londra, nudo, con una spada da samurai e, urlando, ha
cominciato a mutilare i fedeli. La strage è stata fermata da un poliziotto in
borghese, lì con la famiglia, che lo ha tramortito con una canna d’organo. Poi
un fedele lo ha inchiodato al muro con un crocifisso. Non si sa ancora il
motivo di tale gesto. Una cosa che non c’entra niente ma mi va di dirla, è che
il canonico che stava facendo la messa si chiama JOHN LENNON.
Alice
MACAO
Salve amici , ero già pronta per andare a letto quando al telegiornale di rai
2 hanno dato la notizia che Macao,
antica colonia portoghese, è passata al dominio cinese. Avrà come Hong Kong uno statuto speciale ma
si teme per l'istituzione legale della PENA DI MORTE e la chiesa cristiana
trema. La Cina non vede bene il cristianesimo, le chiese e le cattedrali quindi rischiano la chiusura e la gente forse sarà
esiliata. I bambini temono per il loro futuro. La gente verrà piegata ad un
governo che non vuole e costretta a rinunciare agli ideali personali per un
ideale comune... Io sono un essere umano e come tale non mi interessa la politica espansionistica di
uno stato già molto forte, ma solo della gente che soffrirà e che dovrà
cambiare. Temo per un nuovo Tibet. Temo
per un nuovo esilio. Temo per una nuova lotta. Temo per una nuova sofferenza. I
Casinò non verranno chiusi, le corride
continueranno... ma la gente continuerà a poter parlare la proprio
lingua? potrà essere libera di professare il proprio credo? Potrà essere libera
di battezzare i propri figli? L'uomo sovrasta l'uomo, il forte regna sul debole
e le vittorie sono disfatte dei vincitori sui vinti.
Siamo stanchi
di vedere che sua santità il Dalai Lama è "libero ma ovunque in
catene", che spera in un ritorno nella sua terra, che prega anche per chi
lo ha allontanato dal suo popolo...
Siamo stanchi
di vedere che l'uomo umilia l'uomo. Siamo
stanchi...
Con speranza
UMANA per un mondo più libero...
Any
Ci
scusiamo se mancano delle notizie importanti. Alcune sono state omesse di
proposito perché se ne era anche parlato troppo. Ma una, quella dell’aereo
dell’Onu caduto misteriosamente, è stata solo rimandata al prossimo numero.
Questo perché, come è logico pensare, vorremmo fare una correlazione con la
strage di Ustica. Ovviamente, come in tutte le cose, se qualcuno vuole scrivere
di questo, le può e lo deve fare. .
FURBY:
IL NUOVO TAMAGOTCHI
Il tamagotchi è morto. Anche i bambini più tenaci si
sono ormai stancati di quell'animaletto composto da pochi cristalli liquidi,
graficamente brutto, e che passava intere giornate a piangere e a richiamare
l'attenzione del suo sventurato padrone con quell'insopportabile beeep-beep che
avrebbe reso folle qualsiasi persona sana di mente. Bene, eravamo convinti che
solo i giapponesi sarebbero potuti arrivare a tanto, ma ora il nuovo
virtual-pet viene dall’America, e questa volta ha un corpo ricoperto di peli ed
è in grado anche di parlare. E' il Furby (abbreviativo di fur-ball = palla di
pelo), e in effetti è proprio una palla di pelo, a cui sono stati aggiunti però
due occhi sensibili alla luce e una bocca che lo fa comunicare in un linguaggio
degno dell'interesse di un linguista (il Furbish, creato con un mix di parole
rubate da varie lingue e dialetti fra cui il Filippino). Questo mostriciattolo ha invaso il mercato italiano e si pensa proprio
che il risultato sarà lo stesso tutto esaurito che si è verificato in
Inghilterra e in America, con la caccia al rarissimo Furby blu.
L'inventore di questo nuovo animaletto elettronico, molto simile al Mogwai del
film "Gremlins" (come dimostra anche la causa che è stata intentata
per plagio contro la tiger electronics che lo distribuisce), è un americano che
abita con la sua famiglia in un ranch isolato dal resto del mondo, e che
ammette di essersi direttamente ispirato al tamagotchi rendendolo, però, più
"umano". L'animaletto sembra essere del tutto simile al suo
predecessore in quanto a carattere, rompendo le scatole con continue lamentele
e richiedendo più attenzioni di un animale vero. Per chi inizierà (forse molto
presto) a pentirsi di averlo comprato (il prezzo si aggira attorno alle 80000
lire) quei pazzi della phobe industries hanno già pensato ad una autopsia da
effettuare sul povero animaletto, e hanno documentato il tutto con delle foto
del "cadavere" e delle informazioni sulla cpu che lo controlla e
sulla rom interna, e sulle eventuali possibilità di crackarla (ve lo immaginate
un Furby che parla come beavis?). Perché ve ne sto parlando? No, non è il
nostro sponsor ufficiale, non ci paga le spese del giornalino… Noi non ci
facciamo sponsorizzare da nessuno. Ve ne parlo perché è giusto che sappiate una
cosa al riguardo di questo “bellissimo” giocattolo. Ho avuto la notizia dal
nostro Jack. E’ stato costruito dai bambini. Sì, bambini. Gli stessi che
dovrebbero correre per le strade e cercare di vivere degnamente e senza
pensieri quella loro vita ed invece sono costretti a stare ore ed ore in una
fabbrica a lavorare per guadagnare pochi soldi. Lo sanno tutti eppure se ne
fregano, continuano a pubblicizzarlo alla tv e sui giornali. Anche mia sorella
lo ha comprato, nonostante io abbia cercato di oppormi. Non riuscirei mai a
giocare con un quasi “strumento di morte”. Certo, sono consapevole che non
comprando il giocattolo quei bambini non staranno meglio. Non lo aiuteremo.
Magari non guadagna lo sfruttatore ma il bambino che fine farà? Spesso l’unica
alternativa per questi bambini è la prostituzione. Come fare per aiutare queste
povere creature? Non ho risposte, sono uno come voi, e anch’io mi trovo con le
mani legate. Ma vorrei che almeno un po’ di indignazione vi salga nel cuore e
che evitaste di dare soldi a queste malvagità umane. Forse è troppo poco, ma è
un inizio. Se qualcuno ha un’idea per un qualcosa di concreto, ce le scriva.
Ali
Spazio racconti. Chiunque voglia pubblicare suoi
pezzi (racconti o poesie) li spedisca. Lunghi anche cento, duecento pagine, non
è importante. Speriamo di riceverne abbastanza. Questo è di Alice.
PABLO
Seduto sulla spiaggia Pablo
guardava il mare. Aveva imparato a comprenderne la voce ed ogni suo moto
smuoveva qualcosa nei recessi della sua mente. Da quanto tempo era seduto lì?
Un’ora, due? Ma, ripensandoci, poteva dire di esserci da anni ormai, tutta la
vita. Non c’era un solo ricordo in cui il mare era inesistente. Era sempre
presente, un secondo padre. Il mare. Infinito, reale, sfuggente. Era al mare
che aveva chiesto aiuto, con cui aveva parlato, a cui aveva rivolto preghiere:
una distesa d’acqua che lo aveva sempre protetto e gli aveva insegnato a
pensare, a capirsi. Gli aveva suggerito versi della sua esistenza e tramandato
il ricordo di secoli di storia vissuta dentro sé. Quando aveva un anno,
sussurrava se stesso a questo grande protettore. Gli chiedeva i perché delle
cose, nella sua lingua incomprensibile agli adulti che lo sentivano. Pablo
aveva imparato il suo linguaggio, quello delle onde e delle maree. Aveva
sfuggito la compagnia degli umani, ancora immaturi per poter condividere il suo
amore. Anche quelli che si bagnavano dentro quell’infinità o navigavano, non
erano in grado di essere suoi amici, di comprendere l’essenziale. Era solo la
superficialità del mare ad attirarli. Ma lui, Pablo, mai si era allontanato dal
suo amico. Mai aveva dimenticato la sua comprensione, mai lo aveva tradito.
Infiniti giorni trascorsi sulla spiaggia, tra le carezze e le allegre ondate
del suo compagno. Non c’era nient’altro di così bello nella vita per lui. Il
mare gli aveva raccontato di un altro uomo, solo uno, che era stato capace di
raggiungere il suo spirito. Anche lui si chiamava Pablo. Pablo Neruda. Era uno
scrittore, un poeta e amava la natura, la raffigurava come Dio. E grazie alla
comunione col mare erano nate le sue più
grandi opere. Quando glielo raccontò aveva sette anni. E lesse tutto ciò che
Neruda aveva lasciato come testimonianza della sua esistenza. Da allora aveva
vissuto segnato da quei versi, versi di dolore e amore mescolati nel suo sangue
ardente di vita. Pablo solo contro il mondo. Solo insieme al mare. Ottanta tre
anni di pensieri, di stupori, di emozioni. Di poesie, di parole affogate nel
sale e di muta comprensione. A volte anche il mare aveva bisogno di conforto… E
Pablo lo abbracciava, lo stringeva forte a sé, fino a quando non smetteva di
singhiozzare. Era vecchio, il mare. E forse anche per questo, mentre parlava,
piangeva piano. I suoi occhi avevano visto troppe crudeltà, troppe vite erano
state ricacciate nel buio. Qualcuno si buttava nella sua massa, pieno di
tristezza e angoscia, desideroso di morire. Allora lui cercava di togliere da
quegli occhi l’infinita malinconia e ridare il sorriso. Con le sue braccia cercava di farlo
riemergere dagli abissi. Ma quello no comprendeva, si agitava, annaspava… Fino
a quando il Mare, scorgendo lo sguardo morente, non lo abbandonava a se stesso,
preparando una piccola fossa per rinchiudere questo altro fallimento dentro sé.
Forse erano tutti i fallimenti a farlo piangere. O forse era la sua infinità. O
altro di cui non trova spiegazione. Forse era quello che Neruda gli disse, a
suo tempo: “A volte sono stanco di essere un uomo”. Forse anche il mare si
sentiva stanco di essere tale. Avrebbe voluto correre, amare qualcuno, potere
aver paura di piccole avversità. Ma non gli era permesso. E viveva il suo
inferno. Solo con Pablo si lasciava andare, si sfogava. Sapeva che comprendeva.
Nei suoi occhi c’era un azzurro limpido e puro, senza tradimento e impurità.
Era solo Pablo e per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa. Erano diventati una sola
essenza, si capivano senza parlare. E’ semplice così stare insieme. Basta
pensare al proprio dolore e alla propria esistenza per sentire i pensieri di
conforto dell’amico. “Pablo, cosa vuol dire essere uomini? Come ti senti ad
avere dei limiti, dei confini?”… “E’ triste, a volte. Spesso, soprattutto
quando si è soli e non si ha nessuno con cui confrontarsi, ci si sorprende a
chiedersi se davvero sia tutto qui. Se la vita di un uomo sia solo fata di
sudore, dolore e amarezze, se c’è qualcosa in più che noi non vediamo. Sono
pensieri che si fanno, sai? E allora si tenta di trovare una scappatoia, una
via d’uscita. Si cambia. C’è che si adatta e continua l’esistenza, ma c’è anche
chi cerca disperatamente la parte mancante di sé, che si sforza di guardarsi
dentro, con risultati sempre più deludenti. Quando si è in questo stato d’animo
l’essere confinati porta alla disperazione. Ci si ritrova a scrutare sempre gli
stessi angoli, a sbattere contro gli stessi spigoli. Immutabile, impassibile.
Niente universi, solo barriere. Essere uomo e chiedersi il perché è deleterio,
porta solo all’annullamento dell’essere. Ti sei mai posto il problema: esisto?
O, ancora più terribile, posso esistere? Dover chiedere il permesso per ogni
tuo respiro a Qualcuno di indefinito… Il non conoscere l’identità di questo
Qualcuno e dover accatastare ogni tuo desiderio porta solo, alla fine di tutto,
a possedere una scatola di rimpianti…” “Io ho visto cose che non potresti
immaginare, scoperto tesori immensi, assistito a scene impressionanti. Ma nulla
mi stupisce come l’essere vivo. Il sapere che vedo, parlo, penso. Ma essere
così vasto, così infinito porta a non conoscere di sé che una parte
infinitesimale. Non sapere dove si inizia e dove il nostro essere giunge alla
fine è ancora più brutto che l’essere “intrappolati”. Invidio te, che sbatti
sempre contro gli stessi spigoli. Io ancora non ho scorto nemmeno una parete…
Ed è terribile non avere un proprio luogo. Milioni di uomini si imbarcano per
l’America, l’Africa o chissà quali altre mete straordinarie. Sono carichi di
sogni, illusioni… Non si rendono conto che ciò che rende la vita unica non è a
miglia da loro, ma è più vicino ci quanto possano immaginare. Forse la vita si
trova semplicemente nello sguardo di qualcuno, ma loro non l’hanno incontrata
perché erano troppo occupati a cercare la mancanza tra i deserti e le praterie.
Non vale la pena fuggire. Hai mai sentito parlare dei Tuareg? Nomadi del
deserto che trascorrono la vita a passare da una duna all’altra, sostando poco
tempo di tanto in tanto. Perché? E’ solo un’usanza oppure è un qualcosa di più
radicato? Cosa cercano? Forse un posto dove riposare? Ti assicuro che no c’è
luogo al mondo diverso. Tutto si somiglia. Puoi salire e oltre passare cento,
duecento dune, ma il risultato non cambierà. Non è il luogo, sei te stesso”.
Quante volte avevano fatto questo discorso? Pablo avrebbe voluto partire, il
mare avrebbe voluto arrestarsi. Si invidiavano a volte ma erano certi, anche se
non lo avrebbero mai ammesso, che se mai avessero avuto il coraggio di cambiare
la loro realtà, niente sarebbe mutato. L’insoddisfazione e il desiderio di
essere qualcun altro non li avrebbe abbandonati.
Pablo ricordava. Ottanta
tre anni trascorsi senza un perché, il tempo si dilatava e si restringeva di
continuo impedendogli di distinguere il vero dai sogni. Era davvero esistito? E
poi, alla sua età, aveva ancora il vizio (se di vizio si può parlare) di porsi
simili domande. La saggezza non dovrebbe portare alla pace interiore? Ed invece
si poneva domande da sedicenne e non riusciva a evitarlo. Forse perché aveva
sempre posseduto questo muoversi incessante dentro sé, quasi un moto di onde e
di correnti e non poteva certo modificare il suo stato naturale. Neanche con la
saggezza. Ma davvero il non porsi domande era saggezza? Non era forse
stupidità? Chi vive senza una lacrima, senza una domanda, senza un mai il
dubbio di stare semplicemente sopravvivendo a se stesso, può dire di avere
vissuto davvero? Cos’era giusto? Cos’era il male?
Era circa un anno che lui e
il Mare non si parlavano. Non c’era un motivo particolare, semplicemente
pensava. Pensavano a tutto. A i vecchi discorsi ma anche a cose nuove, a
teorie, sogni. Non ci è dato sapere di che portata fossero tali pensieri. Ed
ora Pablo si sentiva prossimo alla fine. Era vecchio, stanco e troppo debole
per sorreggere ancora per molto tutte quelle domande a vuoto. Ruppe il silenzio
per primo. “E’ giunto il momento di partire”. Queste parole suonavano strane
alle sue orecchie. Ora che il destino aveva deciso per lui, ora che il suo
sogno di vita di stava per realizzare, ora avrebbe voluto ancora un po’ di
tempo, la paura lo stava prendendo a poco a poco. Il mare sapeva cosa
intendeva. Avrebbe perso il suo amico e
per questo lo ascoltava con una calma e una pazienza che sconcertarono un poco
il vecchio. Voleva assaporare le ultime parole della persona che era riuscita
davvero ad entrare dentro i suoi pensieri. Ascoltarlo ancora per un poco era
l’unica cosa che voleva. “Sai, ci ho pensato e molto anche. Ho vissuto con te
ogni momento e se mi specchio dentro te vedo me stesso bimbo e adulto e
ragazzo. Felice, triste, irritato. Tutto me stesso ti appartiene. E’ ora che tu
possieda anche il mio corpo. Devo morire, lo sento, ma non voglio abbandonarti.
Voglio che tu mi prenda con te. Ma non voglio che ti lo consideri un altro fallimento,
non voglio che tu mi costruisca una tomba per seppellirmi nella tua memoria. IO
voglio viaggiare dentro i tuoi pensieri, voglio unire la mia staticità con il
tuo movimento. Forse così troveremo davvero la perfezione. Capisci? Voglio
entrare nel tuo spirito definitivamente” Nella sua infinita saggezza il mare
taceva, colmo di tristezza e malinconia per i tempi che, di lì a poco,
sarebbero svaniti. Il cambiamento, pensava, non è mai positivo. “ E’ giunto il
momento, amico mio, prendimi con te”. E Pablo si alzò, camminò, guardò il cielo
e si lanciò nell’immenso blu. Sentì un abbraccio per tutto il corpo, un calore
mai sentito… Umano… Era dolce morire così… Ma non stava morendo, viveva per la
prima volta. E non si accorse mai che il Mare, che sapeva che non avrebbe più
potuto parlargli, che avrebbe dovuto sopportare il vuoto dei suoi occhi persi,
non seppe mai che aveva unito le sue lacrime con la sua essenza. Dolore e morte
il risultato di un’esistenza. E nuove domande negli abissi…. HA DAVVERO SENSO
TUTTO QUESTO?
COMPAGNI, SEPPELLITEMI IN ISLA NEGRA,
DI FRONTE AL MARE CHE CONOSCO, AD OGNI AREA RUGOSA DI
PIETRE
E D’ONDE CHE I MIEI OCCHI PERDUTI NON RIVEDRANNO.
OGNI GIORNO D’OCEANO MI PORTO’ NEBBIA O INVIOLATE
ROVINE DI TURCHESE
O SEMPLICE ESTENSIONE, ACQUA RETTILINEA, INVARIABILE,
Ciò CHE CHIEDEVO, LO SPAZIO CHE DIVORO’ LA MIA FRONTE.
OGNI FUNEBRE PASSO DI CORMORANO,
IL VOLO DI GRANDI UCCELLI GRIGI CHE AMAVANO L’INVERNO,
E OGNI CERCHIO TENEBROSO DI SARGASSI
E OGNI GRAVE ONDA CHE SCROLLA IL SUO FREDDO
ED ANCOR PIU’ LA TERRA CHE UN INVISIBILE ERBORIO
SEGRETO,
FIGLIO DI BRUME E DI SALI, ROSO DALL’ACIDO VENTO,
MINUSCOLE COROLLE DELLA COSTA UNITE ALL’INFINITA
ARENA:
TUTTE LE CHIAVI UMIDE DELLA TERRA MARINA
CONOSCONO OGNI GRADO DELLA MIA GIOIA,
SANNO CHE Lì VOGLIO DORMIRE, TRA LE PALPEBRE DEL MARE
E DELLA TERRA…
VOGLIO ESSER TRASCINATO GIU’, NEL PROFONDO,
CON LE PIOGGIE CHE IL VENTO INFURIATO DEL MARE ASSALTA
E STRITOLA,
E POI, PER CANALI SOTTERRANEI, PROSEGUIRE
VERSO LA PRIMAVERA SEGRETA CHE RINASCE.
-DISPOSIZIONI,
PABLO NERUDA-
Alice
Rubrica fissa del Nongio (sta per Nongiovane). Cos’è? Indignazione, rabbia, voglia di cambiare. Una pagina per conoscere meglio ciò che non va.
SVEGLIAMOCI!!!
Qualche
anno fa’ ridevo quando i Media definivano la nostra generazione, quella dai 18
ai 25 anni, la generazione X; purtroppo sbagliavo, credevo che fosse la solita
“Etichetta” per definire qualcosa che non si conosce.
Stavolta avevano ragione loro, siamo un’incognita,
una generazione invisibile, cioè c’è ma non si vede, non c’è rimasto più
niente, niente valori, niente ideali, niente interessi, insomma niente di
niente.
Le uniche cose rimaste sono: superficialità,
ipocrisia ed egoismo, naturalmente accompagnate dal culto dell’apparire a tutti
i costi; si è dato così tanta importanza a questo culto che alcune persone
ormai sono solo quello, non se ne accorgono ma dentro sono morte da un pezzo.
Avete mai pensato il controllo che hanno i Media
sulla nostra generazione, è pressoché totale compriamo qualunque cosa che loro
vogliano farci comprare, ci danno qualsiasi notizia come se fosse vera, ma in
realtà lo è veramente?
Prendete il cellulare, credete davvero che quei 28
milioni che ne hanno preso uno in Italia, ne abbiamo davvero bisogno? Se è così
siete degli illusi, anche in questo caso i Media hanno preso il sopravvento
inculcando nella testa della gente che il cellulare è necessario, ma in realtà
è vero il contrario.
La libertà di pensiero non esiste più, voi credete
di pensare con la vostra testa, ma non è così, preferite delegare a qualcuno
che lo faccia per voi.
Per molti una falsa sicurezza è meglio di una
sicurezza vera.
Ribellatevi a questa assurda situazione.
Il buon vecchio Jack ha detto:
“Un uomo solo che guarda il muro è un uomo solo,
due uomini che guardano il muro è il principio di
un’evasione”.
E’ ora di distruggerlo questo muro!!!
Nongio
Questo spazio è per gli “inni”. Testi di canzoni significative, per testi o per origine. Questa volta trascriviamo “TESTE DA TAGLIARE”, la sigla di chiusura di ALCATRAZ. Ci sembrava ovvio. Dalla prossima però si comincerà con le canzoni con un forte significato umano.
Prima o poi esploderà, tornerà in libertà
Ad Alcatraz se vuoi.
Quanta vita c’è imprigionata dentro te
Non scordartela mai, liberarla tu puoi,
da Alcatraz se vuoi.
Siamo mostri nella folla, siamo teste da tagliare
l’innocenza non esiste, non ci colpevolizzare
siamo mostri nella folla ,siamo teste da tagliare,
sono il mostro, l’assassino
sono l’uomo, l’uomo, l’uomo è vivo…
Quanta vita c’è, imprigionata dentro te
liberarla dovrai, se fuggire tu vuoi
da Alcatraz, puoi
Siamo mostri nella folla, siamo teste da tagliare,
l’innocenza non esiste, non ci colpevolizzare
siamo mostri nella folla, siamo teste da tagliare
sono il mostro, l’assassino,
sono l’uomo, l’uomo. L’uomo è vivo…
La scuola
giapponese
Tratto da In Asia, Longanesi e C., ISBN 88-304-1482-4.
L'idea mi venne quando un amico mi regalò un bonsai,
un albero nano, e mi disse: "In questo Paese fanno lo stesso con gli
esseri umani: a forza di potarli e tagliarli li fanno crescere tutti su misura".
Il gran segreto dei giapponesi è nelle loro
fabbriche. La radice del loro successo economico è tutta lì, nella precisione,
nell'efficienza con cui producono le cose. La fabbrica giapponese di più grande
successo è quella che produce i giapponesi stessi: la scuola. Ogni anno, dalle
automatizzate catene di montaggio del sistema scolastico, escono ventotto
milioni di ragazzi e ragazze. Come tutti i prodotti giapponesi, questi giovani
sono di ottima qualità e di grande affidamento. Allo stesso tempo però sono
standardizzati, senza individualità, come tutte le cose fatte in serie. I
bambini giapponesi frequentano per nove anni la scuola d'obbligo. Il 94 per
cento arriva fino alle scuole medie superiori, il 36 per cento s'iscrive
all'università. I risultati di questa fabbrica sono impressionanti. Nonostante
le enormi difficoltà della lingua - vanno, per esempio, imparati tre diversi
sistemi di scrittura - tutti i giapponesi finiscono per saper leggere e
scrivere. A far di conto sono ugualmente bravissimi: nei concorsi
internazionali di matematica gli studenti giapponesi si piazzano regolarmente
primi. Anche nella musica riescono bene. Fra i partecipanti ammessi al concorso
Chopin di Varsavia almeno un quarto è giapponese. Quasi nessuno però riesce a
entrare in finale. "È impossibile distinguere l'uno dall'altro", ha
spiegato poco tempo fa uno dei giudici. "Suonano tutti allo stesso
modo." In Giappone, la strada più sicura per avere successo è quella della
scuola ed è così che ogni giapponese, fin da piccolissimo, viene messo sotto
torchio perché studi. Un terzo dei giapponesi viene costretto dalle famiglie ad
andare a scuola all'età di tre anni, la metà a cinque. "A vent'anni un
giapponese è disciplinato, docile e rispettoso dell'autorità", dice lo
scrittore Shuichi Kato. "La scuola è efficientissima: riesce a trasformare
piccoli esseri umani in tante foche ammaestrate." Secondo alcuni esperti
questo sistema scolastico, che sforna a getto continuo giapponesi diligenti e
non ribelli, sarebbe alla base della stabilità del Paese; il "miracolo
economico" del dopoguerra avrebbe le sue radici nel "miracolo
dell'educazione". Secondo altri, invece, il tallone d'Achille del colosso
Giappone sarebbe proprio in questo tipo di scuola che alleva gente incapace di
affrontare i problemi del futuro. "Se non la finiamo al più presto con
questa produzione in massa di robot di seconda categoria, il Giappone nel
prossimo secolo si sfascerà", mi dice Naohiro Amaya, ex vice ministro del
MITI, il ministero per il Commercio
Internazionale e l'Industria, e oggi uno dei dirigenti del colosso
pubblicitario Dentsu. "Abbiamo sempre più bisogno di giovani creativi,
dotati di fantasia, ma le nostre scuole continuano a darci esattamente il
contrario." Sebbene nel Giappone stesso gli svantaggi dell'attuale sistema
scolastico vengano discussi e suscitino crescenti preoccupazioni, molti
stranieri continuano a stravedere per questo sistema e alcuni propongono
persino d'importarne certi aspetti nei nostri Paesi. Un recente studio
americano, per esempio, definisce la scuola giapponese "altamente efficace
e democratica". "La considerano democratica perché a ogni bambino viene
propinato lo stesso tipo di educazione. In realtà questa forma di egualitarismo
è una nuova forma di totalitarismo", sostiene Steven Platzer, un pedagogo
dell'università di Chicago, ora all'università di Tokyo. L'impressione che si
ha degli studenti giapponesi è quella di una massa rigidamente controllata e
continuamente sotto pressione. A vederli uscire al mattino dalle stazioni della
metropolitana, tutti nelle loro uniformi scure, i più piccoli con la cartella
sulle spalle, e mettersi poi rigidamente in fila, sugli attenti nei cortili
delle scuole, si pensa più a soldatini che a scolari. Ogni scuola ha la sua
uniforme. Tutte derivano dallo stesso modello prussiano che il Giappone adottò
nel secolo scorso, quando improvvisamente il Paese, per modernizzarsi, decise
di copiare tutto quel che poteva dall'Occidente: una gonna blu scura a pieghe
con camicia alla marinara per le ragazze; pantaloni neri con giacca abbottonata
fino al collo per i maschi. I berretti sono quelli che erano di moda nella
Germania di Bismarck. Ogni scuola ha i suoi regolamenti. L'osservanza è
d'obbligo. Ogni dettaglio è precisato: dalla lunghezza delle gonne alla misura
delle cartelle, al colore dei calzini. I maschi devono portare i capelli a
spazzola e nasconderli nel berretto; le femmine non possono né tingerseli né
farsi la permanente. Se una ragazza ha riccioli naturali o i suoi capelli sono
di una tonalità diversa da quella corvina della maggioranza dei giapponesi, è
necessario che abbia sempre con sé un apposito certificato per spiegare la sua
"anormalità". Una scuola, per esempio, ha stabilito che le scarpe da
ginnastica degli studenti devono avere dodici buchi per le stringhe, un'altra
che le ragazze possono portare solo mutandine bianche. La madre di un ragazzo di
Tokyo, che durante una gita scolastica a Nara, a 370 chilometri dalla capitale,
era stato scoperto con un paio di pantaloni un po' più stretti di quanto
stabilito, ha dovuto raggiungerlo al più presto per portargliene un paio di
taglio regolamentare e impedire così che venisse punito. I modi con cui gli
studenti pagano per i loro atti d'indisciplina variano da scuola a scuola, ma
spesso le punizioni sono fisiche, comportano una qualche forma di violenza. Il
caso di un professore che è andato a casa di una sua allieva per suggerirle di
suicidarsi con un coltello da cucina, dopo che era stata scoperta a fumare, è
certo eccezionale, ma i giornali riferiscono in continuazione episodi di
violenza che avvengono nelle scuole. Secondo una recente inchiesta del
ministero della Pubblica Istruzione, uno studente su tre nelle scuole medie ha
subito una qualche punizione fisica. Di questi il 70 per cento ha riportato
ferite. Un professore di liceo ha scritto indignato al quotidiano Asahi per raccontare di aver visto nella
sua scuola "ragazzi cui è stata rapata la testa, altri presi a schiaffi o
rinchiusi di forza negli armadietti degli spogliatoi". Almeno cinque
ragazzi negli ultimi due anni sono morti in seguito alle violenze subite a
scuola, ma nonostante le proteste di alcuni genitori, l'uso di punizioni
fisiche, di per sé illegale, viene generalmente accettato. "I genitori
sono stati a loro volta picchiati quand'erano ragazzi e pensano che un maestro
che picchia sia seriamente impegnato nel suo lavoro", spiega Kenichi
Nagai, fondatore di un gruppo civico per la protezione dei diritti
dell'infanzia. In Giappone il conformismo è considerato una grande virtù e la
pressione a sottomettersi, a non disturbare "l'armonia sociale" con
atteggiamenti individualistici comincia prestissimo. "Le affido mio figlio
perché ne faccia un buon membro della società, uno che non dia noia agli
altri", è la formula più comune usata dalle madri giapponesi quando
portano per la prima volta i loro bambini all'asilo. È all'asilo che il
"montaggio" di un buon giapponese comincia. Fermo, con le mani sulle
ginocchia unite, la schiena dritta, il piccolo giapponese si abitua a occupare
poco spazio e a controllare i propri movimenti. Subito impara a rispettare i
regolamenti. Molti asili non solo esigono che tutti i bambini si portino la
stessa merenda, ma impongono anche che sia sistemata secondo un modello preciso
nell'apposito contenitore e che i bambini la mangino in una precisa sequenza. A
scuola il bambino non viene abituato a pensare con la propria testa, ma addestrato
a dire la cosa giusta al momento giusto. Per ogni domanda esiste una risposta e
quella va imparata a memoria. "Che cosa succede quando la neve si
scioglie?" chiede la maestra, e la classe, in coro, deve rispondere:
"Diventa acqua!" Se a uno viene da dire: "Arriva la
primavera!" è redarguito. Con quello sfoggio di fantasia si è messo fuori
del gruppo e questo è mal visto. "Il chiodo che sporge, va preso a
martellate", dice un vecchio proverbio giapponese. E un principio ancora
validissimo. Chi esce dai ranghi, chi la pensa a modo suo, chi crede di poter
fare da sé, è un "indesiderabile". L'essere semplicemente
"diverso" dal gruppo è una colpa, l'essere escluso dal gruppo è la
peggiore punizione. Pochi mesi fa, un quattordicenne di Shimabara si è tolto la
vita perché, a causa di una piccola infrazione ai regolamenti della scuola,
temeva di essere escluso dalla squadra di baseball. Il contenuto stesso
dell'educazione non lascia alcuna scelta all'individuo. Il ministero della
Pubblica Istruzione decide quel che deve essere insegnato. I libri di testo
passano una severissima censura e lo studente giapponese, che può leggersi a
volontà i fumetti sadomasochisti che inondano il mercato, non riuscirà a
trovare, fra i libri che gli passano per le mani a scuola, uno che gli dia una
versione obiettiva, per esempio, della seconda guerra mondiale, uno che usi la
parola "invasione" per l'avanzata giapponese in Cina e nel Sud-Est
asiatico, uno che parli delle atrocità commesse dall'esercito imperiale giapponese
in quei Paesi. Generazione dopo generazione crescono così senza avere la minima
idea della recente storia del loro Paese e delle relazioni che questo ha avuto
con il resto dell'Asia, dove il Giappone è ancora visto con notevole sospetto.
"Fintanto che i cittadini non insisteranno sul loro diritto
all'informazione, il Giappone non sarà una società realmente democratica",
dice il professor Teruhisa Horio, decano della facoltà di Pedagogia
all'università di Tokyo e uno dei più duri critici del sistema scolastico di
questo Paese. "Per ora è lo Stato a decidere che cosa i cittadini devono
pensare." E lo Stato sembra avere un'idea molto chiara di come i cittadini
devono essere e del "giapponese modello" che la scuola deve produrre.
Il "modello" è stato descritto con grande precisione in un libretto
di 54 pagine, dalla copertina gialla, che ogni preside tiene oggi nel proprio
cassetto. E intitolato L 'immagine del
giapponese desiderato. Pubblicato dal ministero della Pubblica Istruzione
nel 1964, il libretto definisce la funzione e gli obiettivi del sistema
scolastico. "Per il futuro benessere dello Stato e della società, il
Giappone ha bisogno di un nuovo tipo d'uomo", si legge nel libretto.
"Un uomo che abbia coscienza della propria unicità di giapponese, un uomo
che trovi soddisfazione nella completa dedizione al lavoro." L'idea fu
brillante. Erano gli anni in cui il Giappone, ancora povero, era scosso da
violenti conflitti sociali, in cui la sinistra aveva ancora abbastanza forza da
contestare ai conservatori il diritto di governare e in cui la grande industria
giapponese progettava il suo grande balzo in avanti per catapultare il Paese,
come si diceva allora, "nell'era della massima crescita economica".
Si trattava di far dimenticare alla gente la politica, di mettere dinanzi al
naso di ognuno la carota del benessere. Si trattava soprattutto di popolare le
fabbriche, i cantieri, gli uffici del Paese con dei giapponesi che fossero da
un lato ben preparati, dall'altro leali e obbedienti. Alla scuola fu affidato
l'importantissimo compito di produrre questo tipo di cittadini che il professor
Horio chiama "gli schiavi dell'industria". Quel compito non è mai stato
ridefinito e L’immagine del giapponese
desiderato, nel frattempo alla sua ventesima edizione, è ancora una sorta di
Bibbia per gli educatori di qui.
Questo racconto è di Vittorio Zucconi e parla della
scuola in Giappone.
L'abbiamo trovato molto interessante. Ci piacerebbe
ricevere il tuo parere.
La stanza è immersa nel buio e solo una lampada snodabile
da tavolo proietta una chiazza di luce sopra la scrivania. Nel piccolo ovale
illuminato, la mano di un bambino giapponese traccia geroglifici con il
pennellino da calligrafia, silenziosamente. - La prego, non lo distragga, - mi
scongiura a bassa voce la madre, con una nota di durezza più' forte della sua
cortesia di ospite. La manina continua a disegnare i segni dei geroglifici, che
sono le lettere dell'alfabeto giapponese, e la madre chiude morbidamente la
porta alle nostre spalle, per tenere lontani i rumori e le voci degli ospiti
nel soggiorno. Mi scusi, ma che sta facendo suo figlio? - Ma come "che sta
facendo", - mi risponde stupita - i compiti per domani, no - I compiti? -
Guardo l'orologio: è l'una passata. L'una di notte. - E quando dorme? - mi
permetto di chiedere. - Dorme quando
può, - taglia corto la signora, gentilmente, ma fermamente, spingendomi fuori
dalla camera del bambino. Benvenuti in Giappone. Ormai sappiamo tutti, anche
senza volerlo, che il Giappone è diventato una "grande potenza
industriale", una nazione che produce enormi quantità di cose bellissime e
moderne vendute in tutto il mondo. Anche chi non si è mai mosso di un
chilometro dalla propria città e dalla propria casa, è stato in qualche modo
"toccato " dalle lunghe mani della potenza giapponese. L'orologio
digitale che portiamo al polso, il televisore che guardiamo a casa, la
radiolina portatile, il registratore, lo stereo, il motorino elettrico che fa
funzionare l'aspirapolvere, il cervellino elettronico nascosto che regola il
motore dell'auto, sono con ogni probabilità prodotti giapponesi, anche quando
l'etichetta o la marca sembrano diversi. Nomi come Sony, Honda, Panasonic,
Toshiba, Hitachi, Seiko, Citizen, Sanyo, Toyota, Nintendo, solo per citarne
qualcuno, sono entrati nel vocabolario e nelle case di tutto il mondo,
dall'Italia alle Filippine, dalla Cina alla Russia. Come trent'anni or sono si
diceva dell'Italia, così oggi si parla di un "miracolo giapponese".
Una nazione che nella seconda guerra
mondiale aveva perduto due milioni di soldati e un milione di civili, che aveva
visto la sua capitale Tokyo andare interamente in fiamme in una sola notte di
bombardamenti incendiari (morirono 180.000 persone) e altre due, Hiroshima e
Nagasaki, polverizzate in pochi secondi dalla bomba atomica, è divenuta in
quarant'anni appunto una "grande potenza" industriale. E al centro di
questo "miracolo" c'è quella piccola chiazza ovale di luce proiettata
sulla scrivania di un bambino alla una di notte. Ci sono la fatica, l'impegno,
la disciplina di un popolo che per uscire dalle macerie - e dalla vergogna - di
una guerra, non ha chiesto aiuto alla fortuna o elemosine agli altri paesi, ma
ha pescato nella sola risorsa che in Giappone abbonda: la capacità dei singoli
di sacrificarsi per il bene di tutti. Un sacrificio che comincia dai bambini:
in quella stanzetta semibuia dove vedevo la manina tracciare le parole alla una
di notte. - Come ti chiami? - chiesi al bambino che faceva i compiti.- Taro. -
Quanti anni hai? - Undici. E mezzo, - si affrettò ad aggiungere. - Che classe fai? - La sesta, - l'ultima
delle sei classi elementari, seguite poi da tre medie, obbligatorie, e tre di
scuola superiore. - Mi racconti come passi la tua giornata, Taro? - Si sveglia
alle 6 e 30 del mattino, e non c'è
bisogno di un grande matematico per fare subito il conto: se alla una è ancora
sveglio a fare i compiti, non dorme più di cinque ore per notte. Una pacchia. -
Ma non hai sonno durante il giorno?- Beh sì, molto, - rise Taro scuotendo il
testone fitto di capelli dritti e neri, - ma il sonno mi passa quando penso a
tanti dei miei compagni di scuola che si alzano alle 5 del mattino per fare
ancora un po' di compiti e per ripassare le lezioni. La mia mamma mi lascia
dormire di più. - Una santa, quella donna. Taro frequentava una scuola privata,
costosa, scelta con cura dalla madre e pagata con grande sacrificio dalla
famiglia che non era certo ricca ma sa che non basta andare bene a scuola, per
fare carriera domani. Bisogna frequentare le scuole migliori, fin dall'asilo,
per essere ammessi alle università migliori e poi avere i buoni posti di
lavoro.
- Per arrivare a scuola devo prendere due metrò, in
tutto sono 50 minuti di corsa. - Che seccatura. - Ma no, ci divertiamo un
sacco, corriamo sui marciapiedi, ci diamo spinte, qualche volta pestiamo i
piedi alle gente nei vagoni del metrò. - Talmente pieni, a quell'ora, che sul
marciapiede ci sono incaricati speciali che devono letteralmente spingere i
passeggeri dentro le porte per farcene stare qualcuno in più, come si fa con le
valigie nel portapacchi quando si parte per il mare. La scuola comincia alle 8
e 50 e va avanti per quattro ore prima dell'intervallo. Ogni giorno, si fanno
due ore di lingua giapponese, che è lo studio, durissimo, dei kanji, i caratteri complicatissimi
dell'alfabeto cinese che anche i giapponesi usano. E’ uno studio che comincia
in prima elementare e in pratica non finisce mai. Solo per leggere un giornale,
è necessario conoscere circa 1500 di questi " ideogrammi " e una
persona colta, un avvocato, uno scrittore, un medico, deve impararne 20.000. Pensate: per leggere un libro come
questo in giapponese, dovreste conoscere 20.000 lettere. E voi vi lamentate. Per fare un confronto, nel nostro
alfabeto latino, il vecchio, caro "A, B, C", ci sono solo 21 lettere,
26 se vogliamo aggiungere le lettere entrate nell'uso anche da noi, come
"i", "k", "x", "y" e "w".
Dopo le due ore immancabili di giapponese e dello studio - tutto a memoria - di
migliaia e migliaia di geroglifici, arriva un'ora di matematica, tutti i
giorni, severissima. Anche per questo gli scolari giapponesi risultano sempre
fra i migliori nel mondo quando si fanno confronti e concorsi internazionali di
matematica. Poi c'è un'ora di "scienze sociali", materia un po' vaga
sotto la quale si fanno storia, geografia, politica, etnologia che è lo studio
dei popoli. A mezzogiorno e mezzo arriva l'obento,
la colazione che passa la scuola nel refettorio. Riso con pesce, riso con
carne, riso con verdure, riso con alghe, riso con questo e riso con quello,
sempre riso, che è la base di tutta l'alimentazione giapponese, come per noi è
la pasta. - E non ti scocci del riso, Taro? - Si', mi piacciono più gli
spaghetti e la pizza, - confessò, ma subito aggiunse: - Non lo dica alla mamma,
per favore. - Giuro. Digerito il riso, arrivano altre due ore di scuola al
pomeriggio. Un'ora di - indovinate? - giapponese, un'ora di scienze. Poi a
casa. - A casa? - mi guardò stupito Taro. - No, no, prima di uscire dalla
scuola dobbiamo naturalmente pulire. Scopiamo i pavimenti delle aule, mettiamo
in ordine i gabinetti, spolveriamo i banchi...- Aspetta un momento. Come
sarebbe a dire "puliamo i gabinetti"? Gli scolari stessi puliscono la
propria scuola? - Certo, - mi rispose Taro tornandomi a guardare come se fossi
matto, - è ovvio, perché? Gli scolari nel suo paese non puliscono la scuola
prima di uscire? - E’ già molto se non la sporcano, ma andiamo avanti. Tra
giapponese, matematica, riso e pulizie si fanno le 4 del pomeriggio. Gli
scolari si rituffano nel metrò, cambiano treno, camminano (nessuno va a
prendere i figli in auto, non nel traffico congestionato di Tokyo) e tornano
allegramente a scuola. Anzi, al doposcuola. Alle 5 del pomeriggio comincia lo juku, il corso di ripetizioni
integrative, a pagamento, al quale tutti i genitori che possono, o che
vogliono, mandano i figli. L'”obbiettivo" è prepararli fin da piccoli,
fino dalle elementari, alla prova cruciale che deciderà della loro vita di
adulti: l'esame di ammissione alle università. Tutti gli ordini e i gradi di
scuole private, dalle elementari fino all'università hanno esami di ammissione
per entrarci. Quelle pubbliche, di Stato, no, e ci si entra per forza. Nessuno
viene mai bocciato, tutti sono promossi e, se la cosa vi sembra una cuccagna,
aspettate. Poiché tutti sono promossi (a meno di gravi infrazioni disciplinari
che possono causare l'espulsione) i voti e i diplomi non contano nulla. Quello
che conta è " dove " questi voti e questi diplomi sono stati presi,
in quale scuola. Se la scuola è buona, famosa, severa, i voti e i diplomi
conteranno per andare avanti ed essere accettati in altre buone scuole. Se la
scuola è mediocre, facile, di cattiva fama, anche i suoi diplomi e voti saranno
considerati scadenti e si potrà entrare solo in altre scuole scadenti. Ma
neppure un " buon " diploma basta. Occorre comunque passare
attraverso la porticina strettissima e crudele degli "esami di
ammissione". Da noi, in Italia, gli esami si fanno soprattutto per "
uscire", alla fine. In Giappone, gli esami si fanno per "entrare".
E sono esami terribili, senza spazio per improvvisazioni o colpi di fortuna.
Soprattutto gli ultimi, gli esami di ammissione alle grandi università,
costringono i candidati a rispondere per iscritto a centinaia e centinaia di
domande concrete, fatti, date, formule, nozioni e i voti vengono dati contando
il numero delle risposte corrette e di quelle sbagliate. Punto e basta. Chi sa
di più passa. Chi sa di meno torna indietro. I doposcuola - gli juku - non fanno altro che imbottire la
testa degli allievi, fino da quando hanno cinque o sei anni, con altre nozioni,
trapanandogli il cervello con sempre più informazioni. Ai più bravi, gli
insegnanti mettono una fascia bianca attorno alla fronte, come simbolo di
sacrificio, dedizione, vittoria, come la fascia che portavano i kamikaze, i piloti degli aerei-suicida
che cercavano di colpire le navi nemiche, americane, precipitandovi sopra e
uccidendosi. Al primo cenno di esitazione, alla prima caduta dei voti, gli
tolgono la fascia. A Taro fu tolta proprio pochi giorni prima che gli parlassi
io. - Che è successo? -gli chiesi. - Avevo perso un giorno di lezione, una
domenica, - mi rispose abbassando gli occhi neri dentro una faccia arrossata
dalla vergogna, - perché ero andato a sciare con mio padre. Chi va a sciare non
è un eroe e non merita la fascia del kamikaze,
mi aveva detto il maestro. Meglio uno sciatore vivo che un kamikaze morto, secondo me, ma io sono
italiano e Taro era disperato sul serio. Il doposcuola di preparazione agli
esami funziona sette giorni alla settimana, 365
giorni l'anno, ogni anno. E dura quanto uno vuole. Le mamme tenere di cuore
vanno a prendere i loro figli alle 9 di sera, dopo quattro ore di ripetizioni,
e li portano a casa per la cena, come fa la mamma di Taro. Altre, le
"dure", quelle che i bambini chiamano con terrore le kyoiku mama, le " mamme-drago
", gli portano un cestino con qualcosa da mangiare e li lasciano sui
banchi fino alle 11,30 di sera, quando anche gli insegnanti finalmente si
stancano e chiudono. - Io sono fortunato, - mi spiegò Taro, - perché ogni sera
torno a casa e posso guardare la televisione fra le 9 e le 9 e mezza, prima di
rimettermi a fare i compiti. Però quando guardo la televisione ho un po' di
rimorso... - Una sciata ogni tanto alla domenica e una mezz'ora di televisione
al giorno. Questo Taro è un gran lazzarone, no? Ma almeno non diventa pazzo.
Altri, i figli delle " mamme-drago " rischiano la salute mentale,
qualche volta la vita. Ogni anno, quando si avvicina il momento degli esami di
ammissione, quello che i ragazzi chiamano " l'inferno", qualcuno non
ce la fa più e si toglie la vita. Purtroppo, i suicidi degli scolari che si
arrendono, o che hanno capito di non essere abbastanza bravi sono frequenti.
Per fortuna, in Italia non è così, o io sarei già morto da molti anni. Oppure,
la grande disciplina, la pressione per far bene a tutti i costi, ogni tanto
esplode come una caldaia. Capita che classi intere, improvvisamente,
inaspettatamente, diano fuori di matto e si mettano a sfasciare, senza ragione
apparente, le classi e le scuole che hanno fino a un momento prima
amorevolmente pulito. I pediatri e gli psicologi dicono che la pressione
mentale, lo "stress" come si dice adesso, su questi bambini e ragazzi
è assurda: - Vengono da me ragazzi di dieci o undici anni che soffrono di
esaurimento nervoso, di insonnia, addirittura di ulcera gastrica o di emorroidi
- (le malattie che di solito colpiscono gli adulti sedentari e con molte
preoccupazioni) mi raccontò un pediatra. La scuola è tutto, l'inizio e la fine di
ogni pensiero e di ogni giornata, per chi vuole andare avanti nella vita
giapponese. Quando le società giapponesi di ricerca demoscopica, quelle che
fanno i sondaggi di opinione e chiedono alla gente che cosa pensa, domandano
agli scolari dell'età di Taro, nove, dieci, undici anni, quali siano le colpe
più tremende di cui si possa macchiare un ragazzo, le risposte sono sempre
queste: primo: marinare la scuola. Secondo: disobbedire a un ordine
dell'insegnante. Terzo: dire una bugia all'insegnante. Quarto: non fare i
compiti. Per chi non è giapponese è difficile capire il senso di
responsabilità, la dedizione al dovere che impregna questa gente ammirevole e i
suoi figli. Quando studiano e quando si divertono. La domenica, per esempio, in
un bellissimo parco nel centro di Tokyo chiamato Harajuku, gruppi di ragazzi e di ragazze si ritrovano per suonare
all'aperto, per ballare, per esibirsi. E’ una fiera della follia, con diecine e
diecine di complessini " rock " che suonano tutti insieme e
contemporaneamente all'aperto, armati di chitarre, altoparlanti e generatori
elettrici per alimentare i loro amplificatori spaccaorecchie. Fianco a fianco
ci sono "punk " dai capelli tosati a punte come la Statua della
Libertà e " metallari " coperti di catene e di borchie. Gruppetti con
i capelli gialli, "skinheads " con le teste rapate e ragazzine con
minigonne e magliette coperte da scritte offensive, parolacce, immagini oscene.
Se non fosse perché sono tutti, inconfondibilmente, giapponesi, questi
apparenti "duri del rock " potrebbero essere inglesi, americani,
tedeschi, italiani. Ma ogni somiglianza, e ogni sospetto che quell'aspetto
truce nasconda cattive intenzioni, si dissolvono come nebbia al sole quando
scende la sera e i ragazzi e le ragazze di Harajuku
tornano a casa. Come a un segnale militare, i complessi cominciano a
smontare le loro fragorose attrezzature. Ripongono le chitarre e gli
amplificatori nelle casse. Si tolgono le parrucche gialle, arancioni, viola. Si
puliscono la faccia con cura e con la stessa cura fanno pulizia nella zona di
parco che avevano occupato, cartaccia dopo cartaccia, sacchetto dopo sacchetto.
Quando se ne vanno, il parco di Harajuku,
che è pubblico, dunque appartiene a tutti ed è responsabilità di tutti,
torna pulito come se un esercito di giardinieri e di netturbini lo avesse
passato al pettine. Le ragazze corrono nella più vicina stazione della
metropolitana, si chiudono nei gabinetti ed estraggono dalle loro borse i
vestiti. In pochi minuti spariscono le truccature "scandalose",
scompaiono le minigonne vertiginose, le magliette e le felpe
"offensive", le collane, le catene e la chincaglieria che portavano
al collo e alle braccia. In una metamorfosi fulminea e impressionante, le
spregiudicate, aggressive ragazze di Harajuku
escono dai gabinetti sotterranei trasformate in educande, ragazze timide e
tutte uguali, nelle gonne a piegoline, nelle camicette bianche coi colletti
alla marinara, nelle scarpe basse di vernice coi calzettoni bianchi. Vestite
per tornare a casa. A noi questa metamorfosi può sembrare ipocrisia, menzogna.
Per loro, è un segno di rispetto per gli anziani, per i genitori, per la
collettività che si sentirebbe offesa da quell'abbigliamento " punk
". Se mio padre e mia madre soffrono perché mi vesto da metallara, perché
dovrei farli star male? - mi spiegò un giorno con grande semplicità Yukiko, una
delle ragazze di Harajuku. - Che cosa
ci guadagno, io, a farli soffrire per una maglietta? O a lasciare il parco
pubblico sporco di cartacce? Forse non sono poi cosi matti, questi giapponesi.
Vittorio Zucconi, Stranieri come noi, Einaudi
ALICE (pezzi presi un po’ qua e un po’ là..)
Questo spazio è dedicato a tutti i grandi uomini che
hanno cercato di cambiare il nostro mondo, a tutti quelli che sono morti per
cercare di portare la pace e la fratellanza nei popoli e quelli che si sono
ribellati, venendo uccisi, martoriati. Passeremo da Balilla a Chico, da Gandhi
al Che… Per questo primo numero ci soffermeremo su MALCOLM X, il nero che
cambiò le carte dell’America.
Quanti di voi ogni mattina si
alzano e guardano la foto di Malcolm X che incita la folla a pugno chiuso per riuscire a sopportare ancora un po’ di
sana lotta contro il mondo? Quanti di voi cercano sempre un qualcuno da avere
come punto di riferimento, qualcuno che possa indicare la strada? Quanti di voi
vorrebbero avere il coraggio di morire per delle idee. Se almeno a una di
queste tre domande avete alzato la mano… Bhe, leggete quanto segue. Questa è la
storia di un uomo che, da solo, è riuscito a portare l’umanità a una svolta e
che è stato ucciso per questo suo amare l’umanità. Vi consiglierei di leggere
anche se non vi interessa o ne sapete già qualcosa… Potrete scoprire magari
qualcosa di più e capire ancora meglio le azioni di Malcolm e, nel caso crediate
non vi interessi, potrete stupirvi e incontrare un nuovo mito. Quel signore
nella foto qui sopra non è tanto diverso date, fratellino o sorellina… Anche
lui ha avuto le sue passioni e le sua angosce, le sue depressioni e piccole
insoddisfazioni. E’ stato un uomo, UNO COME NOI. Anche te domani potresti
lasciare una grande impronta nel mondo. Comincia adesso, guardati intorno.
Vedrai che cose da cambiare ce ne sono, bisogna solo cominciare. Questo è il tuo mondo, ricordatelo.
Malcolm Little (questo era il suo
vero nome) era nato a Omaha, Nebraska, il 19 maggio 1925. Suo padre, attivista
della UNIA, un’associazione che si batteva per il “ritorno” dei neri in Africa,
fu assassinato dai razzisti quando Malcolm aveva sei anni, ma i responsabili
non furono mai identificati. Abbandonò la scuola a quindici anni, dopo avere
sperimentato a proprie spese l’autoritarismo e le discriminazioni dei bianchi.
Ebbe l’adolescenza travagliata e difficile di tutti gli abitanti del ghetto
nero. A ventun anni fu imprigionato e scontò sette anni di reclusione per furto
a mano armata. Fu in questo periodo che Malcolm cominciò a prendere coscienza
della condizione del nero nella società americana e della necessità della sua
lotta contro il bianco. Si accostò così alla Nazione dell’Islam, movimento noto
anche come dei Black Muslims, dopo essere stato a lungo in corrispondenza con
il loro capo, Elijah Muhammad, e dopo aver dato fondo freneticamente a libri di
storia, filosofia, biologia. “Quando
Malcolm aderì alla setta dei Black Muslims, che esisteva sin dal 1931, i
seguagi di Elijah Muhammad erano poche centinaia – ha scritto Roberto Giammarco
nell’Introduzione del libro “AUTOBIOGRAFIA DI MALCOLM X (Libro che voi tutti
DOVETE leggere, per cercare di comprendere appieno la vita di questo piccolo
grande uomo)- Fu Malcolm, con la sua azione infaticabile, le sue straordinarie
doti oratorie e soprattutto con la sua capacità di dare un senso nettamente
politico e combattivo alla mitologia pseudoislamica di Elijah Muhammad, che
fece dei Black Muslims una forza su scala nazionale, un gruppo potenzialmente
capace di attrarre a sé le forze più avanzate del nazionalismo nero”. Malcolm x
fece proprio il rigorismo della setta e lo sposò all’esigenza propriamente
politica di una effettiva unità tra i neri d’America. Il decennio tra il 1952,
anno in cui Malcolm uscì dalla prigione, al 1963 vide Malcolm X stagliarsi
sempre più nettamente come la personalità di maggior prestigio del movimento.
Anche per questo, negli ultimi anni, tra Elijiah Muhammad e Malcolm X sorsero
dissapori, ma soprattutto divergenze sul piano della strategia politica.
Malcolm aveva anche accusato Elijiah Muhammad di avere tradito lo spirito del
movimento. “Al punto in cui erano le cose nel 1963 – scrive Giammarco – Elijiah
Muhammad doveva scegliere: o continuare nella polemica verbale restando
saldamente legato ad una piattaforma religiosa, oppure trovare forme nuove di
intervento nella lotta per i diritti civili ponendosi automaticamente su di un
piano politico. La struttura stessa della Nazione dell’Islam, dipendente dal
potere personale e da una gerarchia paternalistica, e soprattutto da interessi
economici ben precisi, favoriva la tendenza conservatrice di Elijiah Muhammad,
prudentissimo amministratore per nulla disposto a rischiare le posizioni
raggiunte. Se oggettivamente esisteva un’alternativa da cui dipendeva il futuro
della setta e anche in parte lo stesso movimento nero, sul piano soggettivo non
c’erano dubbi: Elijiah Muhammad non avrebbe abbandonato la sua linea separatista
di non impegno”. La rottura definitiva fu segnata dalla sospensione da cui
Malcolm X fu colpito nel dicembre 1963, dopo un discorso politico
particolarmente violento. Contrariamente alle attese di molti, Malcolm X non
abbandonò l’Islam, anzi sentì l’esigenza di approfondire attraverso un
pellegrinaggio alla Mecca le ragioni della sua scelta religiosa e politica.
“Nell’Islam – ha osservato Giammarco – Malcolm non cercava una risposta ad
interrogativi esistenziali, ma la matrice psicologica adatta per unificare i
neri, un legame con i popoli dell’Asia e dell’Africa in nome di una comune
esigenza di liberazione. “Sto per costruire e dirigere una nuova moschea qui a
New York, - dichiarava ai giornalisti il 12 marzo 1964. – Si chiamerà Muslim
Mosque Inc. Una tale organizzazione ci darà un fondamento religioso e la forza
spirituale che occorre per liberare il nostro popolo dai vizi che distruggono
la fibra morale della comunità nera… Ci sono molti tra noi che non hanno
esigenze religiose e perciò la Mulim Mosque Inc. sarà organizzata in modo da
consentire la partecipazione di tutti i neri… indipendentemente dalle loro
credenze religiose o dal loro ateismo”. Il programma della nuova moschea era
generico, una larga base organizzativo-religiosa intorno a cui raccogliere il
maggior numero possibile di militanti e che, in futuro, avrebbe potuto
diventare il germe per quella soluzione alternativa che Malcolm aveva già da
tempo intravisto. Comunque l’accento del suo pensiero era già sulla lotta per i DIRITTI UMANI e sulla dimensione
internazionale del problema nero. Il separatismo, l’esclusione dei bianchi
della lotta erano già superati… Il pellegrinaggio alla Mecca e i viaggi in
Africa furono decisivi non solo per la dichiarazione del pensiero di Malcolm,
ma per la creazione di contatti ad alto livello con i rappresentanti della
classe dirigente dei vari paesi. Per la prima volta nella storia, un nero
americano si presentava come rappresentante del suo popolo e stabiliva rapporti
non sentimentali né formalistici con i “fratelli dell’Africa, del Medio Oriente
e dell’Asia”. Il 29 agosto 1964, dal Cairo, Malcolm X scrisse una lettera ai
suoi collaboratori dell’Organizzazione per l’unità afroamericana, in cui diceva
tra l’altro: “Nelle prossime settimane, a meno che non accada qualcosa di
drastico che mi costringa a cambiare i miei progetti, visiterò parecchi paesi
africani e avrò contatti con diversi leader politici e sociali. Presenterò loro
il nostro problema senza riserve in modo che tutti comprendano la necessità di
sottoporlo quest’anno alle Nazioni Unite… Non dubito del loro appoggio, ma ho
imparato per esperienza a non dare niente per sicuro per poi disperarsi quando
non si concretizza. Dobbiamo imparare che siamo padroni del nostro destino solo
quando facciamo il massimo sforzo per realizzare i nostri obiettivi.
Comprendete benissimo che quello che sto cercando di fare è molto pericoloso
perché rappresenta una minaccia diretta a tutto il sistema internazionale dello
sfruttamento razzista. E’ una minaccia alla discriminazione in tutte le sue
forme su scala internazionale. Per questo, se muoio e se sarò assassinato prima
di tornare negli Stati Uniti, siate certi che quello che ho messo in moto non
sarà fermato… il nostro problema è stato INTERNAZIONALIZZATO… Purtroppo, l’oscura
premonizione contenuta in questo brano doveva realizzarsi: tre mesi dopo il suo
ritorno negli Stati Uniti, la mattina del 24 febbraio 1965 fu assassinato da
sicari rimasti sconosciuti.
E’ SUCCESSO…
L’uomo accusato di aver ucciso Malcolm X diventa un
capo della moschea di Harlem.
La Moschea di Harlem ha un nuovo
capo dei servizi di sicurezza. Si chiama Muhamad Abdul Aziz. Perché è una
notizia importante? Perché Aziz è uno dei tre uomini che furono sospettati – e
poi condannati da un tribunale – per l’uccisione, nel 1965, di Malcolm X. Aziz
oggi ha 58 anni, all’epoca dell’omicidio ne aveva 25. Fu arrestato pochi giorni
dopo il delitto. Malcolm X fu ucciso mentre usciva da un teatro, ad Harlem,
alla 165 strada, al termine di un comizio. Era con la moglie, incinta, e con i
suoi quattro bambini. Aziz ha sempre negato di essere il colpevole. L’uccisione
di Malcolm X creò molte polemiche tra i neri americani e il loro governo. Come
abbiamo già detto Malcolm aveva accusato Elija Muhamad di avere tradito. Elija
Muhamad e il suo delfino, Louis Farrakhan, iniziarono una campagna di
denigrazione contro di lui. Pochi giorni prima del delitto, Farrakhan – che
oggi è il capo più prestigioso dei neri americani- disse in pubblico che
Malcolm X- di cui era stato l’allievo prediletto- meritava la morte. Aziz è
stato nominato al vertice della moschea di Harlem (il suo incarico equivale a
una posizione numero 2 nella gerarchia del più importante ghetto nero
d’America) dallo stesso Louis Farrakhan. Aziz ha passato in prigione 20 anni
della sua vita, poi nel 1985 è uscito in libertà condizionata. Da allora lavora
in un programma contro la diffusione della droga, organizzato dai musulmani
neri ad Harlem. Il movimento di Malcolm X e poi di Farrakhan – che è un
movimento molto radicale, anzi fondamentalista- ha avuto un merito indiscusso:
ha avuto un merito indiscusso: ha combattuto in modo strenuo, a tratti anche
violento, la droga, sostenendo la tesi che la droga è uno strumento dei bianchi
per fiaccare i neri. Aziz è stato nominato ufficialmente al nuovo incarico dal
reverendo Benjamin F. Muhamad. Il capo della moschea ha detto che Aziz non è
colpevole dell’uccisione di Malcolm X. E ha aggiunto: “Malcolm X è stato ucciso
dall’FBI. Chiedo a Clinton di rendere noti i documenti segreti della FBI e
della CIA sugli assassini di Malcolm X, di Luther King e di Fred Hampton. Sono
sicuro che si scoprirà la verità e si vedrà che caddero tutti e tre per il
medesimo complotto”. Fred Hampton era uno dei leader del Black Panter, fu
ucciso in un agguato sotto casa.
Oltre la biografia di Malcolm X, un altro libro che
segnaliamo è: “L’ultima battaglia: discorsi inediti”. I discorsi e le
interviste di Malcolm X qui pubblicati sono rimasti sconosciuti o introvabili
per quasi trent’anni. Essi integrano quanto già del suo pensiero si sapeva
attraverso l’autobiografia e i discorsi usciti postumi. I temi principali
dell’ultimo Malcolm X sono quelli della liberazione degli afroamericani in una
prospettiva antimperialista, dell’identificazione degli oppressori nella
“struttura del potere” a livello
internazionale, delle nuove forme di azione politica sullo sfondo delle lotte
per i diritti civili. Ma dal complesso di questi discorsi del 1965 altri motivi
tornano sorprendentemente attuali a quasi trent'anni di distanza: le nuove
migrazioni internazionali dall'Africa e dall'Asia verso i paesi
industrializzati, la discriminazione razzistica su scala mondiale, la nascente
alleanza del neocolonialismo bianco con le élite dirigenti dei paesi di nuova
indipendenza, l'opposizione di Malcolm X alle apparenze religiose - islamiche e
cristiane - di problemi da affrontare sul terreno politico. La lezione radicale
di Malcolm X in questi discorsi è la sua capacità di rinnovarsi, la sincerità
nell'ammettere gli errori di suoi atteggiamenti integralisti di un tempo, la
rottura con la Nazione dell'Islam, il coraggio indomito del rivoluzionario che
ricomincia un percorso politico a mani nude, che mette in gioco se stesso pur
sapendo che la partita contro la discriminazione e lo sfruttamento è ancora
impari e che il proprio sacrificio potrà essere solo un tassello di un vasto
mosaico collettivo. Nulla di più falso, in questo ultimo Malcolm X, del
ritratto di un uomo amaro e violento. Poco prima dell'assassinio confessa a un
amico: «Se devo essere uno dei martiri, lo sarò nel nome della fratellanza”.
|
|
|
Alice & Nongio
Volevamo segnalare tre acquisti quasi obbligatori per chi vorrebbe cambiare almeno un poco, ciò che lo circonda. Tre proposte che aiuteranno Emergency, l’associazione umanitaria italiana che si occupa della cura e della riabilitazione delle vittime di guerra e delle mine antiuomo Ecco quindi qui di seguito alcune “opere buone” che potremmo fare:
Si tratta di un libro. Non un romanzo qualsiasi, ma una cronaca di una realtà che conosciamo solo tramite la tv. E’ il diario di un uomo ( Gino Strada, appunto, uno dei fondatori di Emergency) che da anni va nei luoghi da dove tutti fuggono, quando la guerra esplode in tutta la sua follia. E la sua è un’Odissea che non conosce soste, oggi in Afghanistan, domani in Etiopia, la settimana prossima nel Kurdistan o in Cambogia. Guerre infinite che non si concludono con il termine delle ostilità, ma continuano a uccidere e mutilare per mezzo delle mine antiuomo, disseminate a milioni nei territori. Mine antiuomo che in realtà si dovrebbero chiamare antibambino, perché sono i bambini le vittime predestinate di queste armi. Infatti le mine (che esplodono quando vengono raccolte o schiacciate) hanno la forma di giocattoli, di farfalle, di bamboline o, appunto, di pappagalli verdi. Questo perché l’obiettivo principale è evitare che questi bambini possano crescere e combattere. Per quanto sia terribile, questi bambini muoiono per niente, per una guerra che certo non avrebbero mai voluto combattere. Il libro è edito dalla Feltrinelli, ha 160 pagine e costa 22.000 lire. I diritti vanno a Emergency, ovviamente.
CALENDARIO
Si tratta di un calendario che contiene foto scattate da Raffaele Bellacicco nella zona di Erbil, dove i curdi, senza speranza, per volontà storica, spinti dalla forza del destino, motivati dal diritto all’identità negata, combattono una lunga guerra. Gino Strada scrive nella “prefazione” del calendario: “…Sto con Emergency poiché non parla di pace e di solidarietà ma la pratica, la costruisce ogni giorno”. Per comprarlo bisogna rivolgersi a:
Dada Rosso, strada madonna di Casale 20, Villanova d’Asti, telefono 0141/937189.
Ogni otto secondi muore un bambino. Ammazzato: dalla fame, da un fucile. Nell “Esercito invisibile” di Rodolfo Casadei si legge che su questa terra esistono almeno 250000 soldati-bambini. In Salvador la maggior parte di questi sono bambini che hanno visto i propri genitori catturati, torturati, assassinati dall’esercito.
IL MIO NOME E’ MAI PIU’ –
LIGAJOVAPELU’
E’ una proposta ormai datata, che risale a giugno scorso. Ma ci teniamo a ricordarla per chi ancora non ha speso quei soldi che altrove sono molto utili. Un singolo con due pezzi, “Il mio nome è mai più” e la sua base musicale. Non si tratta di una canzone politica, ma di una canzone contro tutte le guerre, senza distinzione. Non stanno è contro la Nato (come molti credono, prendendo la frase “Non le lancio più le vostre sante bombe”) né contro Milosevich… Non è riferita a una guerra in particolare. C’è chi pensa che i soldi (il cd costa 10000 lire) non vadano effettivamente a Emergency, forti anche del fatto che in “sotto copertina” ci siano dei nomi di aziende che hanno concorso alla realizzazione del cd. Vi assicuriamo che queste aziende non sono certo pagate dai guadagni del prodotto. Per informazioni chieste proprio a Emergency. Noi siamo certi che non ci hanno raccontato balle.
Alice & Claudio
UTILIZZO
DELLA CANAPA
La canapa ha un
campo vastissimo di possibili utilizzazioni (più di 50.000 usi) e secondo
diversi ricercatori é la risorsa naturale di maggior valore e più versatile del
mondo. Può essere usata come: Produttrice primaria di fibra naturale, usata per
fare cordami di ogni tipo, tessuti per tutti gli usi, come vele per navi,
vestiti, scarpe, tappeti, tendaggi, tele per dipingere, cartamoneta, ecc.
Produttrice di cibo (per consumo umano o animale): i semi di canapa sono secondi
solo alla soia per percentuale di contenuto proteico (ma le proteine contenute
nella canapa sono più digeribili), contengono tutti gli otto aminoacidi
essenziali e l’olio di semi di canapa è il più ricco in acido linoleico
(19-25%) e linolenico (51-62%), indispensabili al sistema immunitario. Inoltre
sono usati per l’alimentazione dei volatili e, dopo che ne è stato estratto
l’olio, con il rimanente si possono avere pannelli per l’alimentazione del
bestiame. Produttrice di solventi e oli combustibili: l’olio di semi di canapa
è sempre stato usato come miglior solvente naturale (e non inquinante) per le
vernici; come olio combustibile (olio da lampada) è stato usato fino
all’introduzione del petrolio (il motore diesel fu inizialmente progettato per
usare come combustibili oli vegetali e oli di semi fra cui quello di canapa).
Produttrice di medicinali: la canapa ha dimostrato di avere valore terapeutico
per la maggior parte delle malattie dell’uomo e di essere al contempo una delle
sostanze meno tossiche esistenti. E’ stata usata in medicina per millenni, e
fino al 1920-30 è stata forse il medicinale più usato al mondo. Pochi anni dopo
fu bandita dai tabulati medici, con la dicitura: ” sostanza tossica, di nessun
valore terapeutico”. Sono stati compiuti più di 10000 studi sul suo valore
terapeutico: tutti positivi tranne una dozzina, mai confermati. Attualmente si
ritiene che la canapa possa servire a scopo medicinale per combattere malattie
come: asma, artriti e artrosi, glaucoma, tumori, nausea, epilessia, reumatismi,
sclerosi multipla, paraplegia e quadriplegia, come antibiotico, contro i dolori
articolari e gli spasmi muscolari, contro i dolori mestruali e per facilitare
il parto, per eliminare cisti, come espettorante per pulire i polmoni, per
favorire il sonno, è utile contro l’enfisema polmonare, aumenta l’appetito,
allevia le emicranie e lo stress, favorisce il rilassamento, riduce la saliva,
i suoi semi sono di aiuto al sistema immunitario, dilata le arterie e riduce la
pressione, è di beneficio contro la depressione, allontana il dolore, qualunque
ne sia la causa (ma non lo sopprime), è un ottimo disintossicante e un valido
aiuto nelle crisi di astinenza alcolica e da oppiacei e ha centinaia di altre
applicazioni mediche (dal tetano alla dissenteria, dalla demenza senile a
numerose malattie mentali, ecc.) Produttrice di energia: la canapa è
considerata, su scala mondiale, la miglior fonte vegetale di biomassa per
produrre energia: gas, carbone vegetale, metanolo, benzine o elettricità.
Poterebbe sostituire il petrolio e tutti i suoi derivati ad un costo
concorrenziale, ma con costi ambientali enormemente inferiori. Miglioratrice
della fertilità del terreno: la canapa è coltura nettamente miglioratrice, e
può essere seguita da qualsiasi altra, innanzi tutto dal frumento. Le sue
radici profonde portano in superficie i nutrimenti necessari ai vegetali e
frenano l’erosione del terreno, lascia un notevole residuo di “forza vecchia”
(frutto dell’apporto di concimi organici); ripulisce il terreno dalle erbacce e
impedisce l’effetto costipante della pioggia sul suolo; inoltre riduce la
presenza di possibili predatori per le colture successive. Produttrice di carta
e cartone: la carta di canapa ha una resistenza enormemente maggiore di quella
da alberi e non necessita il loro abbattimento. La sua produzione danneggia
molto meno l’ambiente: per fare carta con il legno si impiegano solfati,
solfiti e cloro (diossina), per la canapa si può usare soda o, ancor più
ecologicamente, perossido d’idrogeno (acqua ossigenata). Inoltre il raccolto
per ettaro è notevolmente superiore a quello con gli alberi. Produttrice di
cellulosa: la polpa di canapa è per il 71% cellulosa. Può essere usata, oltre
che per la carta, in sostituzione di tutte le materie plastiche. Tramite un
procedimento chiamato “estrusione” può essere trasformata in qualunque
materiale, a eccezione dei metalli e del vetro. E’ addirittura utilizzata come
materiale edilizio, sia come isolante sia per costruzione (gli steli spezzati,
mischiati a calce, pietrificano e si trasformano in minerale). Negli ultimi anni in Europa si sta assistendo
ad una progressiva riscoperta di questa pianta preziosa: si cominciano ad
aprire negozi in cui si vendono esclusivamente materiali ricavati dalla canapa
(vestiti, telerie, corde, carta, cosmetici, semi e derivati per
l’alimentazione, materiale da costruzione, lettiere per gli animali, pennelli,
plastiche, detersivi, ecc.), tutti ecologicamente validi. Anche le industrie
cominciano ad interessarsene. Purtroppo è forse questa l’unica via per una
prossima accettazione di questa pianta e delle sue possibilità da parte di chi
(per mancanza d’informazioni) finora si è mostrato contrario.
Alice (pezzi
presi da siti Internet)
Avremmo
voluto fare un bell’articolo sui Desaparecidos. Non ci siamo riusciti, le
notizie sono troppo esigue. Non abbiamo trovato che accenni alla situazione.
Speriamo di poterlo fare comunque al più presto. Questa volta parliamo di un
fatto che ci interessa da vicino, l’estradizione (ma anche tutta la storia) di Silvia
Baraldini e la strage Cermis.
Storia di
Silvia Baraldini.
La
vita:
Silvia Baraldini è nata a Roma il
12 dicembre del 1947. Quella dei Baraldini era una famiglia di antifascisti:
uno zio era stato ucciso dalle squadre fasciste negli anni venti e il padre ha
subito la prigionia. Nel 1961, all'età di 14 anni, si è trasferita negli Stati
Uniti per seguire i genitori. Il padre era prima dipendente della Olivetti a
New York, poi funzionario dell'ambasciata estera a Washington. Negli Stati
Uniti ha continuato gli studi, frequentando le scuole medie superiori. Al suo
ultimo anno di liceo risale il suo primo approccio con la politica, quando è
entrata a far parte di un gruppo studentesco che appoggiava la protesta per i
diritti politici dei neri. Alla fine degli anni Sessanta si è iscritta
all'università. Era il periodo della guerra del Vietnam, quando gli Stati Uniti
davano chiari segnali di un imperialismo arrembante e militare. Ma erano anche
gli anni roventi della contestazione studentesca: dai campus di tante
università americane giungevano i segnali di un moto studentesco e giovanile
che si opponeva alla guerra. Negli anni 1967 - 1968 la lotta vietnamita ha
esercitato un fascino grandissimo sui giovani. Silvia ha scelto l'università
statale del Wisconsin, una delle più impegnate degli Stati Uniti, dove uno
sciopero contro la partecipazione americana al Vietnam raccoglieva diecimila
studenti e durava un mese. Durante il periodo universitario ha evidenziato il
suo forte e deciso impegno politico e sociale, partecipando attivamente al
movimento a favore dei diritti civili dei neri americani e a quello contro la
guerra del Vietnam da parte degli Stati Uniti. Silvia così ha descritto il suo
impegno politico: "Io mi trovai
molto naturalmente nel cuore del dissenso giovanile. Ho lasciato l'università
nel '70 per impegnarmi a tempo pieno nel movimento di protesta. Parlavo nelle
chiese a favore dei diritti dei neri, sono entrata nel comitato della difesa
politica di una ventina di pantere nere coinvolte in un processo. Infine ho
fatto parte del movimento comunista 19 Maggio che si ispirava a Malcolm X, il
rivoluzionario nero.
Il gruppo "19 Maggio" e "La
Famiglia":
Nel 1975 Silvia Baraldini è diventata membro attivo
del gruppo "19 maggio", il cui nome ricorda la data di nascita di Ho
Chi Min. Si trattava di un'associazione non clandestina, legalmente
riconosciuta, della sinistra radicale degli USA, che ha condotto tutte le sue
battaglie per la difesa dei diritti civili dei bianchi e dei neri. Tuttavia,
pur essendo legale, non era accettata dal governo americano. In seguito
l'associazione è stata accusata dall’FBI di cospirazione e in particolare di
aver favorito nel 1979 la fuga dalla prigione del New Jersey, di Joanne
Chesimard, alias Assata Shakur, leader nera americana. Anche Silvia Baraldini è
stata incolpata di aver partecipato alla sua liberazione. Il movimento 19
maggio è stato sgominato agli inizi degli anni ottanta e tutti i suoi dirigenti
messi in carcere. Secondo le autorità americane, Silvia aveva un ruolo di
ideologa in questa organizzazione e in altri movimenti afroamericani di
liberazione. La Baraldini ha militato anche nel raggruppamento "la
famiglia", che ha svolto in maniera piuttosto dilettantesca un ruolo di
appoggio logistico ad organizzazioni rivoluzionarie afroamericane come le
"pantere nere" e "l'Esercito popolare di Liberazione" Le
autorità americane hanno così descritto "la famiglia": "I membri
e gli associati della famiglia erano, in genere, uomini neri e donne bianche di
provenienza svariata ma compartecipi nell'obbiettivo di sostenere con il
ricorso alla violenza un movimento rivoluzionario nero in questo paese".
La condanna
Silvia Baraldini fu condannata nel luglio del 1983
dalla Corte Federale di New York a 43 anni di reclusione con una sentenza
emessa dal giudice Buffy per tre reati:
1. Intento di cospirare in
attività criminose, punibili in base alla legge Antimafia R.I.C.O. Per questa
imputazione le sono state inflitti 20 anni di carcere.
2. Concorso nell'evasione della
rivoluzionaria afro-americana Joanne Chesimard, alias Assata Shakur, dal
penitenziario federale di Clinton nel New Jersey avvenuta il 2 Novembre 1979.
Per questa imputazione le sono state inflitti 20 anni di carcere.
3. Rifiuto di testimonianza
davanti al Gran Giurì che indagava sull'attività rivoluzionaria degli
indipendentisti portoricani. Per questa imputazione le sono stati inflitti 3
anni di carcere. Cerchiamo ora di spiegare il perché della severità di questa
pena.
La prima imputazione riguarda la militanza della
Baraldini in due movimenti rivoluzionari "19 Maggio" e "La
famiglia". In base alla legge R.I.C.O. (Racheteering Influenced Corrupt
Organization), i crimini commessi da un membro di un movimento, vengono
automaticamente addebitati a tutti gli altri membri. La R.I.C.O. fu una legge
speciale emanata nel 1970 per colpire la mafia e la criminalità organizzata.
Tra l'altro fu subito dichiarata anticostituzionale dai maggiori giuristi, per
la sua arbitrarietà. Silvia Baraldini in pratica fu condannata a 20 anni di
reclusione per il solo fatto di aderire a movimenti definiti
"rivoluzionari", senza mai commettere crimini di sangue o attentati.
Nella seconda imputazione, riguardante l'evasione, la Baraldini ebbe un ruolo
molto marginale. Guidò l'auto usata per l'evasione, non era armata, non
partecipò direttamente all'azione evasiva in quanto aspettò fuori dal carcere.
Nell'evasione non ci furono né sparatorie né feriti. La terza imputazione
riguarda il rifiuto della Baraldini di comparire davanti ad un Gran Giurì che
indagava sul Fronte Nazionale di per la liberazione di Portorico. Questo suo
rifiuto le costò altri 3 anni di carcere. Quindi la nostra connazionale si
ritrovò condannata a 43 anni grazie ad una sentenza esemplare che non ha
bisogno di commenti. Dopo la condanna la Baraldini venne rinchiusa nel carcere
metropolitano di New York dove rimase sino al maggio del 1984 quando fu
trasferita nel carcere di Plesanton in California. Nell'85 l'FBI cercò di
trattare con Silvia affinché denunciasse alcuni componenti dei membri a cui
apparteneva, offrendole prima 25000 dollari, poi addirittura la libertà. La
Baraldini rifiutò decisamente e questo suo atteggiamento di non collaborare, di
non pentirsi e quasi di prendersi gioco dei federali le costarono nel 1987
l'appellativo di detenuta "pericolosa": dopo 4 anni di carcere si
ritrovò ad essere una delle detenute più pericolose d'America, pur non avendo
compiuto nessun'azione o comportamento particolare durante la detenzione e nel
gennaio dell'87 venne trasferita nel carcere "lager" di massima
sicurezza di Lexington nel Kentucky. Qui trascorse 19 mesi in condizioni
disumane: isolamento totale in celle sotterranee, perquisizioni corporali
continue, luce accesa giorno e notte, telecamere puntate addosso anche nel
bagno, utilizzo di un tipo di luce che non permetteva la distinzione dei
colori, non poteva tenere oggetti personali, non poteva appendere fotografie
ecc. Inoltre durante la detenzione in
questo carcere Silvia si ammalò di cancro uterino e fu sottoposta dopo varie
peripezie a due interventi chirurgici. Finalmente nel Luglio del 1988 dopo un
intervento di Amnesty International, il carcere di Lexington venne chiuso. Si
arriva quindi al carcere giudiziario di Manhattan e poi al sovraffollato
Metropolitan Correctional Center di New York. E siamo ai primi mesi del '90. Se
fino a questo momento la situazione era drammatica, ora diventa amara e
ridicola, sia da parte americana ma come al solito soprattutto da parte
italiana. Infatti entra ora in gioco la Convenzione di Strasburgo
che potrebbe, anzi dovrebbe rappresentare la fine di questa vicenda assurda.
Che cos'è la Convenzione di Strasburgo?
È
un documento che regola trasferimento di persone condannate, adottato a
Strasburgo nel 1981, approvato dal Congresso americano nel 1983 e dal Parlamento
italiano nel 1989. La Convenzione stabilisce che "... gli stranieri
privati della loro libertà a seguito della commissione di un reato abbiano la
possibilità di scontare la condanna nell'ambiente sociale d'origine ...".
Specifichiamo subito che la Convenzione non pone un obbligo al consenso del
trasferimento né limiti di tempo ma stabilisce "... l'opportunità di un
trasferimento solo se i due Governi sono d'accordo ...". Fino al 1990
in Italia, tranne alcune sporadiche eccezioni, c'era stato un vergognoso
disinteressa nei confronti del caso Baraldini. Nel 1989 Silvia fece richiesta
di essere trasferita in un carcere italiano, ma fu "sfortunata"
perché la domanda venne presentata proprio mentre era in corso lo scandalo dei
presunti finanziamenti all'Iraq da parte della filiale di Atlanta della Banca
Nazionale del Lavoro. L'Italia stava facendo pressioni affinché il ruolo dei
funzionari italiani in quella vicenda venisse insabbiato e allo stesso tempo
non poteva dunque far pressioni anche per appoggiare la richiesta del
trasferimento della Baraldini. Inoltre durante la visita dell'allora Ministro
degli Esteri Gianni De Michelis a New York il 24 Aprile 1990, la Baraldini
venne "casualmente" trasferita in tutta fretta, con un volo speciale
e sotto scorta armata nel carcere di Marianne in Florida, un carcere dalle
caratteristiche geografiche adatte per un isolamento totale dal mondo esterno:
dista 100 Km circa dal centro abitato più vicino, per raggiungerlo occorrono
circa 4 o 5 ore di volo da New York più due ore di automobile. Lo scopo era
quello di isolarla dalle visite. Intanto nel dicembre del 1990 arrivò la
risposta negativa alla domanda di estradizione: risposta che ha del ridicolo.
Il Ministro di giustizia americano motivò così il rifiuto: la detenuta in
Italia sconterebbe una pena minore di quella comminatale negli USA, con il
rischio addirittura di essere rimessa in libertà. E dato che è stata
protagonista di gravi reati, si è sempre rifiutata di collaborare e non c'è
segno di pentimento, una volta in libertà potrebbe continuare a tramare contro
gli Stati Uniti. Questa risposta non tiene conto della stessa Convenzione di
Strasburgo che permette la conversione della pena secondo l'ordinamento
italiano e dato che in Italia non esistono leggi anticostituzionali e ridicole
come la R.I.C.O. e soprattutto dato che in Italia il carcere non mira alla
vendetta ma alla rieducazione del detenuto, gli Stati Uniti non possono
pretendere di far scontare in Italia alla Baraldini oltre 30 anni di
detenzione, anche perché in Italia la pena massima è l'ergastolo che
corrisponde a 30 anni di carcere. Alla fine del gennaio 1992 il governo
italiano presentò un'altra richiesta di estradizione, aggiungendo nuove
garanzie nei riguardi della giustizia italiana ma la richiesta venne respinta
nuovamente da Washington con le stesse motivazioni della prima più una: il
trasferimento della Baraldini sarebbe apparso agli occhi degli americani come
un segno di debolezza della giustizia statunitense. Nel 1994 Silvia viene
trasferita dal carcere di Marianne a quello di Danburry, un carcere dalle
sembianze più umane, dove svolge il ruolo di bibliotecaria e le visite da parte
di parenti e di amici sono più frequenti. A cavallo fra il '94 ed il '95 fu
presentata la terza richiesta di trasferimento con il conseguente no da parte
USA motivato sempre dalle stesse argomentazioni ed infine nel marzo di
quest'anno ci fu il quarto e più travagliato no USA, che venne tenuto
all'inizio nascosto dal Governo Dini (eravamo in campagna elettorale) e che precedette
di poco l'evasione del terrorista palestinese coinvolto nel sequestro
dell'Achille Lauro, occasione in cui gli Stati Uniti con una perfetta faccia
tosta, rimproverarono la Giustizia italiana e cercarono di avanzare l'idea di
trasferire in un carcere americano il suddetto terrorista appena fu
ricatturato.
Bene, ora che abbiamo chiarito diversi punti torniamo a noi. In questi
anni dell’odissea di Silvia non si è più parlato (i Media sono dei veri maestri
a insabbiare la notizie che fanno troppo rumore), fino a quando nel marzo
scorso se ne è tornato a parlare per il viaggio di D’Alema negli State. Bisogna
aprire però una seconda parentesi, per spiegare cos’è la strage Cermis (perché
sicuramente ci sarà qualcuno che non sa cos’è o che non sa che si riferisce a
quel fatto).
LA STRAGE CERMIS
Alle
15.12 del 3 febbraio 1998, un EA-6B Prowler, decollato dalla base NATO di
Aviano, colpisce (inizialmente si pensava con il piano di coda, ma poi i
filmati hanno svelato la verità) i cavi
della funivia del Cermis, vicino Cavalese (TN) con la gondola dell'ala destra e
con l'ala stessa. Una delle due cabine cade, uccidendo 20 persone. L'unica
persona presente nell'altra cabina, il manovratore, viene salvata grazie
l'intervento di un elicottero. Il ministro Andreatta afferma che l'aereo si
trovava troppo basso e fuori rotta. Quest'ultima considerazione viene smentita
anche dal presidente degli USA, dicendo che d'ora in poi nessuna affermazione
sull'inchiesta dovrà esser formulata dal generale di brigata Vanderlinden senza
il consenso del Pentagono. Ora, ciò che è sicuro è che l'aereo si trovava
troppo basso rispetto ai limiti stabili dalle norme sugli spazi aerei, che
prevedono per il volo a vista, norme assai chiare. Lo spazio aereo del CTR di
Aviano è di classe D, quindi prevede che al di sotto del FL 100 (3400 m.) si
debba mantenere una separazione visiva verticale di 300 m. da ogni e più alto
ostacolo, nubi comprese ed una visibilità di almeno 5 km. La norma che limita
la velocità a meno di 250 kts non è valida per i velivoli militari, purtroppo.
Ma l'incidente non è accaduto all'interno del CTR di Aviano, per pochi
chilometri. Comunque le norme regolano lo spazio non controllato come di classe
G, con una separazione verticale di almeno 1000 ft AGL, dall'ostacolo più alto.
Quindi il comandante Richard J. Ashby volando al di sotto dei cavi della
funivia ha totalmente sbagliato, senza dubbio. E' anche vero, che per chi ama
la montagna ed il volo è capitato di
sovente vedere caccia militari americani fare "la barba" ai monti
oppure a piccoli aerei da turismo ! Inutile sono state allora le continue
denunce e le interrogazioni parlamentari. Si può capire, però il fatto che il
comandante Ashby non si sia accorto di aver rotto il cavo della funivia. A
quelle velocità, a quella quota i cavi non si possono vedere si confondono con
la boscaglia, (tant'è vero che è buona norma nel volo in montagna avere in
vista e passare sopra ai tralicci dell'alta tensione e degli impianti sciistici
non sopra i cavi; lui ci è passato sotto).
Perché
parlare della strage Cermis? Perché a dare ascolto al telegiornale si direbbe
che il motivo del viaggio di D’Alema fosse il verdetto di assoluzione
(assurdo!!!) per questa strage. Noi però questa notizia non l’abbiamo bevuta,
crediamo sia andata diversamente. Una volta incontratisi Clinton e D’Alema
hanno deciso per un vergognoso scambio: l’assoluzione dei piloti colpevoli
della tragedia del Cermis in cambio dell’estradizione della Baraldini in
Italia.
Qualsiasi commento è fuori luogo
Nongio & Alice
|
LETTERE (Su avvenimenti che ci hanno colpito, sfoghi personali, consigli…
Quello che ci passa per la testa).
Foggia,
11 novembre 1999. Sembra una giornata come tante, per decine di famiglie
indaffarate tra il lavoro e la vita privata. Una giornata normale, senza
imprevisti, come deve essere per persone normali, senza colpe o misteri da
nascondere. Solo le cose di tutti giorni possono infierire. Solo il nostro modo
di porsi alla vita può portare dei disagi. Ma purtroppo questo non è stato.
Purtroppo il “destino” ha portato via decine e decine di persone, senza un
motivo, senza un avviso. La morte è arrivata, decisa, anche se non tanto
silenziosa. I giornali ne parlano ancora, nonostante siano trascorsi vari
giorni. Mi riferisco al tragico crollo della palazzina. Dieci i sopravvissuti.
E 34 le vittime. Persone non subito riconosciute, un uomo trovato senza testa.
Molti sono morti di asfissia. Alcuni cadaveri sono carbonizzati o
semicarbonizzati, per effetto degli incendi esplosi dopo il crollo. Fra i primi
dieci morti ispezionati dal medico, alcuni avevano il colorito della pelle
scuro, tipico della morte per asfissia, dovuta alla polvere e al fumo. Si sta
indagando sulle cause del crollo, sono stati sequestrati tutti i verbali delle
riunioni condominiali che si sono tenute nel palazzo adiacente a quello della sciagura, già sgomberato. C’erano state diverse segnalazioni di
scricchiolii e crepe fatte dagli inquilini del palazzo crollato e si pensa che
il crollo possa essere stato provocato dalla costruzione del box successiva a
quella del palazzo o dalla lenta erosione delle fondamenta compiuta da
infiltrazioni d’acqua. A questo proposito un superstite, salvatosi perché fuori
per lavoro, ha dichiarato che se avessero rifatto le fogne la sua famiglia
sarebbe ancora viva. Ha perso la moglie e i suoi figli. Ovviamente dopo la
tragedia , sono state attuate delle perlustrazioni che interessano tutti i
palazzi più vecchi (quelli degli anni sessanta) e molte famiglie ora sono
alloggiate in alberghi a spese del Comune, in attesa che la loro casa venga
ristrutturata. Questo però dopo una tragedia che ha portato 34 vittime, molte
lacrime e dolori. E non è stata l’unico episodio del genere. Un’altra palazzina
a Mantova mi pare è crollata, anche se nessuno ne parla. E sicuramente molte
altre di cui non ne conosco l’esistenza hanno fatto la stessa fine. Dopo il
crollo il Presidente Ciampi ha fatto visita a Foggia, per portare conforto ai
superstiti che hanno perduto tutto quello che avevano, dalla famiglia ai beni
materiali. Ha incontrato tanto dolore e
tantissima rabbia, perché la gente ha la consapevolezza che tutto questo poteva
essere evitato. Ciampi ha detto le sue
frasi di cordoglio e: “Vorrei capire perché è successo, la gente ha il diritto
di sapere. L’Italia non può tollerare certe disgrazie”. E poi se ne è andato a
casa, con la moglie. E le macerie e la morti invece sono ancora a Foggia, e niente
potrà cancellarle. Tanto meno un intervento patetico come quello di Ciampi. Sì,
patetico. Non ho nulla conto Ciampi, ma sento solo tanta rabbia. Tutto questo
parlarne, questo speculare sulle lacrime, questo far ricorso all’ipocrisia mi
fa rabbia. Giornalisti che ci mostrano persone piangenti, persone che
vorrebbero essere lasciate in pace, ma che si vedono vendere il proprio dolore
senza poter far qualcosa per evitarlo. La gente che dice “Mi dispiace” ma poi
torna a casa tranquilla, come Ciampi. Quelli che urlano e puntano il dito… “Si
poteva evitare!!”. Sento rabbia, non dispiacere. Rabbia per tutto quello che
vedo intorno a me. Rabbia perché ora
nemmeno le persone per bene possono avere la certezza di poter vivere felici..
Una persona rispetta la legge, paga le tasse, si fa un mazzo così per avere una vita dignitosa. E poi muore
sotto le macerie della propria casa perché non costruita con i giusti
parametri. Perché della gente ci ha guadagnato sopra. Perché indubbiamente
hanno risparmiato dei soldi, evitando le giuste sicurezze. Non è stato il
destino, ma la cattiveria. Così tanta gente è morta. E’ morta per niente. E ora
tutti fingono di piangere per persone che nemmeno conoscono. Io non piango,
provo indignazione. Cosa che l’elenco di morti, le immagini che la cronaca ci
propina non ha. La cronaca ha solo tanta
ipocrisia. I morti non vogliono ipocrisia, vogliono solo verità. MI piacerebbe
vedere i colpevoli di questa tragedia in galera. Ma credo che non accadrà.
Alice
Sono sdraiata sul letto, con
il computer tra le gambe e diverse idee che mi frullano in testa. Ascolto
Guccini e cerco emozioni dentro di me, cerco la mia vita, cerco di viverla al
meglio. Il mio nome è Alice. Questo giornale mi aiuta a guardami dentro, a
eliminare in me quella ipocrisia nata soprattutto dalla disinformazione, che è
tanta e aumenta ogni giorno. Cerco di essere me stessa, di non limitare a
sopravvivere. Ho qui di fianco a me un articolo di giornale. Due lunghe pagine.
Se ne parla da giorni, ma mi sembra ovvio che oggi (che è un lunedì, per la
precisione lunedì 8 novembre 1999), dopo le serate in discoteca, i consueti
incidenti e rastrellamenti di turno, se ne calchi la mano. Ovviamente sto
parlando delle discoteche, dell’uso sfrenato di Ecstasy e del popolo della notte.
Quel popolo che ogni sabato sera si fa chilometri e chilometri per entrare in
un posto del cazzo con musica del cazzo
(d’accordo, questo è un mio giudizio, ma non riuscivo a farne a meno) per
calarsi, strafarsi e chi più ne ha ne metta. C’è stata così una vittima di
questo grande gioco scemo. Era un ragazzo che si chiamava Jannick. Non ho
sentito la sua storia, non so cosa sia accaduto. So solo che è morto per delle
pasticche. Una o cento non ha importanza. Non ne ho idea. Ma è morto. Per che
cosa? Per niente. Non mi dite che morire per essere fighi e per riuscire a
ballare per 18 ore di seguito è un motivo significativo, non ditemelo!! Sento
una grande rabbia dentro. Stiamo sprecando tutto, ne sono più che certa. Morire
così stupidamente. E non avere nemmeno rispetto per la vittima, visto che il
minuto di silenzio in discoteca non è nemmeno stato rispettato. Poi ci
lamentiamo se dicono che noi giovani non abbiamo la testa sulle spalle, che non
abbiamo valori. Come giudicare altrimenti milioni di ragazzi che cercano la
felicità in semplici e diaboliche pasticche?! Ragazzi intelligenti, che hanno i
valori della vita ben in mente.. Ma fatemi il piacere!!! Ragazzini di
diciassette anni con le Nike e il piercing, ci sono le ragazzine che erano
bambine fino a ieri e adesso con il top fluo e il tanga che spunta dai
pantaloni militari, ballano per tre ore senza fermarsi, sempre su quella
mattonella venti centimetri per venti… E sostanza che vengono prese per avere
sicurezza per non capire più niente… Una volta drogarsi era quasi una forma
culturale, Jim Morrison, per dirne uno famoso, si faceva per aprire le porte
della sua mente, quella della percezione. Erano stupidi anche allora,
d’accordo, ma lo facevano per migliorare un mondo che a loro non piaceva. Oggi
farsi è solo una grande moda. Un modo per essere fuori dal gruppo, per sentirsi
in. Credo che si sia più fuori dal gruppo non facendosi. Personalmente non ho
mai nemmeno fumato una sigaretta, non prendo pasticche. Mi diverto a modo mio,
senza dovermi per forza calare. Vado ai concerti, conosco tante persone e non
mi sento inferiore a nessuno, anche se non mi calo. E penso che ci sia tanta
gente così. Ma rimango veramente delusa quando leggo di ragazzi intervistati
che rispondono in questo modo: “Io
mi calo bene: solo pasticche,
niente coca… Fino a quattro pasticche in una notte non ti fanno niente. Basta
non esagerare, basta non berci sopra, basta non metterci la coca e i farmaci,
come fanno i tanti che poi vanno fuori di testa… Meglio calarsi e basta. Senti la
musica, senti il ritmo e il giorno dopo sei come prima…Io non credo che quello
lì sia morto per una pasticca sola. Ne avrà prese chissà quante, fino a farsi scoppiare il
cuore e poi il cervello… Le prendi perché ti tengono su, perché ti senti bene,
perché con le tipe sei a posto e non ci sono problemi…”. Come se per scaricare
le tensioni e le preoccupazioni ci vogliano per forza delle sostanza nocive.
Quando mi sento un po’ giù accendo il computer, scrivo qualche cazzata, leggo
un libro o ascolto Guccini. Divertimenti contestabili, d’accordo, ma almeno non
faccio male a nessuno. Soprattutto a me stessa.
Non riesco a pensare alla morte come una punizione. Credo sia ignobile e atroce eliminare qualcuno che ha commesso un errore, anche se si tratta di un errore gravissimo. LA PENA DI MORTE E’ SBAGLIATA, questo è ciò che penso. Uccidere qualcuno perché ha ucciso equivale diventare assassini a propria volta e quindi dover essere uccisi, a rigor di logica. E’ un giro vizioso, senza fine. Io capisco la sete di vendetta di una persona che ha perso qualcuno di caro, certo che lo capisco. Anch’io, se mi togliessero la persona più cara che ho al mondo vorrei vendicarmi. Ma queste sono reazioni umane, dettate dalla passione. Un’altra cosa è parlare di Stato che compie un “omicidio legalizzato” (parafrasando i Nomadi). Mi rendo conto che è difficile perdonare, a volte sembra quasi impossibile. Ma la strada per la pace e l’amore è solo fatta di perdono e pietà. Parlo come il Papa? Forse. Ma sono convinta che nessuno ha il diritto di privare a un altro della vita nel nome della legge. Tanto più che la pena di morte non aiuta ad eliminare la criminalità. In America ci sono stati molto piccoli che hanno però il tasso di criminalità più alto di tanti altri più grandi. Non è una garanzia. E non è neanche detto che vengano uccisi i colpevoli. Ricordate Caryl Chessman o O’Dell (quest’ultimo è del 1996). Ma certo non sono stati gli unici episodi di morti gratuite, di uccisioni di innocenti. Gli Stati Uniti soprattutto non tornano mai indietro alle loro sentenze perché questo farebbe intendere che non sono infallibili. Uccidono anche per puntiglio. Ultimamente Rocco Derek Baranabei, un detenuto nel braccio della morte da molti anni, ha richiesto un esame del DNA, esame che gli Stati Uniti continuano a negargli. E’ stato accusato di aver ucciso, nel 1993, la fidanzata Sarah. Sotto le unghie della ragazza sono state però trovate dei pezzetti di pelle dell’assassino. Lui, che si proclama innocente, vuole l’esame del DNA, e mi sembra anche giusto. Se lo giustizieranno sarà perché non ha avuto i soldi per un avvocato decente (lo sapete anche voi che i ricchi non muoiono sulla sedia elettrica)… E poi, fatto non trascurabile, la pena di morte è anche un fatto politico (molti innocenti uccisi per questioni più grosse di loro..).
E’ stato appurato che dal ’76 a oggi sono stati giustiziati ben 80 innocenti. In Cina nel ’96 sono state uccise ben 4637 persone. Nelle Filippine e' stata da poco reintrodotta la pena di morte, ovviamente destinata principalmente a essere usata verso la povera gente che non e' in grado di pagarsi un avvocato. Il presidente filippino e' un convinto sostenitore della pena capitale, ma in più di un caso ha concesso la grazia ai condannati. Bene: in un caso la condanna e' stata comunque eseguita perchè le linee telefoniche del carcere erano bloccate e l'ordine di sospensione e' arrivato troppo tardi. Uccidere… Non è necessario per portare la giustizia. Assolutamente. Ci sono pene peggiori. L’uccisione può essere anche una liberazione per il condannato, un togliergli un peso. Quello che bisogna fare è cercare di umiliarlo, di portarlo a farsi schifo da solo. A perdere la dignità. Credo sia molto peggio di una “semplice” pistolettata alla tempia (Guatemala) o alla sedia elettrica. E ricordate che in America si uccide anche quando non c’è bisogno. Il nostro Jack diceva “Venite in America, fate qualche cazzata o una signora vi ha scambiato per qualcun altro e vi trovate nella cella accanto alla mia”. E’ la triste realtà. Tutti possono morire per nulla. Tutti possono dire di avere ucciso in America, anche un bambino. E’ triste pensare che la morte sia la soluzione di un’umanità che tra poco solcherà il duemila. E’ triste pensare che un uomo domani non esisterà più perché lo stato così ha deciso. Uccidere è sempre male, di chiunque sia la mano. Ma la pena di morte è ancora lontana dall’essere abolita, troppa gente, anche qui in Italia è favorevole. E pensare che potrebbe essere cancellata, se solo ci fosse tanta gente d’accordo. Chi volesse firmare contro la pena di morte può andare al sito di Santo Egidio e firmare. Purtroppo non ne conosco l’indirizzo, ma basta andare su ricerca e lo si trova. Mi piacerebbe che almeno voi faceste qualcosa contro questa grande, ennesima, piaga. Altrimenti spedire il consenso ad Alice, lei si occuperà di fare arrivare il vostro contributo alla comunità. Rendetevi conto quanti paesi hanno la pena di morte: Afghanistan, Albania, Algeria, Antigua e Barbuda, Arabia Saudita, Armenia, Alerba, Jan, Bahamas, Bahrein, Bangladesh, Barbados, Belize, Benin, Bermuda, Bielorussia, Bhutan, Bolivia, Bosnia, Botswava, Brunei Darussalam, Bulgaria, Burkina Faso, Burundi, Camerun, Ciad, Cile, Cina, Comore, Congo, Corea del Sud, Costa d’Avorio, Cuba, Dominica, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Eritrea, Estonia, Etiopia, Filippine, Gabon, Gambia, Georgia, Ghana, Giamaica, Giappone, Gibuti, Giordania, Grenada, Guatemala, Guinea equatoriale, Guyana, India, Indonesia, Iran, Iraq, Kazakhistan, Kenya, Kuwait, Kyrgyzstan, Laos, Lesotho, Lettonia, Libano, Liberia, Libia, Lituania, Madagascar, Malawi, Malaysia, Maldive, Mali, Marocco, Mauritania, Mongolia, Myanmar, Nauru, Niger, Nigeria, Oman, Pakistan, Papua Nuova Guinea, Quatar, Repubblica centro Africana, Ruanda, Russia, Saint Christoper and Nevis, sain Lucia, Saint Vicente e le Granadine, Samoa occidentale, Senegal, Sierra Leone, Singapore, Siria, Somalia, Sri Lanka, Stati Uniti, Sudan, Suriname, Swaziland, Tadhikistan, Tailandia, Taiwan, Tanzania, Territori dell’autorità Palestinese, Tonga, Trinidad e Tobago, Tunisia, Turchia, Turkmenistan, Ucraina, Uganda, Uzbekistan, Vietnam, Yemen, Zaire, Zambia, Zimbabwe. In questi quindici è prevista l’applicazione della pena di morte per reati eccezionali commessi in tempo di guerra: Argentina, Brasile, Canada, Cipro, El Salvador, Fiji, Israele, Malta, Messico, Nepal, Paraguay, Perù, Regno Unito, Seychelles, Sud Africa.
Non so nemmeno se la lista è aggiornata, sicuramente
ci sarà ancora qualche altro paese… Sono troppi. Troppi uomini strappati dalla
vita per degli sbagli che hanno commesso. Un’ultima novità che proviene dalla
Spagna. Una prova che gli uomini sono sempre più cretini. Gli spagnoli hanno
inventato una nuova attrazione per bambini: una sedia elettrica. Sì, una sedia
elettrica uguale in tutto e per tutto a quelle utilizzate nei paesi sopra
elencati. I bambini aspiranti morti che camminano si siedono alla sedia dove
vengono legati. Qui vengono sottoposti a scosse via via più forti, fino a
quando il bambino si arrende. Vince chi riesce ad andare più vicino alla morte
possibile. E così i bambini cresceranno con l’idea della sedia elettrica ben
stampata in testa, e non daranno più peso che tanti uomini perdono ogni giorno
la vita per colpa di quell’aggeggio. Credo non ci sia bisogno di commenti.
Vorrei sapere che cosa ne pensate. Vorreste la pena di morte in Italia? Perché?
E’ giusto parlarne. Tanti Jack sono morti e moriranno. Pensate già solo a
questo.
Nongio & Alice
Recensioni su libri, dischi,
film che ci sono piaciuti. Perché ciò che adoriamo non sempre è in classifica.
Il
primo libro è “American Psycho” scritto da Bret Easton Ellis, 439 pagine, edito
da Bompiani. Questo libro narra la storia di Patrick Bateman, di giorno
finanziere a Wall Street, di notte psicopatico che si diverte a torturare e
uccidere passanti, prostitute e addirittura bambini. E’ impressionante vedere
la maniacale precisione con la quale l’autore descrive i delitti di Patrick, la
stessa precisione che usa nel descrivere il suo abbigliamento e quello degli
altri personaggi della storia, come a ricordarci che sotto le apparenze più
borghesi può nascondersi il più inafferrabile dei Killer.
Passiamo ad un libro completamente diverso dal
precedente, si tratta di “Alcatraz- Un DJ nel braccio della Morte” un libro
indispensabile per sapere come e perché è nata questa Fanzine (sempre che non
abbiate seguito l’omonima trasmissione radiofonica).Narra la storia di Jack
Folla, detenuto N° 3957, condannato a morte rinchiuso nel carcere di Alcatraz,
che senza peli sulla lingua, né pregiudizi e preconcetti, spara a zero sulla
società e sul nostro modo di vivere.
“Destroy” di Isabella Santacroce, è un romanzo
nichilista, di fantasia iperconsumistica, e una lingua allucinata in cui riecheggia
di continuo la musica. La protagonista, Misty, venticinque anni, lascia
l’Adriatico per Londra, dove si guadagna da vivere con servizi a domicilio
quali voyeurismo per signore esibizioniste, assistenza a masochisti solitari.
“Nevermind”
dei Nirvana, ottimo disco dell’unica band capace di portare qualche novità nel
corso degli anni ’90, la carica adrenalinica di “Smells Like Teen Spirit”, la
desolante lentezza di “Something In The Way”, senza citare altre bellissime
canzoni: “Polly”, “Stay Away”, “In Bloom”. Un consiglio, se quest’album vi
piace compratevi anche tutti gli altri, ne vale la pena.
Questo
è un piccolo omaggio ad Alice, infatti sto per parlare di un grande cantautore
italiano scomparso recentemente, sì proprio lui, Fabrizio De Andrè. Sarebbe
perlomeno riduttivo fare la recensione di un solo disco di questo artista,
infatti sono tutti magnifici, canzoni come “La guerra di Piero”, “Via del
Campo”, “Bocca di Rosa”, “Crueza de Ma”, fino alle più recenti “Geordie”, “Via
della Povertà” (una cover di “Desolation Road” di Bob Dylan) solo per citarne
alcune, sono tutte splendide perle poetiche. Sì perle, come diceva Alice nella
sua lettera, perle buttate ai porci.
Il primo film preso in considerazione è “Eyes Wide Shut” l’ennesimo e (purtroppo) ultimo capolavoro di Stanley Kubrick (grandissimo regista recentemente scomparso). E’ n film molto difficile da interpretare e comprendere, narra la vita di due coniugi, perfettamente interpretati da Nicole Kindman e Tom Cruise, che a un certo punto perdono la fiducia l’un l’altro, con tutto quello che ne consegue.E’ girato in modo misterioso, molto psicologico e in bilico tra sogno e realtà.
Passiamo al secondo film, si tratta di “Natural Born
Killer” un film iperviolento, per stomaci forti, i due protagonisti
interpretati da Juliette Lewis e Woody Harrelson, sono due detenuti (con alle
spalle decine di delitti) che usano la loro intervista da parte di un cinico
giornalista, come trampolino di lancio per l’evasione, e quindi continuare la
loro carneficina.
Terzo e ultimo film recensito (per questo numero), è
“Cruel Intentions – Prima Regola Non Innamorarsi” a prima vista sembrerebbe
l’ennesima trasposizione cinematografica tratta dal romanzo “Relazioni
Pericolose”, ma vi assicuro che non è così. Interpretato da attori pressoché
sconosciuti, “Sebastian” lo rivedrete ancora, è un film molto gradevole, a
tratti perfino commovente, senza scene eccessive né cadute di gusto; finale a
sorpresa.
Qui dovremmo parlare di
tutti quelli che hanno fatto grande la nostra musica. E quelli che ci
piacciono. Essendo che quelli che scrivono in questo numero sono sempre gli
stessi, non dovreste stupirvi se parlo di AUGUSTO. Chi mi conosce sa che sono
praticamente fissata con i Nomadi… Nel prossimo numero mi hanno chiesto di
parlare di Battisti ma se qualcuno vuole scrivere qualcosa lui, ben venga
(anche non di Battisti, quella era solo una proposta)… CIAO e ALLA PROSSIMA
Grazie Augusto
perché con le tue canzoni mi hai fatto capire quanto è bello vivere e amare
le piccole cose della vita, stringere la mano ad un amico o più semplicemente
odorare il profumo di un fiore. La tua immagine è nella mia testa, la tua
musica nel mio cuore. E così, in ogni angolo del mondo, saremo ancora
insieme...(Fofo) |
Non è
necessario stringere la mano ad una persona per sentirla vicina. Ci sono
mille modi per farlo. Tu sei ancora con noi, nelle tue canzoni, nelle nostre
speranze e nei nostri ricordi. Io non sono qui per dirti addio ma per
sorriderti...(Valeria) |
Ti ho
ascoltato, ti ho capito, ti ho amato e non ti ho mai dimenticato. L'unico mio
rimpianto è di non averti mai conosciuto. Rimarrai comunque per sempre nel
mio cuore...(Mary) |
Come un airone
nero hai attraversato il cielo una fredda e piovosa mattina d'autunno. Quel
maledettissimo giorno c'eravamo proprio tutti a salutarti. Nei nostri volti
c'erano lacrime amare, lacrime di tristezza. Tu eri là, sembravi felice, eri
sereno, tranquillo e sulle tue labbra veleggiava un dolce sorriso. Eri
veramente bello, quel giorno nel cielo splendeva il sole ed era una giornata
calda. Quel sole che brillava forse di luce non vera sembrava la tua voce, ci
stavi dicendo "Sono arrivato qui...si sta bene, abbiate fiducia".
Augusto, ricordati che rimarrai sempre nei nostri cuori, nelle nostre menti,
ma soprattutto nelle nostre voci. Quel saluto non era l'ultimo: ci rivedremo!
A presto... (Stè) |
Ciao Augusto,
vorremmo ricordarti con il sorriso ma qualche lacrima scende... è la vita...
è proprio un film... (Carmen e Norberto solo e sempre Nomadi) |
Noi
domani non saremo certo più quelli. Ci stringeremo in qualche modo vicini.
Mentre ti penso mi brilla in mente
un'emozione come una stella che cade giù all'improvviso. Sei sceso dentro una
canzone, uno spot violento, forte,
deciso. Un sorriso come un diretto, hai bucato la televisione, ti sei staccato
dal cuore di noi che siamo in tanti. Se stringi gli occhi ci vedi da quella
stella cometa come i concerti allo stadio e le canzoni alla radio restiamo
uniti sotto il cielo blu proprio come quando c'eri tu...Non c'è più tempo, è
già passato veloce. Domandavi se per magia potesse continuare all'infinito.
Forse no, se finisce un amore può finire anche una canzone... ma tocca adesso i
miei occhi, stanno bagnando il mio viso... se tocchi adesso il mio cuore posso
sentirmi un poeta, possiamo amarti per sempre. Sembrava un gioco d'estate
cantare insieme, non fermarci più ancora insieme in questo cielo blu è come un
tuffo nel mare... certo non cambierà niente, però può cambiare tutto se la
pianta della vita ha gettato un altro frutto... (G.P.)
E'
difficile sai, pensarti così lontano da quella volontà solo terrena di credere
che il tutto sia spazio, tempo, materia. Sono queste le cose che fanno della
vita un gran carcere e l'evasione più dolce rimarrà sempre la tua... Ciao
grande Augusto, Maestro di vita, compagno di mille viaggi.
L'averti saputo amico ci farà scontare
pene meno amare...
Beppe, Cico, Daniele, Elisa
7 ottobre 1992
Quella mattina
alle 5.30, ero montato in servizio sull'autobus della linea 29, e mentre avevo
la radio accesa, come faccio tuttora, questa aveva dato la notizia che il
cantante dei Nomadi e leader del gruppo, Augusto Daolio, era deceduto. Ben tre
tumori, così riportò la notizia la Rai, lo avevano da qualche tempo aggredito e
se ne era andato. Due interviste, una a Guccini, l'altra a Red Ronnie,
liquidarono in poco tempo la frettolosa notizia. Ancora oggi ho la sensazione
di quella strana mattinata, passata al lavoro ma con la mente ricordando gli
oltre 250 concerti ascoltati dei Nomadi, e della mia gioventù passata in giro
per l'Italia, sfruttando ogni minuto di tempo libero per ascoltare le loro
canzoni. Spesso ritorni che si consumavano alle 5.00 o alle 6.00 del lunedì
mattina, soltanto un'ora prima che sanciva il nostro ritorno al lavoro. Andrea
e Daniele, due miei amici carissimi d'infanzia che hanno condiviso con me km e
km per ascoltare le loro canzoni, mi vennero a trovare in servizio; avevano
anche loro ascoltato la notizia alla radio e Daniele si era anche messo a
piangere. Che buffo per un uomo di 45 anni vero? Quanti ricordi in quella
strana mattinata, la gente saliva e scendeva dal bus che stavo guidando, ma io
ero lontano, assente, se ne era andato un amico, un fratello, un compagno di
viaggio, come piaceva ricordare anche Augusto nel definirsi. Noi eravamo stati
tre ragazzi che non hanno mai conosciuto personalmente i Nomadi, forse per una
forma di rispetto e di stima che non si sfogava clamorosamente nemmeno ai
concerti, ma che li ammiravano durante quelle occasioni, che li seguivano
silenziosamente nascosti nella folla dei concerti. Il pomeriggio di quel
giorno, tantissime le telefonate degli amici, e di mia madre che sapendo della
mia passione per il complesso, mi telefonò ed ebbe delle belle parole per quel
"barbone" che aveva avuto modo di apprezzare, ascoltando le sue
canzoni. La decisione poi presa all'improvviso di partire per essere presenti
al funerale chiamando il fans club di Novellara, (due ore al telefono, prima di
prendere la linea) per avere informazioni sul funerale, sull'orario, e sulla
strada per arrivare al paese. Dopo cinque anni, ad Ottobre 97, sono ritornato
al cimitero di Novellara, mi sembrava doveroso, tornare a salutare un amico, e
sono rimasto meravigliosamente sorpreso nel vedere cosa è la tomba di Augusto e
quanto affetto avevano ed hanno ancora oggi i fans dei Nomadi per Augusto. Per
finire la descrizione di quel giorno decidemmo di partire e lo facemmo la notte
seguente, alle 5 del mattino del giorno successivo, 8 Ottobre 1992.
(Renzo Sartini)
8 ottobre 1992
Nella notte, non
eravamo riusciti a dormire, tanto ci pareva impossibile pensare che Augusto era
morto; ci eravamo ripromessi di andare a dormire presto ma non ci eravamo
riusciti, alle una siamo andati alla stazione, dove sapevamo che arrivavano le
prime copie dei giornali, per avere notizie, ed infatti c'erano: mi ricordo che
comprammo l'Unità, la Nazione, Il Resto del Carlino. Parlando parlando
arrivammo a fare le 4 e trenta del mattino, a quel punto decidemmo di partire
per Novellara. Nel viaggio non fummo soli, alle sette circa passata Bologna,
cominciammo ad incontrare auto di svariate targhe di città, tutte con adesivi
che ricordavano i Nomadi ai parabrezza. Bellissimo ed intenso l'incontro con
amici all'autogrill (non ricordo quale) che venivano da Roma e con cui facemmo
colazione e viaggio insieme. Le auto che ci sorpassavano, alla vista degli
adesivi ci suonavano per salutarci, meta comune per tutti: Novellara. Tutti
uniti per portare l'ultimo saluto ad un grande della musica italiana. A
Novellara, scambiammo poche parole, e non ci fu bisogno di chiedere: alle nove
del mattino c'erano già delle code che ci portarono al Teatro dove era esposto
Augusto. Facemmo omaggio alla salma e mi fece uno strano effetto. Non so
spiegare. Ma soprattutto quante persone anonime e no, di ogni età, che venivano
a rendergli omaggio. C'era Imbeni sindaco di Bologna, riconobbi Guccini,
Umberto Maggi ex Nomade, Ligabue, e i nuovi Nomadi tra cui Daniele Campani, che
piangeva ininterrottamente, e Rosanna la compagna di Augusto. Scambiammo brevi
parole con Paolo Belli, e verso le tre e mezzo del pomeriggio andammo alla
chiesa. La bara su cui era stata stesa una bandiera, al passaggio veniva
salutata con applausi, la gente si teneva per mano, uomini donne bambini,
incredibile ed intensa la commozione. Anche Novellara si era fermata,
proclamato il lutto cittadino anche i negozianti chiusero in segno di lutto e
rendevano omaggio al loro amico di sempre. Parlò il parroco accostando le frasi
della canzone Dio è morto, ma poi è risorto, alla vita semplice di Augusto, poi
mi dissero che avrebbe parlato Beppe, ma non ce la fece, al suo posto, Cico,
che emozionantissimo ricordò tutti i Nomadi che erano stati nel complesso
chiamandoli per nome. Assenti, stranamente, i due Nomadi che qualche anno prima
tradirono lo spirito Nomadi, dando inizio a quella diatriba che per poco non bloccava
l'attività del complesso: Giampaolo Lancellotti e Patrick Dennis l'irlandese.
Comunque una grossa emozione alle parole di Cico, e dopo della sorella di
Augusto. La cerimonia funebre terminò poco dopo e la salma finì al cimitero
scortata penso da 5.000-6.000 persone che non raccolsero l'invito di non andare
tutti al cimitero: il popolo Nomade non lasciò solo Augusto nell'ultimo
viaggio. Molti si sono posti, e mi hanno posto la domanda se Augusto sapeva o
immaginava di dover morire, e come aveva affrontato la dura realtà: per finire
questi miei brevi interventi sul forum che penso abbiano fatto piacere a tutti
i fans Nomadi, passati, presenti e futuri, voglio riportare il pensiero
manoscritto di Augusto, ritrovato da Beppe Carletti dopo la sua morte, e che
Red Ronnie pubblicò sulla sua rivista BE BOP A LULA, uscita nell'Ottobre 92.
" A ME LA MORTE FA UNA GRAN PAURA. SI LASCIANO TROPPE COSE CHE NON SI
VEDRANNO PIU', GLI AMICI, LA FAMIGLIA, LE PIANTE DEL PARCO CHE HANNO
QUELL'ODORE BUONO DI RESINA, LA GENTE CHE HO VISTO ANCHE UNA SOLA VOLTA. A ME
LA MORTE FA UNA GRAN PAURA. SI LASCIANO TROPPI SORRISI, TROPPE MANI, TROPPI
OCCHI, I TRENI, LE MONTAGNE LE STRADE, QUEI SENTIERI DI MONTAGNA CHE PORTANO AI
RIFUGI, I MARI CHE HO VISTO E CHE NON HO MAI ATTRAVERSATO ". Il secondo
testo, ritrovato da Rosanna dopo la morte di Augusto diceva: " QUANDO UN
MALE SENZA SCAMPO COLPISCE IL PRINCIPE REGNANTE, NON VOGLIO SI DICA CHE IL
PRINCIPE LANGUE, CHE IL PRINCIPE E' MORTO... SOLO LA MORTE CI FA AUMENTARE DI
STATURA ". Finisco questo intervento con la frase di una canzone dei
Nomadi, bellissima, che vuole salutare tutti quelli che hanno avuto la pazienza
di leggere questi miei interventi, e che calza a pennello, secondo me, con gli
articoli che avete bontà vostra letto: (da Tutto a Posto ) LE MIE GAMBE ORAMAI,
SONO STANCHE E VORREI DARE UN PO' DI SONNO AGLI OCCHI MIEI. SCENDE L'OSCURITA',
C'E' UNA CASA PIU' IN LA', IL MIO VIAGGIO ADESSO FINIRA'...
(Renzo Sartini)
Oggi e' il 7
Ottobre... un caro ricordo di Augusto (1998)
Sei anni fa',
moriva un grande della musica italiana, ma anche un amico, un compagno di
viaggio. Il ricordo di Augusto, di cui vi voglio fare partecipe, si riferisce
ad un incontro, che io, con due amici Andrea e Daniele, avemmo con lui a
Novellara nell'autunno dell’84. Eravamo partiti da Firenze per andare
espressamente a trovarlo nella sua casa. Con molta emozione, arrivammo nel suo
paese e chiedemmo a diverse persone dove abitava ma ci dissero che molto
probabilmente era nelle sue stanze, dove privatamente, dipingeva. Ci recammo
subito lì, e avemmo fortuna e lo trovammo; ma prima di suonare il campanello
con molta emozione, ci chiedevamo, come ci eravamo chiesti durante il viaggio,
se lui, proprio lui, Augusto, ci avrebbe ricevuto, così, proprio noi, che
eravamo li senza farci annunciare. Sapevamo che il Tour Estivo 94, era finito,
e quindi doveva essere a Novellara, a ritemprarsi delle solite fatiche estive.
Due date importanti, l'anno prima a Reggio Emilia, grandissimo concerto a cui
eravamo presenti con tantissimi amici per festeggiare i 20 anni Nomadi, e a
Giugno altro importante concerto con Guccini a Bologna, dove c'erano anche
tantissimi musicisti importanti. Andrea, mio amico d'infanzia era il più
emozionato di tutti, durante il viaggio, man mano che ci avvicinavamo a
Novellara, continuava a dirci di tornare indietro che tanto era impossibile
avere la fortuna di trovarlo, che tanto non c'era, che eravamo partiti a
casaccio, che forse era meglio tornare indietro: in cuor suo come nel nostro
sperava naturalmente di sbagliarsi e di incontrarlo. Non voglio spiegare
l'emozione del grande personaggio che era davanti a noi, non voglio dirvi la
semplicità del suo stile di vita, nello studiolo tutto era in disordine, ma un
disordine molto ordinato, e poi ci propose di mangiare un boccone con lui
offrendoci e lo ricordo ancora oggi, pane, salame, formaggio, e bicchiere di
vino (io che lo bevvi non avendo il coraggio di dirgli di no, anche se ero, e
sono ancora oggi completamente astemio). Ricordo che ci fece vedere alcuni
acquerelli, e ci disse che molto probabilmente, presto sarebbe stato
impegnatissimo in nuove prove con i Nomadi, perché' c'era da sostituire il
bassista Umberto Maggi con un nuovo ragazzo che conosceva Beppe e di cui si
diceva un gran bene (sapemmo poi che questo era Dante Pergreffi). Ci racconto'
della sua tristezza relativa alla sua forte miopia che si portava dietro fin
dalla nascita, e prese a raccontarci dell'ammirazione ed emozioni che provava
di un suo ricordo del mare, dei paesaggi sconfinati. Parlammo del vino Chianti
e delle nostre famose bistecche alla fiorentina, ed inoltre ricordava di una
sua amica di Vicchio, che aveva invitato i Nomadi a mangiare la sera di un
concerto, facendogli trovare i famosi tortelli fatti in casa, di cui portava un
grande ricordo. Parlammo di musica ma anche dei molti falsi amici che
incontravano durante i loro concerti, e da cui secondo Augusto, bisognava
difendersi. Alle 17.30 della sera lo salutammo, con molto rammarico per tornare
sulla strada di casa. L'unico ricordo che ebbi il coraggio di chiedergli, fu un
autografo, fatto a disegno che negli anni successivi, ho con molto rammarico
perso. Non voglio dilungarmi molto, se non per ricordare Augusto, per le forti
emozioni che mi ha regalato e che ancora regalano le sue canzoni di tutto
questo solo un saluto ed un ricordo...
grazie Augusto...
(Renzo Sartini
E ora i miei pensieri, sperando di non
annoiarvi più del dovuto.
14 dicembre, ore 01:10
Dovrei dormire, lo so, ma non ce la
faccio. Ho troppe emozioni dentro, ho un gran bisogno di piangere… Era una
persona meravigliosa, con un’anima così bella che ancora oggi, dopo 8 anni
dalla sua morte, entra nel cuore di chi non l’ha conosciuto. Non riesco a
pensare che non lo incontrerò mai, che non lo sentirò parlare perché sono
arrivata troppo tardi. Mi manca tantissimo. Leggo i pensieri di chi c’era… E ho
i brividi, percepisco la sua arte, la sua voglia di essere uomo. Augusto. Lo
sento dentro, gli voglio un bene innato, non so da dove nasca e perché. So che
mi sarebbe piaciuto parlargli, stringergli la mano, sentire il suo odore e
commuovermi con le sue parole. Non mi basta ascoltare un nastro. Come può
bastarmi? Leggo del funerale… Migliaia e migliaia di macchine con adesivi dei
Nomadi per le strade, a salutarsi l’un l’altro, con la nebbia nel cuore. Mi
sento come se fosse morto oggi. Ogni volta che penso a lui è come se lo
scoprissi per la prima volta. Mi viene da urlare a tutti chi era, mettendo a
nudo la sua anima e la sua arte… Non so perché sto scrivendo… Vorrei averlo qui
ora, poterlo abbracciare una volta sola. Mi dispiace di essere arrivata in
ritardo… mio figlio, se mai ne avrò uno, si chiamerà Augusto… Certo, conosco
Beppe, è già una fortuna pazzesca. E sento di stare perdendo momenti. Perché
quando lo vedo e mi chiede come sto, io so solo rispondere con un “bene e tu” e
non parlo perché non so da dove cominciare. Ci sarebbero centinaia di cose che
vorrei riversargli, vorrei abbracciarlo, sentirlo vicino… E invece niente. Sono
incapace di trasmettergli ciò che sento. Non voglio perdere Beppe come ho perso
Augusto…. Cerco di dormire. Ma non ci riuscirò. Ho troppe voci nella mia testa.
Ciao, Augusto
Alice