NUMERO UNO- 19 MARZO 2000
ALBATROS
PAGINA 2- INTRODUZIONE
PAGINA 3-
FUGA DA ALCATRAZ
PAGINA 4-
PROTESTE, CONSIGLI, NOTIZIE
PAGINA 8- POESIE
PAGINA 12- NONGIO
PAGINA 13- CANCELLA IL
DEBITO
PAGINA 14–IL CASO MORO
PAGINA 15- ERNESTO CHE GUEVARA
PAGINA 24- PAPPAGALLI VERDI
PAGINA 28 – FAVOLA DEL TERZO
MILLENNIO
PAGINA 29– AUSCHWITZ
PAGINA 34 – RECENSIONI
PAGINA 39 – I NOMADI
Ed ecco la nostra seconda fatica, il numero 1 di Albatros. Non ci sembra nemmeno vero che questo nostro progetto sia andato così avanti, sia stato accettato così bene da così tante persone. E’ fantastico. Abbiamo ricevuto tanti complimenti, qualche critica, molti consigli e anche tanto materiale. Ogni volta che io e Claudio ci sentiamo per telefono parliamo principalmente di questo e ci esaltiamo. Ieri ci siamo sentiti e Claudio ha detto una bella cosa “prima avevamo bisogno di Jack per sentirci dire certe cose… oggi siamo noi a dirle”. Questo progetto è diventato talmente grande da averci portato a pensare a un raduno. Non ora, troppo avventata la cosa. Ma nel 2001, verso maggio o giù di lì vorremmo riunire tutti quelli che HANNO SCRITTO e passare una giornata insieme, a mangiare, ascoltare musica, PARLARE. Sarebbe davvero bello se tutto questo potesse avverarsi. Oramai chi legge il giornale saranno un 200 persone e non sono affatto poche, per un progettino come questo. Un raduno all’anno, un anno in Piemonte e l’altro in Emilia, nelle due sedi di noi due “ideatori”. Il primo sarà in Piemonte. Spero che riescano a venire tutti, ma c’è molto tempo per organizzarsi e per chi non può permettersi un albergo la mia casa è aperta. Il raduno sarà, ripeto, SOLO PER QUELLI CHE HANNO COLLABORATO ALMENO AD UNO DEI NUMERI DI ALBATROS. Perché altrimenti tutti quanti sarebbe una cosa troppo grande e Ingestibile.
Il giornalino, come sapete, è gratis (e non che valga la
pena pagarlo, chiaro). Però qualcuno di voi ci ha fatto delle offerte in
denaro. Qui di seguito ecco i nomi degli Angeli in questione. Noi non
obblighiamo nessuno a fare un versamento, ma quando questi arrivano in modo
spontaneo… Siamo ben lieti di accettare!!
MARIACHIARA
LAFINADRA: LIRE 10000
CRISTINA E GIULIANA
FENOGLIO: LIRE 10000
Poi, vorremmo fare una pagina dedicata agli annunci, di modo che le persone si conoscano tra di loro. Visto che abbiamo tutti un’idea comune, sarebbe bello UNIRLA e non tenerla dentro alla nostra testolina e basta. Unirla per cambiare.
Alcuni articoli sono saltati anche questa volta.
Manca tanto (Pinochet, Craxi… ad esempio) ma solo per motivi di spazio. Più di
40 pagine non facciamo, quindi dobbiamo per forza effettuare dei tagli. E poi
la nostra intenzione è quella di pubblicare tutto quello che VOI mandate,
quindi se alcune cose non ci sono può voler dire che non ha interessato
nessuno… oppure che vi aspettavate che lo facessimo noi. E alcuni pezzi era
nostra intenzione farli, ma lo spazio, come vi ho già detto, no né stato
sufficiente. Mentre scrivo il giornale non è ancora finito del tutto, sono tra
impaginazioni vari e aggiunta di pezzi. Quindi non so se ci sarà quello che ho
in mente, ossia tutta una serie di foto allucinanti sugli orrori del secolo.
Avevo promesso di metterli nel giornale, ma non credo che riuscirò a farlo. Ma
la prossima volta sarà la prima cosa, promesso. Per non dimenticare. Il 2000 è
arrivato ma non bisogna abbandonare la nostra storia. In questo numero
sentirete tanto parlare di CAMPI DI STERMINIO. La stampa e la tv non ci hanno
dato tanto peso. Ma noi ci sentiamo molto vicini a questo pezzo di storia, quindi
ci è sembrato logico dedicare un numero intero. E la cosa non finisce qui
perché per il prossimo numero probabilmente ci sarà un diario di una ragazza
che ha visto da vicino quei posti orrendi..
Ora, come al solito, ecco i nostri indirizzi e dati
vari:
ALICE SUELLA
VIA BOLOGNA 8
TRONZANO VERCELLESE VC 13049
EMAIL: SUELLA@SANTHIA.ALPCOM.IT
TEL: 0161/912324
CLAUDIO TORREGGIANI
VIA FERRI 12/1
42020 VILLA SESSO (RE)
EMAIL: CLAUDIO.TORREGGIANI@LIBERO.IT
TEL: 0522/531458
Anche per questa volta ho
finito. Leggete. E’ molto diverso dal primo numero, spero la cosa non vi
deluda.
Alice&Claudio
FUGA DA ALCATRAZ
Che Alcatraz è stato importante lo abbiamo già ripetuto un sacco di volte.. Ognuno ha una piccola storia legata magari anche a una sola puntata del programma (anche se è molto riduttivo chiamarlo così), a un concetto, una parola, una carezza.. Quindi tutti quanti aspettavamo il suo ritorno, il ritorno del Nostro Jack Folla… Mentre scrivo è stata solo trasmessa la puntata speciale di Natale, ma quando vi arriverà il giornale saranno anche iniziate le nuove puntate giornaliere, quindi probabilmente questo mio scritto sarà “sorpassato”, ma mi sento adesso di scrivere quindi non me ne vogliate. Dopo i miei pensieri c’è un pezzo che Jack ha recitato quella sera, il pezzo che mi è piaciuto di più. L’ultima frase però è “ricostruita” perché la cassetta è finita in quel momento, quindi scusate se non è fedele all’originale.
Dunque,
coma sapete “Albatros” (che qualcuno chiama anche AIRONE, in omaggio alla
canzone dei Nomadi “Aironi Neri”) è nato grazie a Cugia, quindi questa pagina
sarà fissa. Il problema che però voglio rendervi noto è il mio mancato
entusiasmo in riguardo a questa nuova puntata. MI è piaciuta (alla fine ho
anche spedito una e-mail a Cugia per complimentarmi),ma non è più come prima e
non potrà mai esserlo. Nel senso che, quando l’ho scoperto, è stata una
rivelazione, mi ha aperto gli occhi… Ma allora ero molto sola, non avevo un
amico che possa considerarsi tale, mi reputavo un vero fallimento. Logicamente
quando ho trovato qualcuno, anche se un personaggio inventato (anche se io ho
sempre considerato Jack Folla davvero un condannato a morte, davvero un uomo…
Pur sapendo che era tutto un “gioco”… rendeva le cose più belle) che mi stava
dietro, che mi diceva le cose che avrei voluto sentirmi dire… Logicamente
ridevo e piangevo con lui, mi emozionavo tantissimo.. Oggi forse non ho più
bisogno di lui. L’ho ascoltato perché era Jack, il ritorno di un amico, perché
è un programma di Cugia…Ma non ero presa dalla cosa. Cavolo, mi ricordo il 15
maggio dell’anno scorso, quando eravamo alla fiera del Libro. Ricordo quando
Diego ci ha fatto ascoltare quel pezzo di Jack che ci esortava a… a vivere, in
fin dei conti. Ricordo di aver guardato tanta gente negli occhi e di aver visto
in qualcuno le mie stesse lacrime di commozione… Sembra esagerato, pensandoci a
mesi e mesi di distanza. Ascoltando la nuova puntata ho sentito quasi un senso
di noia, quasi un “è già stato detto tutto” “questo l’ho già sentito”… E mi
sono stupita… Non ho trovato questa puntata un capolavoro, e non riesco a
scriverne positivamente. E’ stata diversa dal passato. Ma probabilmente sono io
la diversa, io che ho deciso di reagire. Spero che con le nuove puntate le cose
per me cambieranno, in caso contrario invito qualcuno di voi a prendere il mio
posto per questo spazio, perché non sarei adatta. Sminuirei ciò che invece è
stata una vera genialata e un capolavoro della radio. Qui di sotto ecco il
pezzo che vi dicevo.
“Questa notte ho fatto un sogno. Ho sognato che
camminavo sulla sabbia accompagnato da una persona che doveva essere certamente
il Signore. E sullo schermo della notte erano proiettati tutti i giorni della
mia vita. Ho guardato indietro e ho visto che ad ogni giorno della mia vita
apparivano orme sulla sabbia. Una mia e una del mio accompagnatore. Così sono
andato avanti finché tutti i miei giorni si sono esauriti. Allora mi sono fermato
guardando indietro notando che in certi posti c’era solo un’orma. Questi posti
coincidevano con i giorni più aspri e difficili della mia vita ad Alcatraz. I
giorni di maggiore tristezza e di infinita paura e quelli delle torture fisiche
e psichiche. E’ stato allora che ho cercato di parlargli. “Signore, tu avevi
detto che saresti stato con me in tutti i giorni della mia vita e io ho
accettato di vivere anche con te. Ma perché mi hai lasciato solo proprio nei
momenti peggiori della mia vita?” e lui mi ha risposto: “Caro Jack, io ti amo e
ti dissi che sarei stato con te durante tutta la camminata e che non ti avrei
lasciato solo neppure per un attimo. E
non ti ho lasciato. Quei giorni in cui vedi solo un’orma sul terreno, erano i
giorni in cui ti portavo in braccio”.
ALICE
PROTESTE.
CONSIGLI. NOTIZIE. UN PO’ DI TUTTO.
ALLA DROGA!
La droga: un modo per tirare fino
all’alba in discoteca, per conoscere nuovi mondi fantastici, per provare
emozioni che non si possono provare in nessun altro modo; ma l’inconveniente
della droga è che nuoce gravemente al nostro organismo e a lungo andare ti
porta alla morte, ma alcune droghe sono fatali sin dalla prima assunzione.
Infatti, in questo periodo i mass-media parlano soprattutto di quel giovane ragazzo,
Jannick, morto un sabato notte in discoteca per l’assunzione di UNA SOLA
pasticca di ecstasy.
C’è tanto clamore tra la gente
per il fatto successo, solo perchè i mass-media gli danno molta importanza; non dico che non bisogna
dargliene, ma sicuramente, già da tempo, quasi ogni sabato notte dei ragazzi
muoiono per droga; e come mai i mass-media non ne hanno mai parlato?
L’unica cosa che è cambiata, è
che la gente si preoccupa molto di più di prima. Sì, hanno aumentato la polizia
nelle discoteche ma la droga non è presente solo in quegli ambienti, ma anche
fuori dalle scuole e forse anche dentro. Volendo, le droghe si trovano
dappertutto ed è quasi impossibile per la polizia individuare tutti gli
spacciatori, e anche se i controlli sono aumentati non si riuscirà mai a
fermare il giro della droga.
Secondo me l’unico modo per
dissuadere i ragazzi dall’assunzione di droghe è quello di infondere informazioni
su di esse e insegnare ai ragazzi a dire “NO!” davanti a uno spacciatore o ad
un amico che gliene offre.
Quindi, per me, è molto
importante avere una cultura positiva che induce a valori di una vita di
benessere. Penso che la nostra cultura sia formata soprattutto dalle cose che
ci insegna la vita e anche dalla scuola, dalla famiglia e talvolta dagli idoli.
Parlando della mia esperienza
personale, io sono fermamente contro la droga e questo, penso, perché ho dei
principi morali derivati dai miei idoli, cioè i Nomadi. Sono cresciuta con la
loro musica e di conseguenza anche con i loro principi. Ora che sono più grande
riesco a comprendere pienamente il significato delle loro canzoni, alcune
parlano di droga.
“Santina sguardo in avanti, tanto
per pochi istanti, molti rischi e poco domani, da quelle piccole mani”. Questo
è un verso della loro canzone “Santina” e per me è molto significativo.
Per me, i Nomadi sono l’unico
supporto che ho, perché in famiglia sono molto rari i discorsi in proposito, e
anche a scuola non si danno molte informazioni. Da loro, I Nomadi, ho imparato
soprattutto a non essere indifferente davanti a ragazzi che sono caduti in
trappola. La droga fa male, ma l’indifferenza della gente è peggio.
Paola
BASTA
GOVERNI CORROTTI, GUERRE E VIOLENZE, BISOGNA INTERVENIRE!!!
(STOP ALLA
SOCIETA’ COMMERCIALIZZATRICE E ALLE PAROLE INUTILI E VIA AI FATTI CONCRETI)
Finalmente! Ho passato 16 anni della mia vita ad essere insoddisfatta del mondo in cui vivo, dell’arroganza, della superficialità, l’ipocrisia che caratterizzano la nostra società. Mi sentivo diversa da tutti i miei amici che preferiscono passare le loro serate in discoteca a rincoglionirsi con quelle musiche assordanti che ti rimbombano nelle orecchie, storditi dalla luce e dai fumogeni, pieni d’alcool e pasticche.. I pomeriggi passati a fumare spinelli (“sport” praticato ormai dalla maggior parte dei giovani) non sono il mio forte, no grazie.
Eppure, pur sentendomi a disagio e disprezzando questo stile di vita, non ho mai osato esprimermi e dire il mio punto di vista. Credevo d’essere l’unica. Ora però so che ci sono tante altre persone che la pensano come me, disposte a sbattersi pur di morire in un mondo un po’ migliore di come l’hanno trovato.
Per i max midia non siamo altro che cifre, numeri
d’ascolto, bambocci da commercializzare, marionette da muovere a loro
piacimento. MA ORA BASTA! Basta con questa politica di mercato fatta di
politici corrotti; basta con i soprusi, la violenza, l’arroganza, lo
sfruttamento, basta!!
Sono stufa di studiare una storia fatta solo di
guerre, sofferenze, ingiustizia, morte. Gli eventi si ripetono, le guerre
continuano… ma non siete stufi? Partendo dai greci fino ai giorni nostri non ci
sono mai stati almeno 100 anni di pace. Si sono susseguite le guerre
greco-persiane, peloponnesiache, puniche, macedoniche, siriache, mitridatiche,
le guerre di liberazione e quelle di conquista, le crociate, le rivolte, le
guerre napoleoniche, le guerre coloniali, le guerre mondiali, la guerra del
golfo, la guerra asiatica, la guerra fredda, le dittature, le guerriglie
africane, quelle consumatesi al di là dei Balcani… e non bisogna dimenticare
personalità come Hitler, Stalin, Pinochet, e i più recenti Miloevich in
Kossobo, il leader curdo Ochalan, Haider in Austria. Se prendessimo un atlante
e crocettassimo tutti i paesi attualmente afflitti da dittature, guerriglie,
povertà sarebbero pochi i paesi privi di croci.
BASTA, BASTA, BASTA. Avrei voglia di urlare e
spaccare tutto ma, come “avrebbe” dovuto insegnarci la storia, non è con la
violenza che si sconfigge la violenza, bensì con la risolutezza, il coraggio e
la fermezza nelle proprie idee. Non dobbiamo riporre le nostre speranze, cadere
nel vortice dell’ignoranza e della superficialità in cui sono già cadute troppe
persone, né farci chiudere nelle tenaglie della globalizzazione; dobbiamo
invece tirare fuori la nostra personalità e sbatterci per portare avanti i
nostri ideali.
E’ inutile continuare a dire che il nostro
intervento non è sufficiente a cambiare il mondo e a migliorare la situazione,
balle!
E’ troppo comodo e già troppi lo dicono. Anche il
più piccolo accorgimento può essere utile per l’umanità; dalla raccolta
differenziata dei rifiuti per mantenere pulito l’ambiente alle adozioni a
distanza, dall’aiutare il proprio vicino al versare fondi a beneficio di
ricerche scientifiche o dimissioni umanitarie. L’unico modo per concludere
qualcosa, però, è cominciare. Non interessa come e perché, l’importante è fare
qualcosa per portare avanti una lotta alla merda che ci circonda. Man mano poi
che si andrà avanti aumenteranno gli aiuti e l’azione diverrà sempre più
potente ed efficace.
Concludo ringraziando tutti coloro che hanno avuto
la pazienza di leggere fino a qui e di “subirsi” questa palata di colorite
affermazioni, sperando che le mie parole siano servite a qualcosa.
Ps per chi, come è interessato ad approfondire le
sue conoscenze sulla situazione africana, consiglio la lettura del libro
“STAGIONE DI SANGUE” di Fergal Keane, un agghiacciante reportage sulla guerra
che si sta tuttora consumando in Ruanda.
E’ iniziato il nuovo millennio il fatidico 2000.
All’inizio avevo un po’ paura, pensavo a cosa
potesse accadermi invece eccomi qua senza che sia cambiato niente ed è proprio
questo il punto non cambia niente. I media ci avevano avvisto di un pericolo il
MILLENNIUM BAG in effetti il baco è da un po’ che c’è e tutto il sistema che è
andato in tilt è u un VIRUS che ormai è difficile guarire. Mi riferisco allo
Stato, ai stramaledetti soldi, al razzismo alla gente che muore ingiustamente,
alla droga e poi mettono in allarme il mondo per un problema di date……. SONO
PAZZI!!!!!!!!
E’ vero ci potevano essere dei problemi ma più
andiamo avanti più andiamo indietro questo è il punto.
Basta sentire quello che accade nel mondo per
rendersi conto di quanto fa schifo, altro che BADO DEL MILLENNIUM se mi arriva
a casa sarei stata anche contenta visto che è tenerissimo mi piace come lo
hanno stilizzato. Ci sono le guerre, la gente muore di fame, le leggi sono
ormai ridicole non è retorica è realtà e non ditemi che avete accettato i negri
o i terroni o i culattoni (scusate i termini!) è così che li chiamate vero?
Chissà se esisterà mai una medicina per l’essere
vivente, ormai definito così, chiamato terra io lo spero tanto.
Complimenti per il giornalino
Daniela
Questa è una
notizia che ho sentito durante le vacanze di Natale e mi ha "colpito"
un po':
IL SECONDO COMPLEANNO.
Il 22 Dicembre scorso in una delle autostrade italiane un autobus ha avuto un incidente e alcune persone sono morte, ma due donne si sono salvate, non grazie all'intervento "tempestivo" (!!!!!!) delle forze dell'ordine come potrebbe sembrare normale, ma grazie all'intervento di due passanti che hanno avuto il coraggio di entrare in mezzo ai resti dell'autobus e aiutare le due signore ancora vive. La signora Maria, una delle superstiti, in un'intervista ha dichiarato che il 22 dicembre festeggerà il suo secondo compleanno......................
FEDERICA
Ed
ora anche qualcosa di positivo.
Il
Sindaco di Palermo ,Leoluca Orlando ,decise 4 anni fà di ristrutturare quello
che nel passato era stato uno dei centri industriali più importanti e attivi
della città :i cantieri della Zisa,che nei loro quasi 100 anni hanno subito
molte trasformazioni , alternando la costruzione di mobili all'assemblaggio di
caccia bombardieri durante le guerre, per essere poi abbandonati per alcuni
decenni,fino al Luglio del 1996.Il comune di Palermo infatti aveva bisogno di
un luogo abbastanza grande e fuori dagli sguardi dei palermitani, per i
preparativi della festa di S.Rosalia ,la patrona della città,i
cantieri della zisa si rivelarono quindi il luogo più adatto a questo
scopo.Quest'area alla periferia del capoluogo Siciliano è diventata uno dei
centri culturali più importanti d'italia ed
il "progetto zisa "è conosciuto oggi a livello
nazionale;esiste all'interno dei cantieri uno spazio per i seminari, uno per le
mostre,una biblioteca,uno spazio per i concerti e uno più piccolo usato per le prove di chi ha voglia di suonare con i suoi amici,è anche in
programma l'allestimento di un museo d'arte moderna.I "giovani" artisti
siciliani hanno capito che finalmente non è più necessario spostarsi dalla
propria "terra" per fare conoscere i propri lavori,ma anche Palermo
ora ha molto da offrire ai suoi abitanti
.
Federica
Ormai
tutti noi conosciamo il commercio equo solidale. Si potrebbe definire come un'adozione a distanza in quanto
possiamo dare il nostro contributo a persone lontane senza strapparle dalle
loro terre, ma aiutandoli, appunto, a distanza. Ormai sono piu' di 10 anni che
anche questo commercio si e' sviluppato da noi: si tratta per lo piu' di
prodotti che provengono dal sud del mondo (Africa, Asia, America Latina) e che
grazie ad un'organizzazione del commercio equo solidale, possono essere venduti
a costi reali di produzione, evitando le speculazioni fatte dai mercati
multinazionali. Credo che tutto questo sia una forma di solidarieta'
staordinaria unita alla possibilita' di scoprire i sapori di alcuni prodotti,
secondo me unici. Il caffe' del Nicaragua o il te' dello Sri Lanka e che dire
del cacao della Bolivia... tutti gusti e sapori che sicuramente non
riscontriamo nei prodotti piu' conosciuti e pubblicizzati (ricordiamoci, noi
paghiamo anche la pubblicita' di cio' che acquistiamo!) nel nostro mercato. Non
si tratta solo di generi alimentari, ma prodotti di ogni tipo: oggetti per la
casa, vestiario, ecc. I prezzi sono accessibili a tutti; e' chiaro che se
vengono confrontati con prezzi di un "hard discount",
appaiono piu' elevati! Per non cadere in trappole, il mercato equo solidale ha
creato un marchio di garanzia: Transfair International e Transfair Italia.
Questo marchio garantisce che i soldi ricavati dalla vendita dei prodotti
(prezzo minimo di vendita), vengano ridistribuiti alle popolazioni che li
producono, per l'acquisto delle materie prime e per autogestirsi. Il logo di
questo marchio rappresenta un omino meta' nero e meta' bianco che regge due
ceste in equilibrio. Spero vivamente che tutti noi ci sensibilizzeremo sempre
piu' a questo tipo di commercio. Le Botteghe del Mondo (cosi' sono chiamati i negozi
che vendono la merce del commercio equo solidale), e tutte le altre
informazioni a riguardo (magari spiegate un po' meglio, rispetto a come le ho
spiegate io!!!), le potrete trovare sul sito internet
www.citinv.it/iniziative/info/equo/comequo.htm
Contribuiamo tutti, vi prego!!!
ELENA
Fermiamoci
a parlare con qualche “vecchietto”, guardiamolo negli occhi, e riflettiamo…
quante cose hanno visto quegli occhi, quanta sofferenza durante una guerra,
quanta felicita’ alla nascita di un figlio o di un nipotino, quanta
solitudine….
Guardiamo negli occhi di quelle esistenze che tanto hanno dato, lavorando, contribuendo alla societa’, che tanto hanno insegnato, sbagliato, ma anche saputo perdonare tanti affronti; vite trascorse tra la routine quotidiana durante il periodo lavorativo, vite preoccupate per la salute dei figli, vite che si sono ritrovate… anziane, dopo avere donato tutto. Ecco che cala il sipario… vite che, dopo la pensione, pare non servano piu’.
Eccole allora, darsi da fare per crescere i nipoti, per correre a pagare le bollette del gas delle nuore, a rendersi utili per non essere dimenticati, per sentirsi ancora vivi.
Non uccidiamoli prima del tempo, rendiamoci conto che nessuno di noi deve considerarsi “finito”. La vita da’, ad ogni eta’, qualcosa di diverso, e quando si raggiunge l’eta’ dei capelli d’argento, si ha qualcosa di cui andare orgogliosi: l’esperienza. Non lasciamo che questa passi inosservata e messa via, come un bel corredo dimenticato in un baule in soffitta. Rispolveriamo quel corredo, facciamo rivivere ogni giorno quell’esperienza che probabilmente, se ascoltata con il cuore, potrebbe permetterci di vivere una realta’ piu’ consapevole.
Soprattutto non dimentichiamoci di quegli anziani che magari una famiglia non l’hanno piu’, perche’ abbandonati o per altre ragioni, via via diverse. Molti di loro risultano di peso, solo perche’ non del tutto autosufficienti, oppure perche’ ritenuti “noiosi” con i loro soliti discorsi…. pensiamoci, anche noi saremo cosi’ e come ci sentiremmo se i nostri figli ci abbandonassero? Cosa proveremmo sentendoci di troppo quando la famiglia decide di fare un viaggio, o invitare ospiti “importanti” a casa?
Difendiamo la dignita’ dell’uomo, SEMPRE. Vergognamoci invece, quando solo per un momento abbiamo provato un senso di fastidio nei confronti di questi anziani, si… vergognamoci.
Proviamo una volta nella vita, a stare un po’ con loro, a dedicare loro un periodo dell’anno, magari quando si sentono piu’ soli e abbandonati. Parliamo con loro. Ci accorgeremmo ben presto che sono loro che ci stanno aiutando e non il contrario. L’amore e la riconoscenza che ci danno, sono infiniti. Ci aprono il cuore, ci regalano i ricordi, ci fanno commuovere, molti ci ricordano nelle loro preghiere.
Non lasciamoli soli, stiamo con loro, non importa la quantita’ di tempo che passiamo in loro compagnia, ma la qualita’ del tempo dedicato.
Non comportiamoci da distratti davanti ad una realta’ che sara’ la nostra. Non dimentichiamoci di loro. Mai.
ELENA
La solitudine è
incomprensione.
La solitudine è un vuoto.
La solitudine è non avere
nessuno come te.
La solitudine è essere
circondato da gente, ma sentirsi come se ci fossi solo tu.
La solitudine è la
consapevolezza che tra miliardi di persone nessuno ti ama profondamente.
Non c’è niente di più triste
per un uomo di questo.
E pensare che basterebbe un
sorriso per dargli un po’ di gioia.
Quello che per tutti è scontato,
per chi è solo è essenziale, vitale.
Chi ha tutto non si
rende conto di quanto è fortunato, chi non ha niente farebbe qualunque cosa per
un po’ d’amore.
Come dice Morgan: “È
stupendo conquistare la certezza che la solitudine è un valore”; ci resta almeno
questa consolazione …
Ma poi il nulla incombe
senza pietà.
Il mare
d’inverno porta colori cupi e nostalgici,
ma non per
questo vuol dire che sia sempre morto.
Il mare
d’estate sprigiona colori vivaci e solari,
ma non per
questo vuol dire che sia sempre vivo.
Le barche
d’inverno non si vedono,
ma questo non
vuol dire che non ci siano.
Le barche
d’estate sono tantissime,
ma questo non
vuol dire che siano tutte belle.
Il mare
d’inverno è burrascoso, ma non sempre!
Il mare
d’estate è calmo, ma non sempre!
Le barche
d’inverno sono in pericolo, ma non sempre!
Le barche
d’estate sono sicure, ma non sempre!
Il mare è la
vita.
Le barche sono
le persone che la navigano.
La mia bandiera è pronta per essere
innalzata,
e come ogni mattina si guarda in faccia
al nuovo giorno,
e si spera che scorra il più veloce
possibile.
Tutti con la testa alta verso il
tricolore,
al quale abbiamo giurato solennemente
amore e difesa.
Ma amore e difesa di quali cose?
Forse della libertà del popolo?
Un popolo soppresso da leggi assurde e
da un governo egoista.
Forse amore per la patria?
Una patria che è rimasta per ben pochi
come tale.
O forse di un odio verso chi ci sta
accanto?
Il quale, come noi della plebe moderna,
non vuole la morte di nessuno
e non vuole ammettere di
non sapere premere il grilletto
contro chi si fa gioco
della propria bandiera.
Ma la nostra bandiera,
la bandiera del popolo,
la bandiera della gente
che costituisce veramente la nostra umile patria,
e non la bandiera di chi
vuole essere il padrone supremo.
Dio aiutaci a salvare la
bandiera del popolo.
Quando il mattino
Si addormentava sui tuoi capelli
E il tuo sorriso
Si specchiava nella luce della sera.
Come eri bella
Quando la sua mano
Sfiorava dolcemente la tua pelle
E un suo bacio
Si posava sulle tue giovani guance.
E adesso sei un’ombra
Che ha smarrito i suoi passi
Una gemma di lacrime
Piegata sul crepuscolo.
E adesso porti un fiore
Sulla terra che ricopre il suo corpo
Che sarà germoglio
Per una nuova vita per un nuovo amore.
Nel silenzio cammini…
PER ME.
Quando ti accorgi di non riuscire più a vedere il punto che
divide la ragione dal torto;
Quando capisci di essere stato tu a sbagliare e hai paura di
avere perso la tua strada;
Quando pensi che chi ti sta veramente vicino ti prenda solo
in giro e non ti consideri più;
Quando senti che dentro te la solitudine prende veloce il
posto della voglia di vivere;
Quando hai
perso la forza di lottare e non sai più quali siano i tuoi ideali, ed i tuoi
principi li hai persi nelle vie oscure del tuo pensiero;
Quando ti senti solo, anche stando fra la gente, e vorresti
che lì ci fosse solo il tuo sogno più profondo;
Ma, soprattutto, quando cominci a non voler credere più
nell’amicizia, che sempre hai avuto al tuo fianco come compagna di viaggio in
questa strana scacchiera che è la vita;
Quando il vuoto attorno non ti fa più pensare e sognare, e
pensi solo a quello che è stato, e solo dopo ti rendi conto che tu sei nel
torto più vero con il tuo comportamento da uomo non sincero, con il suo “io”;
Allora, a questo punto…
A questo punto è meglio andare via, lasciare tutto,
andarsene lontano;
Lontano, dove i ricordi non esistono e dove tutto è
trasparente;
Lontano dal tuo mondo, dal mondo che hai voluto costruirti
attorno;
E quando sarai lontano, e vedrai, dalla parte opposta a dove
ti troverai, vedrai il tuo sogno sentirsi più solo, e lo vedrai pensarti;
E vedrai il suo volto scavato dalle lacrime come una pietra
dall’acqua, e vedrai bagnarsi i suoi occhi a primavera ricordando i tuoi occhi
più belli;
E lì, sentirai il vento portare la sua voce;
La sua voce che singhiozzando ti cercherà, e ti griderà…
Ti griderà le parole che avresti voluto ti sussurrasse
quando eri dove ora non ci sei più;
Solo allora capirai che quando stavi dalla parte dove ora
non ci sei più, non eri solo.
Ma devi andare così lontano per capire che il tuo sogno, il
tuo sogno più profondo, è lì al tuo
fianco?
E che anche lui ha bisogno di te?
Se perdi un principio, perdi un po’ dei tuoi sogni;
Ma se perdi il tuo sogno, il tuo sogno più profondo, perdi
te stesso.
Ambrogio
Camminare nei viali d’autunno
Tra le foglie fuggite ad alberi spogli
Sedersi sulla collina all’imbrunire
Per ammirare il tramonto del sole.
Nascondersi ore ed ore dietro i cespugli
Per spiare il volo di un airone
Lasciandosi alle spalle la luce
La luce della tua malinconia.
Perdersi nell’oasi di una poesia
Parole naviganti del tempo
Dove la guerra la guerra
È soltanto un brutto sogno.
E
dove nasce una stella ragazza mia
I
girasoli hanno il colore dell’amore.
Che cosa resterà di Ligabue
E dei suoi quadri naif
Delle sue angosce delle sue paure
Colori accesi sulla tela
Cosa mai resterà di Pasolini
Del dramma di un uomo solo
Pagine di indubbia bellezza
A cui attingere respiri di sapienza.
E
dove muore una stella ragazza mia
I
girasoli hanno il colore dell’amore.
Camminare nei viali d’autunno
Tra le foglie fuggite ad alberi spogli
A ricamare quei dolci pensieri
Per non lasciarsi morire.
Il PDS non stette a guardare, e insieme a Federazione Verdi, Rifondazione Comunista e altre forze progressiste mise in piedi l’Ulivo, l’unico modo per tenere testa al Polo nelle imminenti elezioni.
Inutile dire che né il Polo né L’ulivo avevano
stilati programmi comuni tra le forze che li componevano; la sola priorità era
quella di battere il blocco avversario.
Così, adesso che sapete i veri motivi che hanno
portato a questa situazione, la prossima volta che andrete a votare
ricordatevelo !!!
Anche Sanremo è passato. Le solite canzoni sdolcinate, la solita votazione non approvata, i soliti sospetti di corruzione. Ma quest’anno una piccola novità c’è stata, un qualcosa che val la pena essere nominata. Jovanotti è andato come ospite e ha cantato questo rap scritto sotto, “Cancella il debito” che mai verrà inciso e che però ha portato alla cancellazione di 6 mila miliardi di debito per i paesi più poveri. Grande risultato, su questo dubbi non ce ne sono. I dubbi invece che vorrei porvi è: Perché l’ha fatto? Perché è un buon samaritano? Perché crede davvero in quello che dice? Oppure, e io sceglierei questa, perché aveva bisogno di dimostrare ancora una volta che lui, nonostante le canzoni sdolcinate uscite ultimamente, è sempre quello pronto alla rivoluzione? Perché per lui è un grande vantaggio, che gli porterà altra stima e affetto dal popolo? Io credo che sia per questo. Non credo che Jovanotti sia un maestro di coerenza, non credo che tutto quello che ha cantato (meglio “rappato” )sia stata fonte del suo profondo. Belle parole, indubbiamente, ma poi? So per certo che ha rifiutato un concerto di beneficenza in un paese qui vicino perché non gli davano 180 milioni… E già questo non mi infonde fiducia. Da quando ho scoperto questo ho guardato un po’ meglio suoi comportamenti… E mi sono resa conto che purtroppo anche nella musica e nelle parole più ispirate il vile denaro centra. Purtroppo credo (anche se io spero sempre di sbagliarmi) che quelli che parlano dei grandi problemi della vita e del mondo nelle loro canzoni lo facciano solo per il loro torna conto (escludo i miei Nomadi, che per ora mi sono sempre sembrati piuttosto coerenti con loro stessi). Comunque, indipendentemente da questo, il debito è stato IN PARTE cancellato, è già un passo avanti. Fatto solo perché D’Alema si è fatto una bella figuraccia di fronte a tutta l’Italia canterina e non e doveva riparare. Del debito ne parlava anche Jack, ma forse qualcuno ha mai sentito dire da D’Alema anche un solo “Ci penserò”? No, perché non era un personaggio alla ribalta. Non fregava a nessuno.
CANCELLA IL DEBITO
Un miliardo di persone nel pianeta vivono con meno di un
dollaro al giorno. non stanno tentando di battere nessun record e non hanno
fatto voto di povertà la loro realtà non è una scelta ma la loro unica possibilità.
Un dollaro al giorno toglie il medico di torno nel senso che le persone non
hanno la possibilità di curarsi e nemmeno di informarsi non possono studiare e
nemmeno contribuire in nessun modo a cambiare la loro situazione. L'economia
dei paesi nei quali vivono è schiacciata da un debito estero talmente grande
che non rimane neanche un soldo da spendere per lo sviluppo delle cose basilari
la salute l'educazione. L'unica risorsa che resta alla popolazione è
l'emigrazione verso i paesi più ricchi e poi la storia la conosciamo e sappiamo
spesso come va a finire. Io adesso mi rivolgo all'onorevole D'Alema approfitto
del microfono per parlarle di questo problema, chissà quanti già le avranno
sottoposto la questione ma io vorrei usare il microfono e la televisione per
chiederle da qui di dare un segno profondo alla questione del debito estero di
molti paesi del sud del mondo che sono soffocati dal divario accumulato verso i
governi ricchi del mondo cosiddetto industrializzato,
paesi che per secoli sono stati colonizzati e poi fatti annegare nel mare di un
progresso difficile da sostenere per carenza di infrastrutture e zero potere
decisionale al tavolo per niente rotondo della banca mondiale e del fondo
monetario internazionale. Cancella il debito. Anche Giovanni Paolo Secondo Papa
Woitila ha espresso il suo appoggio per Jubilee 2000 che è un'organizzazione
nata per fare pressione in quei paesi che possono risolvere la questione. Tra
questi c'è l'Italia e io mi rivolgo a lei presidente del consiglio si consigli
con i suoi e faccia un gesto grande di quelli che cambiano la storia se lei
cancella il debito a lei andrà la gloria e a un sacco di famiglie la speranza.
Per molti è una questione di sopravvivenza. Dimostri che la politica non è solo
far quadrare i conti di una legislatura. D'Alema unisciti a noi non avere paura
Approfittiamo del Giubileo per ripartire da zero. Se lei cancella il debito
aiuta il mondo intero. Lo faccia lei per primo e gli altri le verranno
appresso. Se il sud non si risolleva non ci sarà nessun progresso ma solo nuove
guerre di disperazione, tragedie umanitarie e sovrappopolazione. Lo faccia lei
per primo e gli altri seguiranno in fila. Appoggi il progetto di Jubilee 2000.
cancella il debito. Presidente del consiglio io mi rivolgo a lei, promuova un
incontro del G7 lo dica agli altri sei, mettete la parola fine all'era
coloniale non c'è neanche più la minaccia del socialismo reale che aveva in un
certo modo giustificato l'esigenza di sostenere regimi corrotti senza nessuna
trasparenza. cancella il debito. Regali
questo orgoglio alla nostra generazione, inizi lei per primo quest'epoca di
trasformazione. Se si muovono i politici poi seguiranno i banchieri se lei
cancella il debito noi ne saremo fieri dimostri a tutti che le cose si possono cambiare.
Io la saluto e la ringrazio e torno a ballare. Cancella il debito. ALICE
IL CASO MORO
Aldo Moro , il più grande statista italiano del dopoguerra, fu rapito dalle BR il 16 marzo 1978, questa però è la versione ufficiale, quella che il governo, i Media e la stampa, hanno voluto farci credere.
Io penso che non sia andata affatto così, si da il
caso che proprio quel giorno, il governo Andreotti si presentava in parlamento
per ottenere la fiducia e per la prima volta avrebbe avuto l’appoggio del Partito
comunista.
Moro si era molto battuto per arrivare a questo
risultato, aveva dovuto superare resistenze fortissime nei gruppi parlamentari
nei gruppi parlamentari della Dc inimicandosi potenti “lobbies” politiche ed
economiche, interne e internazionali.
Come da copione rivendicarono il rapimento, ma
fu ben presto chiaro quale fosse il loro
vero obbiettivo: non un riscatto in denaro e neppure, come in apparenza
sembrava, la liberazione di alcuni “prigionieri”, come essi definivano con
termine militaresco i brigatisti incarcerati per precedenti operazioni.
Le Br volevano un riconoscimento politico da parte
del governo e dello Stato; volevano essere riconosciuti come controparte, come
partito armato, come forza combattente. Solo a queste condizioni avrebbero rilasciato
l’ostaggio, fidando nel fatto che nel frattempo egli avrebbe provocato
spaccature traumatiche dentro il suo partito e nell’intera coalizione
governativa.
Le lettere di Moro cominciarono ad arrivare, implacabilmente, dirette a tutti i principali attori di quel dramma collettivo: Andreotti, Cossiga ( i due principali artefici della morte di Moro), Zaccagnini, Fanfani, Leone e molti altri.
Che valore bisognava dare a quelle lettere ? Erano
estorte da chi aveva su di lui “pieno dominio” ? Riflettevano, pur scritte in
stato di orribile costrizione, sentimenti
e convinzioni autentici ?
Attorno a questo problema cominciò la polemica e
nacquero quei due partiti trasversali che furono definiti e si autodefinirono
il partito della fermezza e quello della trattativa.
Del primo facevano parte la direzione della Dc, pur
composta in gran parte da amici intimi di Moro; il governo (in particolare Andreotti e Cossiga i due veri
colpevoli dell’omicidio Moro); il Pci di Berlinguer; il movimento sindacale al
completo; il partito repubblicano con La Malfa in testa, Sandro Pertini.
Del secondo, Craxi e quasi tutta la dirigenza del
partito socialista, i radicali di Pannella, gli extraparlamentari
dell’Autonomia e degli altri gruppuscoli di estrema sinistra.
I rapporti tra queste due posizioni si inasprirono
rapidamente. I maggiori organi di informazioni furono abbastanza compatti in
favore della fermezza, pur subendo pressioni e anche minacce di vario tipo. Gli
intellettuali si divisero: molti di loro, a cominciare da Sciascia, lanciarono
lo slogan pericolosissimo “Né con le Br né con lo Stato”.
Furono giorni tragici durante i quali la macchina
dello Stato rivelò tutta la sua inefficienza e lasciò intravedere anche alcuni
aspetti oscuri che non sono mai stati interamente chiariti.
Poi, dopo quasi due mesi di tormento che debbono essere stati orribili per il
prigioniero e per i suoi familiari, gli ultimatum finali dei brigatisti e
infine l’omicidio.
L’obiettivo – ormai è chiarissimo e gli stessi
uomini delle Br( o dello Stato, non credo ci sia molta differenza, è stato un
complotto creato ad arte) era quello di impedire che il Pci compisse il suo
cammino e diventasse quella forza riformista di cui il paese aveva bisogno
perché ci fosse anche in Italia una democrazia compiuta.
Quel processo per fortuna non si è arrestato, ma
tardò di altri dieci anni a compiersi.
L’uccisione
di Moro fu il tragico ed orrendo prezzo con il quale fu bloccata per altri
diedi anni un’evoluzione che avrebbe potuto verificarsi molto tempo prima.
Claudio (articolo tratto quasi completamente
da Internet)
CHE
GUEVARA
Nasce il 14 giugno 1928 a Rosario in Argentina, da
Celia De la Serna ed Ernesto Guevara Lynch. La sua è una di quelle famiglie
agiate che vive in una regione confinante con il Brasile e col Paraguay nel
governatorato di Misiones. Nel luglio dello stesso anno il piccolo Ernesto si
ammala di broncopolmonite, la causa di quell’asma che lo accompagnerà per tutta
la vita. Nel 1933 la famiglia si trasferisce nella città di Alta Gracia, nella
provincia di Córdoba. Nel 1938, allievo della Scuola Primaria José de San
Martin, veste un abito indio e partecipa, dicono con molta convinzione,
all’opera teatrale “Martin Fierro”.
Tra il 1941 e il 1947 prosegue gli studi nella
scuola media del collegio Dean Funes di Córdoba e stringe amicizia con Alberto
Granado, che più avanti lo accompagnerà nel suo giro per il continente
americano. Il 22 aprile 1947, conclude gli studi al Dean Funes e conosce Berta
Gilda Infante, Tita, membro della Gioventù Comunista di Argentina; è con lei
che imparerà un verso di Gutierrez: “No
levantes himno de victoria en el dia sin sol de la batalla”. Si appassiona
alla letteratura. Baudelaire e Neruda sono i suoi poeti preferiti. Inizia a
scrivere un dizionario filosofico, composto da sette quaderni, nel quale
esprime concetti generali sulla storia della filosofia e delle scienze sociali.
Il terzo quaderno contiene appunti sulla vita di Carl Marx e sulle origini
della filosofia marxista. Nel 1950, terminato il liceo, si trasferisce con la
famiglia a Buenos Aires, dove si iscrive alla facoltà di medicina, ma non gli
interessano i voti alti e studia con passione solo quello che ritiene utile
alla sua formazione. Nei mesi di vacanza viaggia come può, in bicicletta, a piedi
e in moto all’interno del suo paese, fino alle Ande. A partire dal 1° gennaio
1950 percorre le province del nord dell’Argentina su una bicicletta Northon,
sulla quale inserisce il piccolo motore della Cucchiolo, attraversa il sud
delle province di Buenos Aires e Santa Fe e arriva a Córdoba dopo circa 40 ore,
dove viene accolto dalla famiglia del suo amico Granado. Poi si reca a Santiago
del Estero e, nel viaggio sino a Tucumàn, scrive i suoi primi appunti:
“Per una
ventina di chilometri la strada è buona, e ai suoi lati si sviluppa una
vegetazione lussureggiante, una sorta di foresta tropicale a misura di turista,
con una moltitudine di ruscelletti e un ambiente umido da documentario sulla
foresta amazzonica. Entrando in questi giardini naturali, camminando tra le
liane, calpestando felci e osservando come ogni foglia se la ride della nostra
scarsa cultura botanica, ad ogni istante ci aspettiamo di sentire il ruggito di
un leone, di vedere il silenzioso passaggio del serpente o l’agile corsa di un
cervo, e all’improvviso in un ruggito flebile e costante riconosciamo il canto
di un camion che si inerpica per la montagna. E’ come se questo ruggito
mandasse in frantumi i cristalli delle mie fantasticherie e mi riportasse alla
realtà…”
Nell’ottobre del 1951, a 23 anni, Ernesto Guevara
decide di partire con la Poderosa II, una Northon 500, con l’amico Alberto
Granado per visitare il suo continente; scrive:
“Era una
mattina d’ottobre, ed io ero andato a Córdoba approfittando delle vacanze del
17. Bevevamo mate dolce sotto il pergolato della casa di Alberto Granado e ci
raccontavamo le ultime novità sulla nostra vita da cani, mentre cercavamo di
sistemare la Poderosa II… Sulle ali del sogno arrivavamo in paesi remoti, navigavamo per i mari tropicali e
visitavamo tutta l’Asia”.
Nel febbraio del 1952 i due sono in Cile. Si devono
fermare a Lautaro per un guasto molto grave della Poderosa. La moto, molto
amata dal Che, si rompe definitivamente a Santiago del Cile, così Ernesto ed
Alberto, seppure a malincuore, l’abbandonano e decidono di continuare a piedi.
Con Alberto, il Che arriva il 7 giugno 1952 al lebbrosario di San Pablo, nella
provincia di Loreto in Amazzonia.
Comincia a leggere il poeta Federico Garcia Lorca. Nello stesso periodo visita
la tribù degli indios Yaguas. I degenti del lebbrosario, profondamente commossi
dalle tantissime attenzioni, costruiscono per Ernesto ed Alberto una zattera
per attraversare diagonalmente il Rio delle Amazzoni, per poter arrivare a
Leticia, in Colombia. Ci arrivano il 23 giugno 1952, e chiedono di allenare
squadre per il campionato locale di football. La loro squadra vince il
campionato e in premio Guevara e Granado ricevono un biglietto aereo per
Bogotà, dove vengono immediatamente arrestati dalla polizia del dittatore Laureano
Gomez; usciti di prigione un mese dopo, decidono di abbandonare il Paese ed
entrano in Venezuela dove Ernesto si separa da Alberto Granado.
Nel luglio 1952 Ernesto Guevara decide di recarsi a
Miami, per vedere gli Stati Uniti prima di rientrare in Argentina. Il 12 giugno
1953 si laurea in Medicina, con una tesi sull’Argentina, presso la Facoltà di
Scienze Mediche dell’Università di Buenos Aires. Ernesto ripercorre il Perù e
arriva a Guayaquil, Ecuador, dove incontra Ricardo Rojo, un esiliato argentino
fuggito dalle carceri di Peròn, che gli parla della riforma agraria promulgata
nel febbraio 1953 da Jacobo Arbenz, presidente del Guatemala; Ernesto non ha
dubbi e si dirige in Guatemala, dove arriva nel dicembre 1953. Ormai ha finito
di leggere tutto Marx, Lenin e altri scritti di teorici rivoluzionari e si
“sente” marxista.
Patria o
muerte… venceremos!
Il 12 dicembre 1953, a Cuba, nella prigione della
Isla de Pinos, Fidel Castro Ruz, scrive Il “Manifesto alla Nazione”, dove
denuncia i crimini commessi dalla dittatura di Batista e incita il popolo alla
rivolta. Il 27 dicembre, Hilda Gadea, un’esiliata peruviana, poco prima
d’imbarcarsi sul Granma, presenta a Ernesto Guevara un gruppo di rivoluzionari
cubani sopravvissuti all’assalto alla caserma Moncada: Dario Lòpez, Mario
Dalmau, Armando Arancibia e Ñico Lopez che gli parlano di Fidel Castro. E’ in
questo periodo che Ernesto Guevara de la Serna adotta quel nomignolo
famosissimo: Che, vocabolo argentino di origine guarany, che significa “mio”.
Il 17 giugno 1954 si scatena l’aggressione contro il governo Arbenz organizzata
dalla Cia e dal Dipartimento di Stato Usa che avevano addestrato in Nicaragua e
in Honduras un corpo di mercenari agli ordini del colonnello guatemalteco
Carlos Castillo Armas, per difendere il continente americano dal “pericolo
comunista”.
Il Che, inascoltato, tenta di organizzare la
resistenza armata in città, ma tutto crolla e, in agosto, si rifugia con i
rivoluzionari cubani nell’ambasciata argentina che lo registra come “elemento
comunista”. Nel 1955 vince un posto nel reparto Allergie dell’Istituto di
Cardiologia dove incontra Nino Lopez, che accompagna un esiliato cubano
ammalato. Fidel Castro arriva in Messico nel luglio del 1955… Il Che confesserà
a sua madre, in una lettera: “Me ligaba
desde el principio, un lazo de romàntica simpatia aventurera y la consideraciòn
de que valìa la pena morir en una playa extranjera por un ideal puro”.
Il 18 agosto 1955 Ernesto sposa Hilda Gadea, e il 15
di febbraio del 1956 nasce la prima figlia del Che, Hilda Beatriz, Hildita.
Il 25 novembre 1956, da Tuxpàn, parte il Granma: il
destino di Cuba, dominata daal dittatore Batista, sta per compiersi. Il 2
dicembre, sbarco a Playa de Las Coloradas. Sui giornali messicani appare un
titolo: “Invasion a Cuba en un Barco:
Fidel Castro, Ernesto Guevara, Raùl Castro y todos los otros miembros de la
expediciòn han muerto…”
E’ il primo annuncio della morte del Che. Il 5
dicembre, ad Alegria de Pio, però, Guevara è davvero ferito gravemente al
collo.
“Caddi a terra,
sparai verso la montagna, seguendo il misterioso impulso del ferito.
Immediatamente mi misi a pensare al miglior modo di morire, in quel minuto in
cui tutto sembrava perduto. Mi ricordai di un vecchio racconto di Jack London
in cui il protagonista, nelle zone gelate dell’Alaska, appoggiato a un tronco d’albero, si dispone a mettere fine con dignità
alla propria vita quando capisce di essere condannato a morire per
congelamento.” E’ l’ultima immagine che il Che ricorda di quel giorno.
Ancora una volta i giornali raccontano che Ernesto Che Guevara è morto. Il 9
dicembre 1956, il Che s’incontra con Camilo Cienfuegos, al quale rimarrà legato
per sempre da una bella e grande amicizia.
21 dicembre: il Che, Almeida, Cienfuegos, e il loro
piccolo gruppo di rivoluzionari si congiungono con Fidel e Raùl Castro. Il 17
gennaio 1957, prima vittoria a La Plata. Il 22 marzo, combattimento a Palma
Mocha. Nonostante vari attacchi di asma che lo demoralizzano, il Che combatte e
impara anche a dirigere gli uomini, attitudine che sembrava non voler assumere.
Agli inizi di maggio, proprio sulla cresta della Sierra Maestra, il Pico
Turquino, il Che subisce uno dei suoi più grandi attacchi d’asma. Da lì, e per
sempre, in ogni accampamento nella Sierra, farà costruire la cucina, il
dormitorio, l’anfiteatro, un piccolo centro ospedaliero dove curerà anche i
contadini, le loro donne prematuramente invecchiate, i bambini dai grandi
ventri. Forse è anche merito di questo incontro umano, solidale, che i
campesinos uniscono le loro forze a quelle dei famosi ribelli.
Tra il 27 e il 28 maggio del 1957, la battaglia di
El Uvero decide il suo nuovo ruolo in campo militare e, a luglio, il Che è
nominato Comandante della Seconda Colonna dell’Esercito Guerrigliero, formata
da 75 combattenti. La Prima è comandata da Fidel Castro. 30 agosto: battaglia
di El Hombrito. 16 settembre, quella di Pino del Agua. Il 4 novembre fonda la
rivista “El Cubano Libre”, firmandosi El
Francotirador.
La
durezza di questi tempi non ci deve far
perdere la tenerezza dei nostri cuori.
Il 29 novembre il Che dirige le operazioni di Marverde contro le truppe del feroce capitano batistiano Sànchez Mosquera. Nella battaglia cade Ciro Redondo. Il 16 febbraio 1958 c’è il secondo scontro a Pino del Agua e, il 24 di febbraio, fonda la famosa radio “Radio Rebelde”. Il 9 maggio, Ernesto Che Guevara partecipa alla riunione della direzione nazionale del “Movimento 26 luglio”, dopo l’insuccesso dello sciopero insurrezionale del 9 aprile. Tra il 24 e il 25 maggio iniziano gli attacchi simultanei dell’esercito batistiano. Si combatte a luglio a Santo Domingo, El Meriño, Minas del Frio, Vegas de Jibacoa y Las Mercedes. L’esercito batistiano, composto da diecimila uomini, è respinto sulla Sierra e viene decimato dall’esercito ribelle. Il Che soccorre personalmente i feriti, ma anche i nemici fatti prigionieri. Fidel Castro si congratula col Comandante per la vittoria sull’esercito batistiano e gli affida, in agosto, il comando della Colonna numero otto “Ciro Redondo” che deve compiere l’avanzata dalla Sierra Maestra alla provincia di Las Villas. L’obiettivo è quello di battere incessantemente sul territorio centrale di Cuba. Nello stesso tempo è designato a compiere la missione politica di unire tutte le forze e i differenti gruppi di combattenti e porli sotto il proprio controllo; ha inoltre la responsabilità dell’organizzazione politica, economica e sociale dei territori liberati.
Il 6 settembre la colonna numero otto, attraversando
il fiume Jobabo, si collega con la colonna “Antonio Maceo” di Camilo Cienfuegos
che sta dirigendo i suoi uomini verso occidente. Il 7 ottobre, il Che prende
contatto con alcune Guide de l’Escambray che lo ragguagliano sulla situazione
della zona; il 12 arriva con il suo gruppo nella provincia di Las Villas. Il 17
ottobre 1958 è a Gavinales dove stabilisce un accampamento provvisorio: è il
primo punto di comando nella Sierra de l’Escambray; da qui inizia il lavoro di
unificazione politica con le altre forze rivoluzionarie. Dopo la presa di Guina
de Miranda, il Che aveva iniziato a spostarsi verso Gavinales. A Caballete de
Casa ha conosciuto Aleida March, una dirigente del Movimento “26 de Julio” di
Santa Clara.
Aleida March è stata una rivoluzionaria importante e
ci fu un momento in cui dovette rimanere nascosta nella Sierra de l’Escambray
perché in città la polizia la stava cercando per ucciderla. Il Che se ne
innamorò subito e le volle bene fino all’ultimo. Come trattava le donne? Con
rispetto, come il resto dei combattenti, perché lui non faceva distinzioni tra maschi
e femmine. Guardava il valore della persona. Era così grande che non si possono
trovare altre parole. Non doveva morire! Ma non si può fermare un uomo come
lui: ha voluto continuare la lotta per la liberazione di altri popoli. Lo dico
con sincerità: quello era un tipo che non si sarebbe messo tranquillo finché al
mondo ci sarebbe stata anche una sola ingiustizia.
Il 26 ottobre del 1958 si arrendono i militari della
caserma di Guinia di Miranda; nel mese di novembre le truppe del Che e del
Directorio, impedendo le elezioni nella zona, riescono progressivamente a chiudere il traffico sulle strade,
tagliando in due l’isola di Cuba. Tra il 15 e il 18 di dicembre, c’è l’attacco
e poi la conquista della strategica seppur piccola città di Fomento, dove il Che
tiene il suo primo discorso in pubblico. Il 25 dicembre si arrendono i
batistiani nella città di Placetas e c’è la liberazione di Remedios e Cabarien
nella costa del nord di Las Villas. Il 28 di dicembre del 1958, l’esercito del
Che arriva a Santa Clara, il cuore di Cuba. Per prima cosa stabilisce un
comando provvisorio nell’Università, poi percorre la ferrovia per trovarvi un
punto vulnerabile. Sa che su quella linea viaggerà un convoglio dell’esercito
composto da diciotto locomotrici; sul treno vi saranno 408 uomini tra ufficiali
e soldati dotati di poderosi armamenti. Sono le tre del pomeriggio. Il treno
dell’esercito marcia senza sapere che il Comandante aveva fatto scardinare un
tronco della linea ferrata. Il treno deraglia; si ode una grande esplosione,
poi alte fiamme lo avvolgono. Poiché i giornali internazionali danno l’ennesima
notiziaa della morte del Che, Radio Rebelde lancia un comunicato: “Per la
tranquillità dei familiari e del popolo cubano, assicuriamo che Ernesto Che
Guevara è vivo e combatte ancora: ha già preso possesso del treno blindato di
cui vi abbiamo già dato nautili poco fa, e si dispone a prendere Santa Clara in
stato di assedio da alcuni giorni”. Il 1° gennaio 1959, la battaglia di Santa
Clara si conclude con la vittoria dei rivoluzionari e Batista scappa dal
Paese. Il 2 gennaio la colonna del Che
entra nella capitale di Cuba, la Habana, e occupa la fortezza militare “La
Cabana”. Proprio qui, organizza una scuola di alfabetizzazione per tutti gli ex
combattenti. Negli stessi giorni abbraccia, all’aeroporto José Marti, i
genitori e i fratelli che non vedeva da sei anni. L’abbraccio che dedica alla
madre credo che sia uno dei più struggenti che si siano mai visti. Il giorno 21
arriva nella capitale Hilda Gadea accompagnata dalla figlia Hildita. Con la
freschezza che lo contraddistingue, le annuncia che desidera sciogliere il loro
matrimonio. All’amico dei viaggi giovanili, Alberto Granado, annuncia il
secondo matrimonio e lo saluta: “Ricevi il più forte abbraccio che la tua dignità
di maschietto di permetta di ricevere da un idem”. Il 10 di febbraio un decreto
del governo rivoluzionario dichiara Ernesto Guevara de la Serna cittadino
cubano per nascita, unico straniero che ha guadagnato questo merito. Ottenuto
il divorzio da Hilda Gadea, si sposa, il 2 di giugno, con Aleida March, la
compagna del “movimento 26 luglio”. Il 12 giugno del 1959, in rappresentanza
del governo rivoluzionario il Che parte per il Medio Oriente e l’Asia, alla
testa di una delegazione economica che ha come obiettivo principale l’apertura
di nuovi mercati. Soggiorna in Egitto e ha vari incontri con Nasser. E’
acclamato a Gaza dai palestinesi, quale “liberatore di tutti gli oppressi”. Si
reca in visita in India e ha vari colloqui con Nehru, coi ministri degli Esteri,
della Difesa, del Commercio, dell’Agricoltura e Alimentazione. In Giappone
dichiara con sincerità che l’obiettivo principale della delegazione cubana è la
stipulazione di un trattato commerciale. Incontra in Indonesia Sukarno, il
primo ministro Djuanda e i ministri degli Esteri e della Difesa. Visita Giacarta, l’isola di
Bali e il centro zuccheriero di Madhukusumo. In una conferenza stampa annuncia
che il governo cubano ha deciso di allacciare rapporti diplomatici con
l’Indonesia. Il 26 novembre del 1959, il consiglio dei Ministri nomina il
comandante Guevara Presidente del Banco Nacional, ma è anche Capo del
Dipartimento di Industrializzazione. Il 15 febbraio 1960 prende parte ai
colloqui con Mikojan per l’accordo commerciale di cinque anni tra Cuba e l’Unione
Sovietica. Nel marzo dello stesso anno inaugura il ciclo di lezioni del
programma televisivo “Universidad popular”, con una conferenza sui problemi del
sottosviluppo e dell’economia. Sostituisce Fidel Castro, che è ammalato, alla
manifestazione davanti al palazzo presidenziale indetta dopo l’annuncio della
Casa Bianca (5 luglio) che gli Stati Uniti non compreranno più zucchero cubano.
Sempre a luglio, firma un accordo col viceministro del Commercio Estero della
Repubblica Popolare Cinese. 8 ottobre 1960. Il Departamento de Instrucciòn del
Ministerio de las Fuerzas Armadas Revolucionarias, pubblica il suo libro più
famoso, “La Guerra de Guerrillas”, dedicato nel suo prologo al grande amico,
comandante Camilo Cienfuegos, morto in un incidente aereo il 28 ottobre
dell’anno precedente. Tra l’ottobre e il novembre, sempre del 1960, è in Urss.
All’arrivo a Mosca dove è ricevuto dal vicepresidente del Consiglio, dichiara
di aver provato una grande emozione quando la prima petroliera sovietica
Pechino portò a Cuba il combustibile negato dagli imperialisti. Da Mosca si
reca in Cina e a Pechino ha un colloquio con Chou En-Lai e con Mao. Viaggia per
la Cina e a Shangai parla a un comizio indetto in suo onore. Firma con Chou
En-Lai un trattato di cooperazione economica tra la Cina e Cuba e un accordo di
assistenza scientifica e tecnica. E’ invitato ufficialmente nella Repubblica
Democratica di Corea, dove la folla lo accoglie a Pyongyang al grido di “viva
Fidel!”. Il 7 dicembre ripassa per Pechino, dove invia un messaggio radiofonico
al popolo cinese. Ancora a dicembre c’è
il suo secondo soggiorno a Mosca, dove riprendono le trattative commerciali.
Tiene una conferenza nella Casa dei Sindacati, alla quale parteciparono duemila
persone. Poi visita la Repubblica democratica Tedesca. Nei primi giorni del
gennaio 1961 un decreto del Consiglio dei Ministri crea il ministero
dell’Industria: Ernesto Che Guevara è ora il ministro dell’Industria.
Nell’aprile del 1961, 1500 mercenari, sbarcati sulla
Playa de Cochinos, si dirigono verso la Playa Larga e la Playa Giròn. Il Che
occupa il suo posto di combattimento nelle forze armate e si reca alla
Prefettura di Pinar del Rio. In tantissime capitali dell’America Latina
vvengono grandi manifestazioni popolari contro l’attacco a Cuba. Ra le più
grandi quella di La Paz: sono in molti i giovani, tra cui Coco e Inti Peredo,
che saranno al fianco del Comandante Guevara in Bolivia. In pochi giorni i
mercenari si arrendono. Il Presidente degli Stati Uniti, J.F. Kennedy, ammette
la responsabilità degli Usa e annuncia l’embargo totale contro Cuba, che dura
ancora oggi. In agosto il Che è Presidente della Delegazione Cubana alla
Conferenza del Consejo Interamericano Economico Social (CIES) che si svolge a
Punta del Este, in Uruguay. Arriva a Montevideo ed è acclamato da una folla che
inneggia alla bandiera della rivoluzione cubana. Il 15 aprile 1962, nel
discorso di chiusura del congresso nazionale della “Central Trabajandores
Cubanos” (Confederazione del lavoro), il Che annuncia l’inizio della fase
dell’emulazione socialista in tutto il Paese sottolineandone la funzione
importante per l’adempimento del piano economico. Il 22 ottobre 1962, il
presidente degli Stati Uniti dispone il blocco navale contro Cuba e chiede la
ritirata da parte dell’Unione Sovietica dei missili strategici situati
sull’isola. A La Paz, in Bolivia, i lavoratori si mobilitano ka grido di “Cuba,
Cuba”.Proprio su quelle piazze, negli scontri con la polizia muoiono cinque
manifestanti e ci saranno centinaia di feriti. Verso la fine di ottobre la
crisi rientra e il mondo tira un sospiro di sollievo. Pochi giorni prima, il 20
ottobre 1962, nell’anniversario della
fondazione delle organizzazioni giovanili diventate “Union de Jovenes Comunista”,
il Che aveva attaccato con durezza il settarismo, il conformismo, il distacco
tra dirigenti e masse popolari, esaltando lo spirito internazionalista:
“Occorre dichiarare guerra al conformismo, a ogni
tipo di conformismo. Essere sempre aperti a nuove esperienze, per adattare la
grande esperienza dell’umanità, che avanza da molti anni lungo il sentiero del
socialismo, alle condizioni concrete del nostro Paese, alle realtà esistenti a
Cuba; e pensare – tutti e ognuno di noi – a come cambiare la realtà, a come
migliorarla. Il giovane comunista deve proporsi di essere sempre il primo in
ogni cosa, lottare per essere il primo, e sentisi a disagio se occupa il posto
sbagliato… Essere un esempio, fare da specchio ai compagni che non appartengono
alla gioventù comunista, fare da specchio agli uomini e alle donne di età più
matura che hanno perso un po’ dell’entusiasmo giovanile, che hanno perso la
fede nella vita, e che davanti allo stimolo di un esempio reagiscono sempre
bene. Questo è un altro compito dei giovani comunisti. Oltre a questo voi dovete
avere un grande spirito di sacrificio, uno spirito di sacrificio non soltanto
nelle giornate eroiche, ma in ogni momento. Sacrificarsi per aiutare il
compagno nelle piccole mansioni, perché possa svolgere il proprio lavoro,
perché possa compiere il proprio dovere a scuola e perché possa comunque
migliorare. Essere sempre attento alla massa che lo circonda. Ovvero, vi chiedo di essere essenzialmente
umani, ma così umani da avvicinarvi al meglio di ciò che è umano, purificare il
meglio dell’uomo attraverso il lavoro, lo studio, l’esercizio della solidarietà
continua con il popolo e con tutti i popoli del mondo; sviluppare al massimo la
sensibilità fino a sentirvi angosciati quando in qualche angolo di mondo si
uccide un uomo ed esultare quando in qualche angolo di mondo si alza una nuova
bandiera di libertà. Il giovane comunista non può farsi limitare dalle
frontiere di un territorio: il giovane comunista deve praticare
l’internazionalismo proletario e sentirlo come cosa sua! Ci sarebbero tante
cose di cui parlare. Ma dobbiamo anche compiere i nostri doveri. E ne
approfitto per spiegarvi perché vi saluto. Vi saluto perché vado a compiere il
mio dovere di lavoratore volontario in una fabbrica tessile dove stiamo
lavorando da tempo”.
Il 17 febbraio del 1963, nel Campo della “Central
Brasil”, Provincia di Camagùey, organizza una ennesima “emulazione fraterna”
riguardante la raccolta della canna da zucchero, con altri lavoratori: vince la
gara, acquista bibite per tutti e si felicita con i compagni che invita a pranzo.
Il primo maggio sfila sulla Piazza della Rivoluzione. Sempre nel 1963, a
luglio, compie il viaggio in Algeria dove presenzia ai festeggiamenti del primo
anniversario dell’indipendenza del popolo algerino. Ritorno a La Habana in
compagnia di Boumedien invitato per i festeggiamenti del 26 Luglio in
rappresentanza del suo Paese. Nel febbraio del 1964 tiene una conferenza alla
televisione sull’automazione e la meccanizzazione per lo sviluppo di nuove
industrie. E’ uno dei primi ministri del mondo che parla dello sviluppo
tecnologico e dell’informatizzazione. A marzo è alla testa della delegazione
cubana che assiste alla conferenza sul commercio e lo sviluppo convocata
dall’Onu a Ginevra. Tra il 4 e il 18 novembre 1964 è a Mosca per assistere ai
festeggiamenti per il quarantasettesimo anniversario della rivoluzione di
ottobre. Visita l’Esposizione Industriale permanente di Mosca, l’Istituto
d’Automazione e una fabbrica di macchine utensili discutendo a lungo con gli
operai. Inaugura l’Associazione Cuba-Urss il cui presidente è Gagarin. Ai primi
di gennaio 1965 è in Congo dove s’incontra col presidente Debat e coi dirigenti
rivoluzionari angolani, Agostino Neto e Lucio Lara. Poi va in Mali, dove
incontra gli operai della Société des conserves du mali; a colloquio con Modibo
Keita insiste sulla situazione internazionale e africana in particolare, e sui
problemi interni dei rispettivi Paesi. A Cuba, a febbraio, vicino a Pinar del
Rio, un centinaio di volontari si appresta a indossare la divisa
internazionalista che li porterà a fianco del Che in Congo. Nello stesso
periodo si recherà in Congo, Guinea, Ghana, Dahomey (oggi Benin), Tanzania. Nei
discorsi, tocca soprattutto i temi dell’istruzione, dell’organizzazione e
appena può s’incontra con i dirigenti sindacali. Il tasto su cui torna sempre,
però è quello della inesauribile pratica neocolonialista dei grandi interessi
economici mondiali in America Latina, in Africa e in Asia e la necessità,
quindi, di una unità d’azione tra i popoli di questi tre grandi e importanti
continenti.L’8 febbraio del 1965 è a Parigi, al Louvre. Rientra a La Habana,
via Praga, il 14 marzo del 1965. All’aeroporto ci sono Fidel Castro, Dorticos,
Carlos Rafael Rodriguez e Orlando Borrego. E’ l’ultima volta che Ernesto
Guevara, detto il Che, compare in pubblico. Il 14 marzo 1965, a trentasette
anni quindi, il Che scompare agli occhi del mondo. Si ritira per modificare le
sue conosciutissime sembianze, per arrivare, attraverso a Tanzania, nell’ex
Congo Belga, pensando già alla Bolivia. Pochi mesi dopo, una disinformazione
molto acuta sollecita, a livello internazionale, l’attenzione sul Che che, si
dice, è stato assassinato dai dirigenti cubani Fidel Castro e Raùl Castro.
Addirittura, in tutta l’Americana Latina, compaiono manifesti sui quali il
padre del Che, Don Ernesto Guevara Lynch, chiede ai due leaders cubani il
cadavere del figlio. Siamo al 30 Marzo del 1964. Il Che ha bisogno di un
passaporto nuovo. A uno a uno scompaiono i suoi bei capelli scuri. Dopo vari
tentativi e sofferenze, è a posto; rimangono solo pochi ciuffi ai lati delle
orecchie; ingrassa anche. In Congo, Ernesto Che Guevara entra con un passaporto
intestato a Ramòn Benitez. Il 1° aprile del 1965, scrive la lettera di addio ai
suoi genitori e ai suoi figli:
“Cari vecchi,
Quasi dieci anni fa vi ho scritto un’altra lettera
di addio. Ricordo che con voi mi lamentavo di non essere un miglior soldato e
anche un medico migliore; la seconda cosa non mi interessa più. Come soldato,
ora, non sono poi così male. Nel profondo nulla è cambiato, salvo che sono
molto più cosciente e il mio marxismo si è fortificato e depurato. Credo nella
lotta armata come unica soluzione per i popoli che lottano per la loro
liberazione e sono coerente con quello in cui credo. Certamente molti mi
chiameranno avventuriero, e lo sono, ma di un tipo diverso e di quelli che
mettono a disposizione la propria pelle per dimostrare le proprie verità. Può
essere che questa lettera sia quella definitiva. Se sarà così, ricevete il mio
ultimo abbraccio. Ricordatevi ogni tanto di questo piccolo condottiero del
secolo ventesimo. Un bacio a Celia, a Roberto, Juan Martin, a Beatriz, a tutti.
Un grande abbraccio dal vostro figliol prodigo, recalcitrante, per voi. Ernesto
Ai miei figli.
Carissimi Hildita, Aleidita, Camilo, Celia ed
Ernesto.
Se un giorno leggerete questa lettera sarà perché io
non ci sarò più. Quasi non vi ricorderete di me: i più piccoli non ricorderanno
nulla. Vostro padre è un uomo che agisce come pensa e sicuramente è stato leale
con le proprie convinzioni. Crescere come buoni rivoluzionari, studiate molto
per acquisire la tecnica che permette di dominare la natura. Ricordatevi,
comunque, che la rivoluzione è la cosa più importante e che ognuno di noi, da
solo, non vale niente. Soprattutto siate capaci di sentire nel più profondo di
voi stessi qualsiasi ingiustizia commessa contro qualsiasi persona, in
qualsiasi parte del mondo. E’ la qualità più bella di un rivoluzionario. Hasta
siempre piccoli figli, spero di vedervi ancora. Un bacio immenso e un grande abbraccio
dal vostro papà.
Ed ecco la lettera inviata a Fidel prima della partenza di Cuba:
Fidel:
questo momento mi ricordo di molte cose, di quando ti ho conosciuto in casa di Maria Antonia, di quando mi hai proposto di venire, di tutta la tensione dei preparativi. Un giorno vennero a chiederci chi bisognava avvertire in caso di morte, e il pensiero che questo potesse capitare davvero ci sconvolse. In seguito comprendemmo che era vero, che in una rivoluzione (quando è vera) o si trionfa o si muore. Molti compagni sono rimasti lungo la strada verso la vittoria. Sento di aver compiuto la parte di dovere che mi legava alla rivoluzione cubana in territorio insulare, e saluto te, i compagni e il tuo popolo che ormai è mio. Rinuncio formalmente ai miei incarichi nella Direzione del Partito, al mio posto di ministro, al mio grado di Comandante, alla mia condizione di cubano. Non ci sono più vincoli legali, ma ciò che mi lega a Cuba non può essere rotto da una dichiarazione. Ripensando alla mia vita passata, credo di aver lavorato con sufficiente dignità e dedizione al consolidamento del trionfo della rivoluzione. L’unica colpa di una certa gravità è stata di aver riposto la massima fiducia in te fin dai primi momenti sulla Sierra Maestra e di non aver compreso con sufficiente velocità le tue qualità di dirigente e rivoluzionario. Ho vissuto giorni magnifici e stando al tuo fianco mi sono sentito orgoglioso di appartenere al nostro popolo nei giorni luminosi e tristi della Crisi dei Caraibi. E sono orgoglioso di averti seguito senza tentennamenti, identificandomi nel tuo modo di pensare e di vedere, di concepire i pericoli e i principi. E’ arrivata l’ora di separarci. Sappi che lo faccio con un misto di allegria e dolore; a Cuba lascio la mia più pura speranza di costruttore e la più amata tra le persone amate… e lascio un popolo che mi ha accettato come un figlio; ciò lacera una parte del mio spirito. Porterò sui nuovi campi di battaglia la fede che mi hai inculcato, lo spirito rivoluzionario del mio popolo, la sensazione di compiere il più sacro dei doveri: lottare contro l’imperialismo in qualunque parte del mondo; questo riconforta e cura abbondantemente qualsiasi ferita. Se la mia ora arriverà sotto altri cieli, il mio ultimo pensiero sarà per questo popolo e specialmente per te. Dovrei dire molte altre cose a te e al nostro popolo, ma sento che sono inutili, le parole non possono esprimere quello che vorrei, e non vale la pena imbrattare la carta.
Hasta la victoria siempre, Patria o Muerte.
Ti abbraccio con tutto il mio fervore rivoluzionario.
“Che”.
A luglio del 1966, Harry Villegas, Carlos Coello e José Martìnez Tamayo arrivano a la Paz. Sui compagni di lotta del Che, Fidel Castro ricorda che sollecitò la collaborazione di un gruppo di uomini: alcuni erano nuovi, altri vecchi guerriglieri che erano stati con lui anche in Zaire, e chiese che gli fossero d’appoggio. Il Comandante è ancora a Cuba. Si presenta come Ramòn, lo spagnolo, anche ai compagni internazionalisti. E’ ancora più calvo e fuma la pipa; veste in modo impeccabile, porta gli occhiali, calza stivali lucidissimi. S’incontra per l’ultima volta con Aleida e i suoi figli. Aleidita Guevara March ricorda che quel Ramòn, che diceva di essere amico del padre, era un uomo strano. Il Che, quel giorno, dopo aver salutato i figli, lascia alla moglie una sua personale registrazione: è la poesia “Poema 20” da “20 Poemas de amor y una canciòn desesperada” di Pablo Neruda. Il 3 novembre del 1966, il Che parte per la capitale della Bolivia, La Paz, con il passaporto uruguayano intestato a Adolfo Mena Gonzalez, professione commerciante. Il 7 Novembre, Ernesto Che Guevara raggiunge la fattoria scelta come punto d’incontro del gruppo che costituirà il focolaio guerrigliero in Bolivia. Il giorno dopo l’arrivo, inizia le perlustrazioni nella zona per costruire gli accampamenti, che sposterà continuamente, e per cercare grotte dove nascondere munizioni, rifornimenti e apparecchi radio. In dicembre, al gruppo del quale facevano parte anche Villegas, Pombo, Leonardo Tamayo Nunez, Urbano si uniscono, tra gli altri, i boliviani Inti e Coco Peredo, Lorgio Vaca Marchetti, Carlos, e l’altro cubano, Josè Maria Martinez Tamayo. Siamo alla fine di febbraio: ritrovano il Rio Grande, lo devono di nuovo attraversare e, il Che, sul diario, piangerà la morte, per annegamento, di Benjamin Coronado Cordova. Arrivano, l’otto marzo, a Tatarenda. Il governo boliviano, l’11 marzo, sollecita l’aiuto immediato degli Stati Uniti e stabilisce il coordinamento dei servizi segreti di Argentina, Brasile, Chile, Perù e Paraguay. Il 23 marzo del 1967 iniziano le operazioni di guerriglia. Una pattuglia dell’esercito boliviano, in perlustrazione, cade in un’imboscata nella gola di Nancahuazu; lo scontro produce sette morti, quattordici prigionieri (che verranno liberati quasi subito, come fa di solito il Comandante) e quattro feriti, per l’esercito. Al “Movimento di Liberazione della Bolivia”, così come è stato definito dal Che il suo gruppo, si integrano ventinove boliviani, sedici cubani e tre peruviani. Comunque il Comandante è preoccupato e ha capito che i militari boliviani sanno quasi sempre dove sono, con estrema precisione. Il 10 aprile un altro distaccamento dell’esercito inviato all’inseguimento cade in un’imboscata. I guerriglieri hanno un ferito grave, el Rubio (jesus Suarez Gayol) che morirà dopo poco. 15 aprile 1967: Ernesto Che Guevara scrive uno dei suoi tanti messaggi a Fidel Castro, poi detta quello che si può definire il suo testamento morale: “Messaggio ai Popoli del Mondo”. Sempre nell’aprile del 1967, il gruppo di guerriglieri è costretto a scindersi in due per le cattive condizioni di salute di alcuni di loro: uno è al comando di Vitalio Acuna, l’altro a quello del Che; da questo momento non riusciranno più a stabilire nessun contatto. Il 17 aprile, a Cuba, Osmany Cienfuegos convoca una conferenza stampa in cui rende noto il messaggio inviato dal Che alla Tricontinentale e cioè il “Messaggio ai Popoli del Mondo”. I guerriglieri il 25 tentano un’imboscata che però non riesce. Nell’imboscata muore Rolando, Eliseo Reyes Rodriguez. Il Che lo ricorda come un capitano valente, coraggioso e immenso. Il 30 maggio, la colonna del Che si scontra con l’esercito nei pressi della ferrovia Yacuiba-Santa Cruz. Tre sono i soldati morti e dieci i prigionieri. A giugno il governo boliviano proclama lo stato d’assedio e nella città di La Paz viene effettuata una vasta retata di elementi appartenenti alla sinistra che portata di elementi appartenenti alla sinistra che porta in carcere centocinquanta persone. A giugno, nella zona delle miniere di Catavi, i minatori assaltano e bruciano la caserma della polizia e, d’accordo con i minatori di Huanuni, dichiararono territori liberi i loro distratti. Il 29 giugno 1967 a Santa Cruz gli studenti dichiarano territori libero l’Università locale; il 3 luglio Debray conferma, in un’intervista a un giornale, la presenza del Che in Bolivia; il 6 luglio i guerriglieri occupano per qualche ora la città di Samaipata, ma inizia anche la grande operazione d’accerchiamento concertata dall’esercito. Il 17 agosto si apre l’istruttoria del processo Debray che dichiara di essere stato torturato dalla Cia. L’editore Giangiacomo Feltrinelli viene arrestato a La Paz; aveva preso le difese di Cuba en denunciato alcuni piani della Cia. Anche in Italia ci sono mobilitazioni a suo favore. Qualche giorno dopo verrà espulso dal Paese. Mentre il generale americano Porter visita un campo di berretti verdi a Santa Cruz, una compagnia della VII divisione tende a un’imboscata al gruppo di Joaquin che cerca di attraversare il Rio Grande. Due guerriglieri, fatti prigionieri in uno scontro avvenuto il 12 agosto, hanno parlato, consentendo l’agguato che la VII divisione dell’esercito dice di “Vado del Yeso”, sul Rio Masicuri. In realtà, l’imboscata è a Puerto Mauricio, sul Rio Grande. Cadono nove guerriglieri, e con loro Acuna Nunez, Joaquin, e Tamara Bunke Bider, Tania. L’esercito perde un solo uomo. Il 2 settembre il gruppo del Che tende l’ennesima imboscata nei prssi di Valle Grande, che non riesce. Un guerrigliero muore e viene arrestata Loyola Guzman, giovane sindacalista, che aveva aiutato la guerriglia dal punto di vista dei finanziamenti. Il 22 settembre c’è la conferenza stampa stampa dei generali Barrientos e Ovando che esibiscono il materiale fotografico, trovato nelle grotte e negli accampamenti dei guerriglieri, nonché i passaporti cubani; in questa occasione di afferma che il gruppo capeggiato dal Che è stato localizzato nei pressi del villaggio La Higuera a Valle Grande.
Ore 15,30 dell’8 ottobre del 1967. Arriva a la Paz un comunicato da Valle Grande: “Confirmada caida Ramon”. Il Comandante generale dell’Esercito Boliviano comunicato la nautili a Washington. Alle 19:30 le quattro case di La Higuera sono circondate dal buio. Tenui lampi di luce provenienti da antiche lampade illuminano visi sorpresi di contadini che osservano, attoniti, i guerriglieri fatti prigionieri. I cadaveri di Arturo e Antonio sono già stati sistemati sul pavimento di una delle due piccole aule della scuola. Nell’altra, viene gettato il corpo del Che. Per ora gli ordini sono di mantenerlo in vita. Alcuni ufficiali boliviani fanno l’inventario degli oggetti trovati e che riguardano il Comandante . Sono: il suo diario, alcuni libri con annotazioni; i testi, di “Canto General” di Pablo Neruda, “Aconcagua” e “Piedra de Hornos” di Nicolas Guillen. Il Che parla con il sottufficiale Huerta Lorenzetti, gli spiega gli elementi principali della rivoluzione cubana, i motivi per cui è antimperialista, parla della Bolivia e dei suoi sfruttati. Si ricorda dei figli e della moglie Aleida. Il giovane Lorenzetti è turbato. Ore 6,30 del 9 ottobre. Arrivano, in elicottero, il colonnello dell’esercito boliviano, Zenteno Anaya e l’agente della Cia, di origine cubano, Felix ismal Rodriguez Mendigutia, detto Felix Ramos. Nell’interrogatorio quest’ultimo sarà il più feroce. Ma anche il Che, nei suoi confronti, non desiste. Gli dà del traditore, cerca di colpirlo a pugni chiusi e, quando gli legano la mani dietro la schiena, gli sputa in faccia, sinchè non lo tramortiscono. Sono le 13 Miguel Ayora e l’agente Cia Mendigutia ordinano la morte di Ernesto Che Guevara. Il giovane Mario Terran entra nell’aula. Il Che, appoggiato a un vecchio e grosso tavolo di legno, lo osserva. Il giovane soldato non sa più che fare. Il Comandante gli grida: “Dispara, cojudo, dispara! Cierra los ojos y dispara!”. Muore, il Che, alle 13,10 del 9 ottobre del 1967: aveva trentanove anni. Il quel 9 ottobre del 1967, verrai visitato per tutta la notte da silenziosi contadini, bambini, donne. Ceri accesi, visi di povera gente, faranno mille cerchi attorno al duro tavolo di legno dove ti avevano appoggiato. Sei ritornato il Che, coi capelli scuri, lunghi; bello, anche nella morte. Il giorno dopo i militari vorrebbero bruciarti, hanno pronta anche la benzina. Ma temono la reazione degli abitanti di Valle Grande, la presenza di giornalisti. Allora occultano il tuo cadavere, pochi istanti prima di un grande evento storico internazionale: il “Sessantotto”. Si lottava anche per il Vietnam, allora, e si parlava di un uomo che tu hai conosciuto, previsto, che stava per decidere le sorti del Chile. Saresti stato contento: in tante università della terra, comprese quelle degli imperialisti, là, in Nord America, in tante fabbriche, donne e uomini in tutte le lingue inneggiavano alla libertà. Prima o poi, comunque, qualcuno ci dovrà dire dove esattamente ha gettato il tuo corpo, Comandante.
Posso scrivere i versi più tristi questa notte.
Scrivere, ad esempio: “La notte è stellata,
e scintillano, azzurri, gli astri, in lontananza”.
Il vento della notte gira nel cielo e canta.
Posso scrivere i versi più tristi questa notte.
Io l’amai, e a volte anche lei mi amò.
Nelle notti come questa la tenni tra le mie braccia.
La baciai tante volte sotto il cielo infinito.
Lei mi amò, a volte anch’io l’amavo.
Come non amare i suoi grandi occhi fissi.
Posso scrivere i versi più tristi questa notte.
Pensare che non l’ho. Sentire che l’ho perduta.
Udire la notte immensa, più immensa senza lei.
Il verso cade sull’anima come sull’erba la rugiada.
Che importa che il mio amore non potesse conservarla.
La notte è stellata e lei non è con me.
E’ tutto. In lontananza qualcuno canta, lontano.
La mia anima non si accontenta di averla perduta.
Come per avvicinarla il mio sguardo la cerca.
Il mio cuore la cerca, e lei non è con me.
La stessa notte che fa biancheggiare gli stessi alberi.
Noi, quelli di allora, non siamo più gli stessi.
Più non l’amo, è certo, ma quanto l’amai.
La mia voce cercava il vento per toccare il suo udito.
D’altro. Sarà di un altro. Come prima dei miei baci.
La sua voce, il suo corpo chiaro. I suoi occhi infiniti.
Più non l’amo, è certo, ma forse l’amo.
E’ così breve l’amore, ed è così lungo l’oblio.
Perché in notti come questa la tenni fra le mie braccia.
La mia anima non si rassegna di averla perduta.
Benchè questo sia l’ultimo dolore che lei mi causa,
e questi siano gli ultimi versi che io le scrivo.
POEMAS DE AMOR Y UNA CANCION DESESPERADA
- Pablo Neruda –
Katya (pezzi presi dal libro “IL CHE: L’AMORE,
LA POLITICA, LA RIVOLTA)
PAPPAGALLI VERDI
Ragioniamo ancora una volta su che cosa vuol dire realmente vivere in un paese di guerra. Prendiamo l’Afganisthan. Non so propriamente cosa sia accaduto e accada tutt’oggi laggiù. Ma posso immaginare la situazione di quella gente che continua a viverci, perché è la stessa che troviamo in Kossovo, nel Kurdistan o in Vietnam. Perché ovunque è uguale, senza differenza, davvero. Arriva la guerra, porta la distruzione, il dolore, soprattutto le immagini dei tg… Poi arriva la pace. Il mondo festeggia per il conflitto in meno e il paese in questione viene dimenticato. Ogni tanto qualche telecamera ritorna, tanto per fare una bella figura davanti all’Italia. Ma cosa sta accadendo laggiù? La pace non c’è. E non servo io per gridarlo. Certo, non volano più gli aerei (ma è sempre vero?), non troviamo più macchine da guerra (siamo sicuri?).. Ma, chissà come mai, la gente continua a morire, ininterrottamente. Perché? Cosa è rimasto? Oltre all’odio e all’indifferenza, ovviamente. Presto detto: le mine antiuomo. Mine che ogni giorno lacerano vite, le rendono inutili, mutilandole, accecandole. E le vittime sono sempre i bambini. Cosa serve ammazzare e mutilare bambini? Serve per umiliare il paese nemico, per renderlo succube, senza soldati in futuro. Se tu togli una gamba a un bambino di 6 anni, tra 20 non potrà certo combattere, vi pare? Tutto ciò è terribile, ed è terribile e angosciante il fatto che il tg ci passi sopra, per poi riempire ore di rotocalchi e notizie di secondo ordine. Perché è comodo non parlarne.. Infondo fino a non molto tempo fa anche l’Italia era complice di questo massacro, no? Spinta dal desiderio di sapere ho comprato un libro. SI chiama “Pappagalli Verdi” ed è stato scritto da Gino Strada. L’ho letto tutto il giorno di Natale, di proposito, perché sentivo il bisogno di non dimenticare nulla durante delle feste assolutamente inutili.. Sapete, a Natale bisogna parlare solamente di doni e dolci… Per me no. E così ecco il mio libro, il libro di tutte le persone che soffrono e che sono dimenticate dal mondo. E’ stato terribile, non ho dormito per molto tempo perché non riuscivo a scacciare dalla mente quelle immagini, anche se non le ho viste con i miei occhi. E forse è giusto così, perché dimenticare è l’ultima cosa che dobbiamo fare, perché chiudere gli occhi non serve a nulla, è solo maledettamente ipocrita e comodo. Il libro è edito dalla Feltrinelli, costo 22 mila lire. Era già consigliato nel primo numero, ma io ancora non lo avevo letto né comprato, ma non poteva mancarmi… Davvero, se volete sapere cosa sta succedendo realmente dietro a una guerra, se volete sapere cosa sta distruggendo queste popolazioni ormai “fuori pericolo” (nel senso che non ci sono più i carri armati e i soldati) compratelo. In più i vostri soldi finiranno nelle mani di Emergency e aiuterete una organizzazione che si rimbocca le maniche davvero. Il libro in questione è stato scritto da GINO STRADA. Credo lo conosciate tutti. Il chirurgo di guerra (tra l’altro un fondatore di Emergency) che arriva nei posti dimenticati da noi, gente tanto “preoccupata” di far finire una guerra (a parole, ovviamente) che poi cancella dalla mente quel dato luogo pensando “Tanto ora c’è la Pace”. Certo, la pace… Pace che ogni giorno mutila e uccide persone innocenti grazie a tutte le mine antiuomo sparse nei territori, sparse nei posti più frequentati dalle persone (ad esempio i Cimiteri), mine che hanno il solo scopo di rendere disabili soprattutto i bambini, di modo che questi, da adulti, non possano essere utili alla paese, non possano divenire soldati. Ordigni creati per umiliare il nemico. E’ triste pensare che una guerra non coinvolga quasi per nulla i soldati e che invece le vittime sono solo i civili, Civili martoriati da fatti estranei a loro, individui che non si curano affatto della politica, dell’economia, della religione., ma che vogliono solo vivere in pace. Per loro ormai sembra davvero impossibile. Perché, come scrive anche Strada in molte parti del libro, oramai essere mutilati da una mina è quasi una malattia che si trasmette di padre in figlio, ormai è quasi normale. Ed è atroce. E’ poi atroce pensare alla sofferenza di queste persone, mi viene una rabbia terribile. MA non si può prendersela con nessuno, purtroppo. Bisogna subire, anzi, veder subire delle vere e proprie torture. Bambini che si svegliano senza gambe o, peggio, ciechi. Bambini che non piangono più, rassegnati forse a questa loro realtà. Bambini che raccolgono questi maledetti Pappagalli verdi (perché questa è la sembianza delle mine) e vengono privati anche del loro corpo. Anche l’idea, ampliamente descritta nel libro, dell’uomo che studia a tavolino un mezzo per eliminare dei bambini, un uomo che ha anche lui magari figli e li ama, li guida… Come si fa a concepire certe diavolerie? E il bello è che nessuno ne parla, che tutti se ne fregano, che se la guerra è finita ufficialmente allora tutti stanno bene. E’ una vergogna. Io che parlo ne so pochissimo, lo so, ma sto cercando materiale.. e riesco poi voglio farvi un articolo, magari con qualche foto anche. MI sento male al pensiero di certe realtà. Ho cercato di ripetere la stessa cosa più volte, per farvi entrare dentro quel poco di vergogna e di indignazione che cerco di trasmettervi. Vi cito qui sotto il capitolo in cui Strada scopre, incredulo, queste atrocità. Giudicate voi. Il pezzo non ha bisogno di commenti.
“Un vecchio afgano con i sandali rotti e infangati,
e il turbante con la coda che scendeva fino alla cintura, stava accanto al
figlio di sei anni nel pronto soccorso dell’ospedale di Quetta. Il bambino si
chiamava Khalil e aveva il volto e le mani, o quel che ne restava, coperti di
abbondanti fasciature. Stava sdraiato, immobile, la camicia annerita
dall’esplosione. Qualcuno aveva strappato una manica e ne aveva fatto un
laccio, legato stretto sul braccio destro per fermare l’emorragia. “E’ stato
ferito da una mina giocattolo, quelle che i russi tirano sui nostri villaggi”
disse Mubarak, l’infermiere che faceva anche da interprete, avvicinandosi con
un catino di acqua e una spugna. Non ci credo, è solo propaganda, ho pensato,
osservando Mubarak che tagliava i vestiti e iniziava a lavare il torace del
bambino, fregando energicamente come se stesse strigliando un cavallo. Non si è
neanche mosso, il bambino, non un lamento. In sala operatoria ho tolto le
bende: la mano destra non c’era più, sostituita da un’orrenda poltiglia simile
a un cavolfiore bruciacchiato, tre dita della sinistra completamente
spappolate. Avrà preso in mano una granata, mi sono detto. Sarebbero passati
solo tre giorni, prima di ricevere in ospedale un caso analogo, ancora un
bambino. All’uscita dalla sala operatoria Mubarak mi mostra un frammento di
plastica verde scuro, bruciacchiato dall’esplosione. “Guarda, questo è un pezzo
di mina giocattolo, l’hanno raccolta sul luogo dell’esplosione. I nostri vecchi
le chiamano pappagalli verdi…” e si mette a disegnare la forma della mina:
dieci centimetri in tutto, due ali con al centro un piccolo cilindro. Sempre
una farfalla più che un pappagallo, adesso posso collocare come in un puzzle il
pezzo di plastica che ho in mano, è l’estremità della ala. “… Vengono giù a
migliaia, lanciate dagli elicotteri a bassa quota. Chiedi ad Abdullah,
l’autista dell’ospedale, uno dei bambini di suo fratello ne ha raccolta una
l’anno scorso, ha perso due dita ed è rimasto cieco”: Mine giocattolo, studiate
per mutilare bambini. Ho dovuto crederci, anche se ancora oggi ho difficoltà a
capire… Tre anni dopo ero in Perù. Quando me ne andai da Ayacucho dopo mesi
passati a organizzare un reparto di chirurgia, un amico peruviano, artista e
poeta, mi ha regalato un retablo, una specie di presepe in gesso. Una scena di
violenza e di lotta per il diritto di terra. Intorno alle figurine di contadini
incatenati, trascinati via da militari
con il passamontagna, tante spighe di grano, molto alte, dorate. Sopra le
spighe stormi di loros, pappagalli
verdi col becco adunco e gli occhi rapaci. “Per i contadini di qui – mi disse
Nestor spiegandomi il retablo – i
pappagalli simboleggiano la violenza dei militari, hanno lo stesso colore delle
loro uniformi. Arrivano, si prendono il raccolto, spesso uccidono, e se ne
vanno via”. Nestor mi raccontava la misera vita della gente di quella regione
andina, le sofferenze e la rassegnazione, e la violenza sistematica. Allora gli
ho detto di altri pappagali verdi, che avevo conosciuto in Afghanistan. Mine
antiuomo di fabbricazione russa, modello PFM-1. Gli ho spiegato che le gettano
sui villaggi, come fossero volantini pubblicitari che invitano a non perdere lo
spettacolo domenicale del circo equestre. E ho visto i suoi occhi increduli,
come erano stati i miei, e le labbra aprirsi un poco in segno di sorpresa. La
forma della mina, con le due ali laterali, serve a farla volteggiare meglio. In
altre parole, non cadono a picco quando vengono rilasciate dagli elicotteri, si
comportano proprio come i volantini, si sparpagliano qua e là su un territorio
molto più vasto. Sono fatte così per una ragione puramente tecnica – affermano
i militari- non è corretto chiamarle mine giocattolo. Ma a me non è mai
successo, tra gli sventurati feriti da queste mine che mi è capitato di
operare, di trovarne uno adulto. Neanche uno, in più di dieci anni, tutti
rigorosamente bambini. La mina non scoppia subito, spesso non si attiva se la
si calpesta. Ci vuole un po’ di tempo – funziona, come dicono i manuali, per
accumulo successivo di pressione. Bisogna prenderla, maneggiarla ripetutamente,
schiacciarne le ali. Chi la raccoglie, insomma, può portarsela a casa, mostrarla
nel cortile agli amici incuriositi, che se la passano di mano in mano, ci
giocano. Poi esploderà. E qualcun altro farà la fine di Khalil. Amputazione
traumatica di una o entrambe le mani, una vampata ustionante su tutto il torace
e, molto spesso, la cecità. Insopportabile. Ho visto troppo spesso bambini che
si risvegliano dall’interno chirurgico e si ritrovano senza una gamba, o senza
un braccio. Hanno momenti di disperazione, poi, incredibilmente, si riprendono.
Ma niente è insopportabile, per loro, come svegliarsi nel buio. I pappagalli
verdi li trascinano nel buio, per sempre. Dicevo queste cose a Nestor; seduti
nel suo laboratorio pieno di quadri e sculture, e di figurine in gesso da
colorare. Discorrevamo di guerra e violenza, di repressione e libertà, di
diritti umani. Che cosa spinge la mente
umana a immaginare, a programmare la violenza? Mentre mi parlava delle tragedie
della sua terra, del massacro dei contadini di Huanta che chiedevano solo che i
loro figli potessero andare a scuola, avvertivo nelle sue parole, mescolate a
un atavico pessimismo, la rabbia soffocata, il desiderio di ribellione. Ma poi,
inevitabilmente, il suo pensiero tornava ai pappagalli verdi, a quelli che
scendevano dal cielo nel lontano Afghanistan. E allora Nestor scuoteva la
testa, e la rabbia lasciava il posto alla tristezza, quella che riempie la
mente quando non c’è più la possibilità di capire, quando è svanita la ragione
ed è solo follia. Così abbiamo immaginato – sapendo che era tutto
maledettamente vero- un ingegnere efficiente e creativo, seduto alla scrivania
a fare bozzetti, a disegnare la forma della PFM-1. E poi un chimico, a decidere
i dettagli tecnici del meccanismo esplosivo, e infine un generale compiaciuto
del progetto, e un politico che lo approva, e operai in un’officina che ne
producono a migliaia, ogni giorno. Non sono fantasmi, purtroppo, sono esseri
umani: hanno una faccia come la nostra, una famiglia come l’abbiamo noi, dei
figli. E probabilmente li accompagnano a scuola la mattina, li prendono per mano
mentre attraversano la strada, ché non vadano nei pericoli, li ammoniscono a
non farsi avvicinare da estranei, a non accettare caramelle o giocattoli da
sconosciuti… Poi se ne vanno in ufficio, a riprendere diligentemente il proprio
lavoro, per essere sicuri che le mine funzionino a dovere, che altri bambini
non si accorgano del trucco, che le raccolgano in tanti. Più bambini mutilati,
meglio se anche ciechi, e più il nemico soffre, è terrorizzato, condannato a
sfamare quegli infelici per il resto degli anni. Più bambini mutilati e ciechi,
più il nemico è sconfitto, punito, umiliato. E tutto ciò avviene dalle nostre
parti, nel mondo civile, tra banche e grattacieli. Al confronto anche i loros, verdi pappagalli che infestano le
Ande, sembrano meno feroci, verrebbe da dire più umani. Non ho più saputo nulla
di Mubarak, da sette anni. Ho incontrato molti Khalil in giro per il mondo,
l’ultimo si chiama Thassim. Non è afgano, è un ragazzo curdo di quindici anni,
è cieco e senza mani. L’ho operato due settimane fa, uno strano intervento
chirurgico che trasforma gli avambracci e li rende simili alle chele di un
granchio, o a bastoncini cinesi, perché possa afferrare oggetti, mangiare da
solo, fumarsi una sigaretta. Gli stiamo insegnando ad adattarsi alla nuova forma
del suo corpo, a usare al meglio quel che è rimasto. Thassim ha raccolto la
mina, il suo maledetto pappagallo verde, vicino a Mawat, un villaggio di
montagna circondato da boschi di querce, rese ancora più maestose dalla prima
neve di novembre. Lo guardo mentre cerca, per ora senza successo, di portarsi
un cucchiaio alla bocca senza rovesciare la zuppa. E’ stanco, e un poco
frustrato, per oggi non vuole più saperne di fare esercizi.”
Emergency
è nata nel 1994, creata, come abbiamo già scritto, anche da Gino Strada. Non è
facile capire come riesca ancora a sopravvivere con soldi nettamente inferiori
ai bisogni e con la frustrazione che ovviamente troviamo in quegli uomini che la portano avanti. Credo
che Emergency sia una delle poche associazioni che davvero funzionano, che
davvero si mette in gioco e rischia la vita per queste maledette guerre che ci
sono e non ci sono. Alcuni dei volontari sono anche morti, tutti portano dentro
il doloro e orrore che li accompagnerà per sempre. Ma la cosa più atroce è il
destino di quei popolo che hanno perso anche i diritti più elementari, che
rischiano anche solo a uscire di casa. Loro lottano per questo, utilizzando
ogni risorsa possibile. Purtroppo sono sempre i SOLDI a mancare. Vi lascio il
conto corrente, così se volete mandare qualcosa farete un’opera di bene. Anche
poco, può salvare una vita. E, come diceva qualcuno nel film “Shindler’s List”
“Chi salva una vita salva il mondo intero”. Vi assicuro che, in questo caso, il
vostro denaro arriverà a qualcosa di utile.
EMERGENCY
VIA
BAGUTTA 12, 20121 MILANO TEL. 02 76001104 FAX 0276003719
E-MAIL
EMERGENC@EMERGENCY.IT HTTP:\\WWW.EMERGENCY.IT
C/C
POSTALE N. 28426203 INTESTATO A EMERGENCY
C/C
BANCARIO 713558 BANCA POPOLARE EMILIA ROMAGNA SEDE DI MILANO- VIA MENGONI 2.
Gli uomini e le donne di Emergency hanno fatto
miracoli: salvato vite oramai senza speranza, costruito ospedali in condizioni
assurde, portato aiuti dove oramai sembrava inutile. Se volete saperne di più
andate in una libreria qualsiasi della vosta città e chiedete i giornali di
Emergency. Sono periodici, ogni tre mesi, e non costano nulla. Vale la pena
leggerli. Io ho ritrovato la voglia di andare avanti, perché ora so che qualche
grande persona esiste davvero.
Ora una piccolissima carrellata delle guerre
dimenticate. Sono solo alcune di quelle che esistono nel mondo.
ASIA E OCEANIA
Dal
1947 India e Pakistan si contendono il Kashmir. Una guerra silenziosa che dal
1989 conta 50.000 morti. Con il rischio di un conflitto nucleare. A East Timor
gli abitanti dell'isola combattono dal 1976 per l'indipendenza dall'Indonesia.
Il tragico bilancio della lotta di liberazione è di 250.000 morti, un terzo
dell'intera popolazione timorese. Dieci anni di invasione sovietica, tre di
governo filorusso, quattro di guerra civile e oggi i Talebani che controllano i
tre quarti del paese. Le milizie integraliste di studenti del Corano hanno
riportato l'Afghanistan al Medioevo.
Il Tibet è il tetto del mondo. Forse troppo in alto, perché qualcuno si accorga di cosa succede lassù. Cinquant'anni di occupazione cinese, annientamento culturale ed etnico. Un genocidio. Silenzioso.
AFRICA
Le aree africane che abbiamo scelto per questo primo monitoraggio sono quelle del Corno d'Africa, della Sierra Leone e del Ruanda. Nel Ruanda dal 1994 è in corso una guerra civile che ha causato un genocidio, che negli ultimi cinque anni è proseguito in sordina. Oggi si aprono e si svolgono i processi del tribunale internazionale per i diritti dell'uomo. Le cause, però, risalgono al periodo della colonizzazione belga e non si possono sintetizzare nel corso di una seduta di un tribunale.
La guerra civile nella Sierra Leone, e il conflitto fra Etiopia-Eritrea costituiscono solo una parte, la più visibile, di problemi più vasti. L'equilibrio del Corno d'Africa e dell'Africa Occidentale è messo in discussione. Guinea, Liberia e Nigeria sono coinvolte in Sierra Leone, così come Djibouti, Sudan, Somalia e Kenia lo sono nella guerra fra Etiopia ed Eritrea.
AMERICA
Nel Chiapas, la minoranza amerinda abita una delle zone economicamente più vivaci del Messico. Il Sub-comandante Marcos è alla testa di una ribellione contro il governo centrale che dura da molti anni.
C’è poi un’altra associazione da ricordare, molto
utile. E’ ROCKNOWAR. Purtroppo non sono informata al proposito e non so cosa
faccia in realtà. SO che ha costruito parchi giochi in paesi dove non c’è più
nulla per i bimbi, quindi Kossovo e simili. Ma altro non so. So che però si dà
davvero da fare… Notizia forse inutile, ma era per dire che non solo EMERGENCY
esiste.. Gli uomini di buona volontà sono ovunque..
Alice
di Pino Cacucci
“Ora basta bisogna fare qualcosa !” conclusero in
coro i Grandi Saggi delle Galassie.
Quel piccolo pianeta, la terra, era in condizioni
disastrose. I suoi abitanti non erano tutti cattivi, ma avevano sviluppato un
sistema di convivenza demenziale.
Secondo gli ultimi dati, 125 uomini possedevano la
metà delle ricchezze complessive:
assurdo. E le 3 persone più ricche della terra
avevano un patrimonio superiore alla somma del prodotto interno lordo delle 48
nazioni più povere: incredibile.
Questo faceva si che in nome del profitto sfrenato si stesse distruggendo in modo irreversibile ogni equilibrio ecologico. Si era giunto il momento di fare qualcosa.
E i Grandi Saggi scelsero una soluzione
semplicissima.
C’era una rivista terrestre, Forbes, che pubblicava
ogni anno l’elenco dei cento uomini più oscenamente ricchi. E i Grandi Saggi
inviarono un raggio che incenerì in un nanosecondo quei cento uomini. Lo
sconcerto si impossessò dei rimanenti ultrasupersbracamiliardari, che
ordinarono agli apparati militari di bombardare qualche paese povero
accusandolo di terrorismo, ma poi, l’anno seguente, i primi cento della lista
finirono egualmente arrosto. E così il terzo, e il quarto… finché si scatenò
una “spontanea” quanto febbrile gara a non essere ricchi: siccome nessuno
voleva in regalo strabilianti proprietà, queste si diluirono nel possesso
collettivo, e si scoprì che per vivere non era strettamente necessario avere
dieci elicotteri, cinquanta arerei, mezza Patagonia, mille fabbriche,
scomparvero banche e borse, e la produzione e i servizi migliorarono perché
affidati a cooperative e stati sociali esenti dall’assillo di accumulare soldi.
Per qualche tempo, la terra assomigliò a un luogo vivibile e sano,
l’inquinamento diminuì enormemente e i terrestri impararono a godere dell’ozio
e degli svaghi che la libertà concedeva loro, appassionandosi a lavori
socialmente utili. Ma fu sufficiente che i Grandi Saggi rivolgessero altrove la
loro attenzione, perché in capo a un decennio tutto tornasse come prima.
CLAUDIO
Il 27 gennaio del 1945 il campo di concentramento di Auschwitz venne liberato dai Russi. 27 gennaio 2000: ricorrono i 55 anni dalla liberazione. 55 anni di storia vissuta, di frasi dimenticate e di immagini ormai lontani. Per questa ricorrenza abbiamo pensato, io e Claudio, che fosse doveroso parlarne. Dire quel poco che sappiamo, carichi della speranza che tutto questo non capiti ancora una volta. La foto qui sopra basterebbe. Ma credo che sia opportuno spendere anche qualche parola, soprattutto oggi, che abbiamo visto Haider a un passo dal prendere posto come capo dello stato. Forse questo capita perché è la memoria che manca, perché certe cose non sono state viste abbastanza, ma non credo sia per indifferenza verso le cose. Vedere certe foto e sapere che NON E’ FICTION non può non mettere angoscia. Io stessa, mentre facevo le mie ricerche, sono rimasta più che stravolta da tutto questo. Cominciamo col parlare di Auschwitz, anche se parlare di Dachau o Mathausen non sarebbe meno terrificante.
Auschwitz era una città della Polonia, dove i Nazisti costruirono un campo di deportazione diviso in Auschwitz I (campo principale), Auschwitz II (a Birkenau) e Auschwitz III (a Monowitz). La direzione del campo fu data a un capo delle SS: Rudolf Hoess.
Chi era Rudolf
Hoess? Breve storia della sua vita.
Hoess, secondo suo padre, sarebbe dovuto entrare nell’ordine religioso, legato com’era alla Chiesa Cattolica. Hoess non si ribellò mai, si sottomise al volere del padre. Per lui la vita religiosa era tutto ciò per cui era nato. Inoltre la presenza di un padre così autoritario aveva sviluppato in lui il senso dell’obbedienza. Considerava suo dovere sottostare a tutti gli ordini e i desideri dei genitori, degli adulti in generale, del curato, dei precettori, perfino dei domestici. Hoess divenne un uomo freddo, ossessionato dalla disciplina. Suo padre morì allo scoppio della prima guerra mondiale. E la vita di Rudolf, che allora aveva 16 anni, cambiò: egli si ribellò per la prima e unica volta nella sua vita. Non aveva più fede e voleva diventare soldato. Si arruolò e fece la guerra. Quando si firmò l’armistizio tornò in Germania e decise di continuare la vita militare. Si arruolò in un corpo che aveva il compito di tutelare la presenza tedesca nei paesi baltici. Poi, nel 1923, fu accusato di assassinio politico e condannato a dieci anni di lavori forzati. Egli era membro del partito nazista dal 1922, ma ne disapprovava i metodi, che incoraggiavano gli istinti più bassi delle masse. Quattro anni dopo la fine dei lavori forzati, ossia nel 1934, Himmler (il Reichsfuhrer SS) lo invitò a entrare nei gruppi attivi delle SS e poi entrò direttamente nel corpo di guardia dei campi di concentramento. Egli ancora non sapeva sinceramente di cosa si trattasse. Ma quando scoprì che i nemici erano solo delle persone ammucchiate e che non c’era bisogno di combattimento, non capì che cosa ci stava a fare lì. Gli spiegarono poi che quei prigionieri erano dei grandi nemici dello Stato, molto pericolosi. Qui cominciò a vedere punizioni corporali, che lo scandalizzarono. Le grida di dolore gli trasmettevano solo orrore. Ma ben presto, come tutti gli altri, imparò l’indifferenza. Dopo sei mesi gli fu dato l’incarico di provvedere alla sorveglianza diretta dei prigionieri e pensò anche di abbandonare le SS, ma non ebbe il coraggio di farlo. Non c’erano seri motivi. Nel 1938 fu mandato al campo di Sachsenhausen. Scoppiò la guerra, e le violenze nei campi aumentarono. Ma per Hoess, come per tutte le SS, ogni ordine era sacro e doveva essere eseguito senza esitare. E il 4 maggio 1940 ricevette la nomina a comandante del futuro campo di Auschwitz. Lo stesso campo venne costruito dai detenuti, che morivano come mosche per stenti e mancanza di cibo. Ma questo non era importante. Il campo doveva essere terminato. Finiti i lavori, Eike, l’ispettore generale dei campi, gli presentò un piano molto dettagliato del campo di Auschwitz. Esso provvedeva all’immediata creazione di due campi satellitari, che avrebbero portato a trentamila il numero degli internati. Auschwitz II doveva sorgere a Birkenau, vicino alla piccola foresta di betulle, mentre Auschwitz III avrebbe avuto sede a pochi chilometri da lì, a Monowitz. Ma nel 1941 un altro obiettivo: costruire il campo in modo che esso potesse prendere centomila uomini. Perché? Hoess fu chiamato da Himmler per un colloquio segretissimo. Ecco cosa disse: “Il Fuhrer ha dato ordine di procedere alla soluzione finale del problema ebraico. Noi SS siamo incaricate di eseguire questo ordine. Voi dovrete mantenere il più assoluto riserbo sul contenuto del nostro colloquio. Non dovrete riferire questa discussione a nessuno, neppure al Gruppenfuhrer Glucks, vostro immediato superiore. Si tratta di un affare segreto del Reich e non potrete alludervi davanti a degli stranieri senza mettere la vostra vita in pericolo. Ormai la soluzione finale del problema ebraico è lo sterminio fisico. Esiste già un centro di sterminio nella zone orientale, ma lì non sono in grado di portare a termine le grandi azioni che abbiamo progettato. Per queste grandi azioni ho scelto Auschwitz, in primo luogo per la sua posizione favorevole dal punto di cista delle comunicazioni; in secondo luogo perché in questa regione si può facilmente isolare e mimetizzare il luogo destinato simili azioni. In un primo tempo pensavo di affidare questo compito a un ufficiale superiore delle SS, ma ho rinunciato per evitare, fin dall’inizio, discussioni a proposito della divisione delle competenze. Il compito dunque toccherà a voi. Quello che vi aspetta è un lavoro duro e penoso; dovrete impegnarvi anima e corpo e fare astrazione dalle difficoltà. I particolari vi saranno comunicati dallo Sturmbannfuhrer Eichmann del R.S.H.A. (ufficiale superiore della sicurezza del Reich, da cui dipendeva la Gestapo) che verrà presto da voi. Sarà mia cura informare a tempo debito le amministrazioni che parteciperanno all’operazione. Voi dovrete mantenere il più rigoroso silenzio riguardo a questo ordine. Dopo aver parlato con Eichmann mi manderete immediatamente i piani dell’installazione proposta. Gli ebrei sono gli eterni nemici del popolo tedesco. Essi devono essere sterminati. Tutti gli ebrei sui quali riusciamo a mettere le mani devono essere annientati senza eccezioni da questo momento per tutta la guerra. Se non riusciamo a distruggere oggi le basi biologiche dell’ebraismo, in seguito saranno gli ebrei ad annientare il popolo tedesco”. Hoess non replicò. Quell’ordine poteva sembrare mostruoso, ma non stava a lui discuterne. Anni più tardi disse: “Quando sono stato arrestato, mi è stato detto e ripetuto che avrei potuto disobbedire a quell’ordine e perfino assassinare Himmler. Non credo che questa idea potesse venire in mente a un solo ufficiale delle SS. Era assolutamente impensabile. Parecchi ufficiali si erano lamentati della durezza degli ordini che venivano loro impartiti, ma essi li eseguirono ugualmente”. Dopo il colloquio Hoess tornò immediatamente ad Auschwitz. Doveva iniziare con urgenza i passi necessari per la realizzazione del programma di sterminio. Pochi uomini in Germani erano al corrente del suo terribile segreto.
Gli individui adatti al lavoro sarebbero stati raggruppati in squadre; gli uomini e le donne sarebbero stati condotti separatamente nelle regioni dell’Est. Il capo dell’ufficio superiore della Sicurezza, Heydrich, durante una conferenza disse: “Senza dubbio, gran parte di essi scomparirà per la legge della selezione naturale. Gli altri, quelli che sopravviveranno a tutto ciò dovranno essere trattati di conseguenza. Questi individui rappresentano un’elite naturale e portano in germe gli elementi di una nuova resurrezione ebraica. Guardate alla Storia, signori. L’Europa sarà rastrellata da Ovest a Est. Egli prevedeva la creazione di ghetti speciali per i vecchi mutilati di guerra. I figli avrebbero dovuti essere o sottoposti alla soluzione finale o sterilizzati.” L’inizio della soluzione finale avesse riguardato gli ebrei del governo generale della Polonia. Himmler non era sicuro di fare il giusto e si confidò con il suo massaggiatore, Kersten. Disse “Lo sterminio degli ebrei è stato deciso”. Kersten, sconvolto, rimase senza parola. Poi espresse il suo orrore di fronte a una simile rivelazione. Himmler tentò di giustificarsi, dicendo che non ignorava le sofferenze che avrebbe provocato, ma che faceva solo il suo dovere. Del resto anche gli Americani non si erano comportati allo stesso modo nei confronti degli Indiani? La tragedia della grandezza è di creare una vita nuova calpestando cadaveri, ma è nostro dovere creare questa vita nuova. Il suolo potrà produrre frutti sani solo quando sarà purificato. Porterò questo pesante fardello. E gli ebrei non hanno forse anch’essi sacrificato milioni di vite umane per costruire la loro storia? Potete esigere tutto da me, anche la pietà, ma non potete chiedere la mia protezione contro il nichilismo organizzato: sarebbe un suicidio. Queste furono le sue parole.
Auschwitz fu scelta per essere il più grande centro di sterminio degli ebrei del Terzo Reich. Ma bisognava ancora trovare il sistema più adatto per sopprimere i milioni di individui. La soluzione finale era ancora un segreto di stato. Si pensò al gas. Sarebbe stato semplicemente impossibile eliminare con la fucilazione le masse che aspettavano; tenendo poi conto delle donne e dei bambini, quest’ultimo sistema sarebbe stato troppo penoso per le SS che lo avessero attuato.
Ecco cosa si vede ad Auschwitz, appena arrivati. Il terreno è circondato, fino all’orizzonte, di piloni di cemento disposti ad intervalli regolari e collegati tra loro con filo spinato dalla base fino alla cima. Dei cartelli avvertono che sono percorsi da corrente elettrica ad alta tensione. I piloni delimitano grandi quadrati, all’interno dei quali centinaia di baracche, coperte di carta verde catramata, formano lunghe strade rettilinee e parallele a perdita d’occhio. Basta poco per immaginare la realtà di quegli anni. All’interno del campo uomini con indosso i tipici abiti a righe dei carcerati. Alcuni trasportavano degli assi, altri zappavano e vangavano. Lungo degli steccati, ogni trenta o quaranta metri, sorgevano delle costruzioni sopraelevate: erano le torri di guardia. Dentro a ciascuna di esse si trovava un soldato SS appoggiato ad una mitragliatrice montata su un cavalletto. Il campo di concentramento di Auschwitz ha custodito a volte più di cinquecentomila persone all’interno dei suoi recinti di filo elettrificato. “Arbeit Macht frei! – Il lavoro rende liberi!”. Questa massima, seria o ironica, figurava scritta a grosse lettere sopra l’ingresso principale di Auschwitz. Gli Ebrei avevano il compito di aiutarli a sterminare gli Ebrei e altrettanto facevano i Polacchi e i Russi con i loro compatrioti. I deportati avevano quindi anche il compito ignobile di cremare i loro compagni.
Gli internati erano solo dei condannati in attesa della morte… migliaia di uomini, di donne, di bambini in attesa della morte, abbandonati senza difesa alla fame che abbrutisce, alla sete che divora, alle torture, al trionfo delle malattie… Solo una cosa era insopportabilmente certa: la solitudine totale. Ciascuno doveva badare alla propria sopravvivenza senza poter contare su nessuno. Una prigioniera confessa: “Avevo deciso di vivere a tutti i costi; non contava nient’altro; per questo avrei venduto mio marito, i miei bambini, i miei genitori, i miei amici”. Un vecchio ebreo disse: “E’ proprio perché il campo è un’enorme macchina il cui scopo è di ridurci allo stato di bestie che non dobbiamo diventare bestie… Dobbiamo mantenere la voglia di vivere, per poter raccontare la verità… Dobbiamo camminare a testa alta senza strascicare i piedi… per rimanere vivi e non cominciare a morire”.
All’avvicinarsi delle truppe russe, i gerarchi SS di Auschwitz diedero fuoco ai forni e alle camere a gas per distruggere le prove dei loro delitti.
Ma cosa ha spinto un intero popolo a commettere certe atrocità? Perché? C’erano almeno dei motivi apparenti? Ecco qui un profilo molto generale della Germania. Ho preso il tutto nella prefazione de “L’amico Ritrovato” di Fred Hulman.
Nel 1918 era finita la prima guerra mondiale. La Germania si trovava, come paese sconfitto e provato dalla guerra, in grandi difficoltà. Doveva pagare ai vincitori, Inghilterra e Francia, enormi “riparazioni” per i danni di guerra; l’economia era bloccata; nel 1923 lo stato tedesco era investito da disoccupazione e inflazione crescenti; la moneta si deprezzava vertiginosamente. Questa situazione generava sfiducia nella democrazia, perché, essendo la Germania dell’anteguerra un paese prospero, molti erano portati ad attribuire semplicisticamente le difficoltà presenti al governo ora in carica, quello democratico, piuttosto che al precedente governo imperiale, che aveva portato il paese in guerra. C’era anche chi diceva che bisognava, appena possibile, fare un’altra guerra per superare le conseguenze di quella perduta. Questi discorsi provenivano dagli ambienti militari e aristocratici, il cui primato politico e prestigio sociale era stato indiscusso sotto l’impero. Nella popolazione erano diffusi rancore verso le nazioni vittoriose, senso di umiliazione per la sconfitta; inoltre scarsità di materie prime, disoccupazione, miseria nelle città e nelle campagne accentuavano la rabbia e la disperazione. Profondi contrasti sociali dividevano la nazione: tentativi di occupazione delle fabbriche da parte di forze rivoluzionarie, reazioni della borghesia e dell’esercito, scontri di piazza. Tra il 1924 e il 1929 la situazione economica migliorò. Grazie a grandi prestiti americani fu risanata la moneta, le fabbriche ripresero a lavorare a pieno ritmo, diminuì la disoccupazione, fu frenata l’inflazione. Il periodo più duro sembrava appena passato quando sulla Germania si abbatterono gli effetti di una grande crisi economica iniziata negli Stati Uniti nel 1929. Si trattò della più grave crisi che mai avesse investito l’intero sistema economico dei paesi industriali dell’Occidente. La Germania, nelle sue particolari condizioni, ne risentì in misura maggiore di altri: fra il 1930 e il 1932 i disoccupati salirono a sei milioni. Si creò perciò un clima di grande tensione sociale. Gli scioperi e le manifestazioni con cui il partito comunista e i forti sindacati legati al partito socialdemocratico pensavano di difendere le condizioni di vita e i diritti dei lavoratori colpiti dalla crisi, professionisti, commercianti, che ritenevano a ragione o a torto di esserne danneggiati, e comunque avevano paura del comunismo. Le origini della crisi erano internazionali e non dipendevano certo dalle manifestazioni organizzate dai sindacati; ma attribuire la responsabilità alle inquietudini sociali era nell’interesse degli industriali, che preferivano operai docili e sottomessi. E poiché nel sistema democratico partiti di sinistra e sindacati potevano liberamente far sentire la loro voce e organizzare vaste masse di lavoratori, agli industriali tedeschi in difficoltà il sistema democratico piaceva sempre meno. Così essi tendevano a orientarsi in favore di un sistema autoritario, imperniato anche su una politica estera aggressiva e che esigeva una Germania forte, un sistema in cui fossero i militari a decidere e si pensasse al riarmo della nazione: un modo, questo, che avrebbe permesso all’industria tedesca di riprendersi e di espandersi attraverso la produzione di armamenti. Questa situazione favorì l’ascesa del nazismo, che fino allora era stato un partito di piccole dimensioni e scarsa importanza. I nazisti predicavano il riarmo e la militarizzazione della Germania, la sua vocazione a grande potenza, e indicavano nel comunismo e negli ebrei i peggiori nemici. E siccome nel regime democratico c’era possibilità di esistere e di esprimersi per comunisti ed ebrei come per chiunque altro, la democrazia era secondo i nazisti la rovina della Germania. Il fondatore del movimento nazista, Adolf Hitler, aveva dato in un’opera famosa, MEIN KAMPF (la mia battaglia), i fondamenti del pensiero e dell’azione nazisti: negli ebrei sono concentrati tutti i mali della società; l’ebreo trama contro la nazione tedesca, e cerca di soffocarla; dall’ebraismo nascono le ideologie dannose e perverse come liberalismo, democrazia, socialismo; la nazione tedesca, così martoriata e umiliata dalla sconfitta, potrà risollevarsi solo affidandosi a un capo assoluto, che la governerà interpretando le voci più profonde e più vere del paese; la razza tedesca, la razza ariana è l’unica pura, e deve combattere con ogni mezzo per conservare questa situazione di assoluta perfezione; la Germania è troppo compressa nelle proprie frontiere e deve espandersi, cercando uno “spazio vitale” verso est, verso Polonia e Unione Sovietica; compito del nuovo stato nazista sarà preparare la razza tedesca alla conquista del mondo. Il partito nazista trovò un seguito travolgente e divenne il più forte partito tedesco. Esso crebbe strumentalizzando l’esasperazione della gente, indirizzandola contro il presunto il presunto “pericolo” rappresentato da comunisti ed ebrei. Secondo la propaganda nazista, ebrei e comunisti erano tutt’uno, cosa particolarmente assurda perché gli ebrei tedeschi erano prevalentemente commercianti, professionisti, intellettuali, uomini d’affari, insomma borghesi e quindi, per la maggior parte, anticomunisti. Ma d’altra parte si diceva anche che gli ebrei erano tutt’uno con la grande finanza internazionale responsabile della crisi e della miseria della Germania: e molta gente semplice, che soffriva le conseguenze della crisi e odiava gli speculatori, trovava soddisfazione nel credere di averli “smascherati”, di aver capito chi erano i misteriosi malfattori. Il fatto che queste due dicerie combinassero male insieme (gli ebrei sono comunisti; gli ebrei sono capitalisti) non impediva che si diffondessero. Avevano in comune una cosa che piaceva: presentavano il “nemico” da odiare come non-tedesco. Gli ebrei (che si sentivano tedeschi come tutti gli altri) venivano presentati come un corpo estraneo infiltrato nella nazione germanica per guastarla. Agli anticomunisti si diceva che i comunisti non erano “veri” tedeschi, ma ebrei. Alle masse popolari e piccolo-borghesi con scarsa preparazione politica, ma forti sentimenti anticapitalistici, si diceva che i “capitalisti affamatori” non erano veri tedeschi, ma ebrei. Così il nazismo offriva ai tedeschi l’illusione di sentirsi tutti uniti, ricchi e poveri, borghesi e proletari, contro un solo immaginario nemico: gli ebrei, forze malefiche organizzate su tutta la faccia della Terra, al lavoro per rovinare la Germania e addirittura per dominare il mondo. Questo soddisfaceva un sentimento nazionalistico molto rozzo ed elementare, ma potente, che aveva le sue radici storiche soprattutto nella storia dell’Ottocento, negli anni in cui si era formato un grande stato nazionale tedesco, in seguito alle vittorie della Prussia su Austria (1866) e Francia (1870). La brutalità del nazismo si rivelò fin dall’inizio, prima che esso conquistasse il potere, quando organizzati in squadre armate i nazisti aggredivano e assassinavano gli esponenti degli altri partiti e dei sindacati, devastavano gli esponenti degli altri partiti e dei sindacati, devastavano le sedi dei loro giornali e delle associazioni democratiche. Ma nessuno poteva ancora immaginare gli orrori commessi poi. E molti pensavano che si trattasse di un fenomeno passeggero, come di una malattia che sarebbe presto guarita. Gli stessi ebrei tedeschi non si resero affatto conto di quel che stava accadendo e la maggioranza di loro non pensò a fuggire dal paese finché poteva. Dopo che Hitler divenne cancelliere (capo del governo), nel giro di pochi mesi tutti partiti e i sindacati furono sciolti, ogni forma di libertà soppressa e gli oppositori del regime, soprattutto comunisti e socialisti, rinchiusi nei lager. Fu chiuso il parlamento; fu dato un potere totale e senza controllo alla polizia segreta (la Gestapo) e alle SS, milizie speciali che agivano come formazioni unicamente alle dipendenze del capo supremo; i magistrati e la giustizia furono completamente asserviti al nuovo potere; stampa, scuola, università, radio, cinema, tutto fu controllato e imbavagliato. Iniziò una sistematica persecuzione contro gli ebrei, prima emarginati, poi privati di diritti civili e della stessa cittadinanza tedesca, infine internati nei lager e sterminati. Fin dall’inizio Hitler preparò la guerra per fare della Germania la padrona dell’Europa e rendere gli altri popoli sottomessi o addirittura schivi dei tedeschi, definiti una “razza superiore”. Successe poi quello che all’inizio descrivevamo. Nel 1945, l’Europa contava sessanta milioni di morti, di cui la maggior parte civili indifesi. La Germani era ridotta a un mucchio di macerie da bombardamenti aerei e terrestri, perché Hitler fino alla fine non volle lasciare il potere, né permettere che il paese si arrendesse. Egli si uccise nel suo bunker solo quando la Germania fu completamente occupata dai vincitori, cioè dai russi e dagli agloamericani. Non ci fu in Germania nessuna rivolta popolare contro il regime nazista. Ci furono cospirazioni di piccoli gruppi isolati. Del più importante fecero parte un certo numero di giovani ufficiali, alcuni esponenti della migliore nobiltà tedesca, alcuni intellettuali, alcuni membri del clero. Fra gli ufficiali maturò la decisione di un attentato contro Hitler. Progettato ed eseguito da un ristretto numero di ufficiali superiori, questo consisté nel fare esplodere una bomba della baracca dove il dittatore presiedeva una riunione. L’esplosione ci fu, ma Hitler ne uscì praticamente illeso. Quasi tutti i cospiratori furono presi e impiccati.
ALICE
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FILM
NEW ROSE HOTEL
In "New Rose Hotel", ultima fatica di Abel Ferrara, lo spettatore è costretto a lottare contro l'assuefazione al cinema narrativo (poche cose succedono, e confuse), l'abitudine al normale dipanarsi del racconto e a dialoghi realistici tra personaggi verosimili. Tutto ciò che si perde in termini di identificazione, lo si riguadagna con una ricchezza espressiva che ha pochi eguali nel cinema di oggi. "New Rose Hotel" è un film sul tempo. L'esile trama di spionaggio industriale non merita che un accenno, il fatto è che ci troviamo di fronte a due uomini con un lavoro pericoloso (Walken e Defoe) e ad una donna che è pedina indispensabile del loro gioco (Asia Argento). La società cui i nostri personaggi appartengono è transnazionale, multiculturale, erratica; la vicenda è collocata in un futuro prossimo, la cui differenza con l'oggi si mostra per allusioni: detta vicenda si sviluppa secondo un tempo lineare non vettoriale, dunque il film pur aderendo ad un modello temporale rettilineo (le cose succedono una dopo l'altra) si concede numerose incursioni nel prima, nel dopo, nell'altrove, senza dare troppe spiegazioni a chi guarda. Fino ad un certo punto vediamo i nostri personaggi alle prese con uno strano tipo di rapimento; la vittima è uno scienziato giapponese che viene ripreso di continuo con la videocamera a sua insaputa, e gli inserti video si inseriscono a strappi nel tessuto della pellicola. Quando si compie il disegno criminale, allora il film torna su se stesso e prende a rimacinare le immagini del percorso fino ad allora ultimato. Nella mente di uno dei protagonisti (Willem Defoe) gli accadimenti della prima parte del film tornano ad verificarsi molte volte, come in un racconto di Borges; questo procedimento si chiama "frequenza ripetitiva" e lo si ritrova in diverse occasioni della storia del cinema, da "Ottobre" di Ejzenstein a "Out of sight" di Soderbergh. Un dialogo che si svolge tra Defoe e Walken in una camera d'albergo, si vede nel primo tempo ripreso in plongèe (dall'alto); dopo la svolta narrativa del suicidio di Walken, l'episodio si rivede da un altro angolo di ripresa, alla stessa altezza dei personaggi: ancora quelle parole, ancora quell'abbraccio, e nessun elemento rivelatore a suggerirci i legami tra il fatto e la memoria del fatto. Anche le parole dette riaffiorano, però, badate bene, secondo un ordine diverso rispetto a quello delle immagini, negando sostanzialmente l'effetto di realtà che il suono in genere contribuisce a costruire; analogo è l'uso della musica, con la riproposizione di frammenti di canzoni, secondo un uso creativo della colonna audio che richiama antenati nobili come i russi firmatari del manifesto del cinema sonoro del 1928. La dignità del frammento è probabilmente una conquista della filosofia del novecento: come scrive Mario Perniola, "la caratteristica del frammento è di non essere mai dove effettivamente è, ma sempre oltre". Un film di frammenti, allora, questo di Ferrara, che preferisce non ricomporre le parti in unità; detto così, potrebbe sembrare un gran lavoro di montaggio e null'altro, mentre invece il regista americano offre qui alcuni straordinari esempi di stile barocco, tra Lynch e Welles, con sagome da indovinare in un bagno di tinte rossonere (la sequenza del locale notturno), o con la ripresa di personaggi dialoganti moltiplicati da una porta a specchio. "New Rose Hotel" è soprattutto Godard trent'anni dopo, per quella capacità di trasformare ogni inquadratura in un problema.
American Beauty
Regia: SAM
MENDES
con: KEVIN SPACEY, ANNETTE BENING,MENA SUVARI
Un classico quartiere americano
medioborghese: tante villette con giardino, tutte in fila e tutte curate. La
rassicurante facciata di una società benestante e felice. In uno di questi
villini dal prato immacolato vive Lester Burnham. Ha quarantadue anni ed è
sposato con Carolyn, una donna in carriera molto condizionata dall'idea del
benessere e sessualmente frustata. Hanno una figlia adolescente Jane, scontrosa
e scontenta dei genitori. Lester lavora in un giornale che odia e dove nessuno
lo stima. In parole povere, la vita di Lester si trascina senza emozioni, senza
prospettive, senza speranze. Ad eccezione del rituale mattutino sotto la
doccia, che lo riempie di soddisfazioni. E ad eccezione dell'amica di scuola
della figlia, Angela capelli biondi, occhi azzurri ed un dono naturale per la
provocazione, che lui sogna sempre più insistentemente di portarsi a letto,
nonostante l'età. Mentre i rapporti con la moglie precipitano, Lester sembra
riscoprire una nuova giovinezza tra lolite, marijuana e l'improbabile amicizia
con il figlio del nuovo vicino di casa Ricky, un ragazzo che usa la telecamera
come un prolungamento dei sensi. Anche Ricky è un anima ferita. Attraverso il
padre autoritario e razzista che lo perseguita. Filma ossessivamente i vicini,
nel tentativo di cogliere ogni dettaglio delle loro vite apparentemente
soddisfatte. Apparentemente risolte nel "sogno americano". Forse
nella speranza di scoprire oltre alle paure, alle sconfitte, alle sofferenze
che si celano dietro alle pareti domestiche, anche qualche segnale di speranza,
di amore, di verità. Per restituire un significato più autentico dell'American
Beauty.
Manu Chao ex leader dei Mano Negra, si presenta nelle vesti di
solista con un cd uscito nel 1998 ma che solo negli ultimi mesi ha riscosso un
notevole successo. Le canzoni proposte in questo cd sono un ribollire di
protesta sociale, idee e lingue. Cosa alquanto inusuale infatti (non per lui),
le canzoni contenute nell'album sono in tre lingue: spagnolo, inglese e
francese. Il cd colpisce subito per la semplicità dell'arrangiamento e per i
testi delle canzoni. Clandestino il
titolo dell'album è tale non per un semplice caso, ma per il contenuto della
maggior parte delle canzoni del cd. Piacevole sorpresa sono le canzoni "Bongo
Bong" e "Je ne t'aime plus" che
incarnano l'anima leggera dell'album.
E' proprio grazie a queste due canzoni proposte regolarmente dalle maggiori
radio nazionali, che il grande pubblico si è avvicinato a questo lavoro. Esse
sono piacevoli da ascoltare e per il loro sound orecchiabile si distinguono
dalle altre e si lasciano canticchiare da subito. A parte questa piacevole parentesi il cd
offre parecchi spunti per riflettere, esso infatti racconta storie di
emarginazione, disperazione accusa verso regimi oppressivi e illiberali ma mai
in modo angosciante. I cd seri spesso
hanno quell'aria di pessimismo che li avvolge e li rende non adatti a essere
ascoltati solo per puro piacere. Clandestino invece invita a riflettere in modo
allegro, grazie a arrangiamenti semplici ma solari che non appesantiscono
l'atmosfera delle canzoni. Basta ascoltare "Clandestino", "Desaparecido",
"Lagrima de oro" tanto per citarne alcune e giungere alle
mie stesse conclusioni. Clandestino va
ascoltato e capito, ritengo che nel panorama attuale sia una ventata di
freschezza, una voce fuori dal coro, almeno per questo forse imperdibile.
Clandestino è bello e ben registrato, se ascoltato attentamente dà la stessa
gioia che dà giocare con le scarpe e i
palloni di famose ditte americane confezionate sfruttando il lavoro minorile,
diverte sì ma lascia quel non so che di amaro in bocca. Consigliato a tutti
coloro che amano pensare.
Le canzoni dell'album sono: "Clandestino",
"Desaparecido", "Bongo Bong" , "Je ne t'aime plus", "Mentira", "Lagrima de oro", "Mama call" , "Luna y sol" , "Por el suelo", "Welcome to Tijuana" , "Dia luna dia pena" , "Malegria", "La vie A", "Minha galera" , "La despedia" , "El viento".
CLAUDIO (Pezzi presi da internet)
ZIGGY STARDUST
FRANCESCO
GUCCINI.
Il cd si intitola STAGIONI, ci sono 9 pezzi (per la
verità 8, visto che il primo dura 53 secondi) e sono quasi tutti stupendi.
Stagioni è dedicata al Che ed è stupenda, ed è il singolo che magari, con un
po’ di fortuna, avete ascoltato alla radio (io l’ho dovuta cercare e dopo
mezz’ora sono riuscita a sentirla… la radio è sempre molto “libera”)… Ma il
pezzo più bello in assoluto è DON CHISCIOTTE, cantata in coppia con Flaco Biondini.
Stupendo. La voglia di cambiare il mondo, con fantasia e forza ingenua, che
guarda sempre avanti con fiducia e coraggio. Come mi sento io in questi
momenti, in questi ultimi anni e come spero mi sentirò per sempre. C’è poi “Ho
ancora la forza” che è scritta con Ligabue ed è proprio una canzone del Liga
con voce più brusca (e per me più toccante) ed è strano sentirli cantare certe
sonorità… Poi abbiamo “E un giorno…” in cui Francesco si riferisce
all’adolescente, che si rende conto di non essere più ingenua e piccolina, ma
di avere il mondo davanti, anche se fa paura. Vede suo padre lontano, la madre
non in sintonia… Fino a quando, un giorno, si renderà conto che è solo un
passaggio, che le sue stesse domande sono state poste da tutti e non hanno trovato
risposta e vedrà in suo padre un saggio, che continua a ripetere “Io ho sempre tentato”… L’ultimo
pezzo che mi ha colpito e che chiude anche il cd è “ADDIO”. Un Addio a tutta
l’ipocrisia, a tutto l’essere falso e a tutto l’apparire del mondo. Addio per
ricominciare dentro se stessi, senza essere per forza condizionati da qualcuno
o da qualcosa che non ci piace per niente. C’è poi “Autunno”, un pezzo che al
primo ascolto può sembrare brutto, ma che in realtà nasconde molti punti
poetici a suo favore. “Inverno ‘60” e
“Primavera ’59” non mi hanno colpito molto, ma solo i primi ascolti, perché
indubbiamente sono belle canzoni, solo da ascoltare molto attentamente. Da comprare e ascoltare attentamente.
Pic
non è certo il romanzo più famoso di Jack Kerouac, ma non per questo meno
bello, anzi...Veramente non è proprio un romanzo, ma piuttosto un lungo
racconto in cui i protagonisti, Pic e suo fratello Slim, affrontano un viaggio
per arrivare a New York. La storia è raccontata sotto forma di dialogo col
nonno ormai morto in prima persona da Pic, un bambino di dieci anni che comincia durante quei giorni a scoprire
luoghi nuovi rispetto alla campagna
nella quale aveva sempre vissuto:".....Ed eccoci a saltellare vicino ad
una casa del tutto normale e poi un'altra, e poi c'è tutta una fila di case
normali, e poi diventano strane, color rosso, con luci che spuntano da ogni
parte. hoo!Non avevo mai visto tante luci e vetri e colonne né tante persone camminare
su strade così belle e lisce. "Questa è la città", dice mio fratello,
e il racconto continua con un tono pieno di meraviglia e di stupore verso tutto
quello che i due protagonisti incontrano nel corso del viaggio, il mondo
descritto attraverso gli occhi di un bambino sembra qualcosa di eccezionale,
magico ma al tempo stesso spaventoso. All'arrivo a New York anche la musica
Jazz entra nel racconto, ora, infatti, si ritrova un'alternanza di ritmi tipica
del jazz, che sfortunatamente in parte si perdono nella traduzione italiana. La
parte che io ritengo migliore di tutto il romanzo è la descrizione del concerto
che Slim tiene col suo sassofono in un locale di New York. Eccola:
".......Lei rimase in piedi proprio di fronte a Slim mentre lui suonava il
suo primo numero e non si mosse fino a quando finì, e lui suonò la prima
canzone per lei. Soffiava nella cornetta, e muoveva le dita, e ti dico nonno
che fece un profondo suono di cornetta come quando si sente una barca di New
York City che di notte attraversa il fiume, o come quello di un treno, solo che
lui lo faceva diventare un suono pieno di melodia. Faceva un suono tremolante e
triste, e soffiava così forte che il collo tremava e le vene gli scoppiavano
sulla fronte, mentre suonava di fronte al piano, e l'altro uomo frustava
batteria sofficemente e con brio. E continuarono. Slim non distolse lo sguardo
da Sheila fino a metà canzone, poi si ricordò di me e guardò attraverso la
stanza e puntò la cornetta verso di me e mi suonò qualcosa di veramente extra per
farmi vedere che poteva suonare bene anche se le mani gli facevano male e non poteva lavorare in
quella vecchia fabbrica di biscotti. Poi puntò di nuovo la cornetta su
Sheila e finì la canzone piegato con la cornetta rivolta verso le
scarpe, e rimase in quella posizione. Be', sai, al bar
applaudirono tutti, ed erano eccitati anche, e uno disse : "Hai
suonato quella, figliolo" e capì che Slim gli piaceva e chiuse quel
juke-box. Sheila venne a sedersi vicino
a me , ed eccoci là proprio vicino alla finestra e potevamo
vedere le luci là fuori nella
strada bagnata, e vedere tutto il bar e
la gente davanti a noi, e la pedana perfetta. Ora Slim batteva forte con i piedi e il batterista lo
seguiva e l'alzava e soffiava con tutta
la sua forza e muoveva la testa avanti e
indietro e le mascelle lavoravano molto
e velocemente come le mani nel
pomeriggio. Fu allora che capii quant'era forte. Slim è fatto di ferro. Tutti
si dimenavano al bar ascoltandolo."Si, si, si!", strillò l'uomo al
bar, e afferrando il cappello e standoci attaccato danzò su e giù di fronte a
tutti. Sicuramente ci sapeva fare coi piedi, quel signore. Be', stava ballando
per Slim .Slim stava camminando su e giù la' dov'era e continuava con quella
jumping music più veloce che poteva. Be', insomma, proprio come quell'autobus
di cui parlavo prima. Stava spingendo la cornetta ad andare sibilando di qua e
di la', poi prolungò una nota molto alta e poi la tirò giù di nuovo, BAWP, e di
nuovo con una media, il batterista lo guardò da dietro la batteria e gli gridò
:"vai Slim". Charley stava rimbalzando sul piano con le dita distese
, BLAM, proprio quando Slim prende respiro e BLAM, di nuovo quando Slim
riattacca . Nonno Slim aveva più fiato di dieci uomini e continua così per
tutta la notte. Wow, non avevo mai sentito niente del genere, e tutti facevano
musica e rumore da soli. Sheila, lei sedeva la', e sorrideva al suo Slim e
batteva il tempo con le mani sotto il tavolo seguendo il ritmo della batteria.
Be', feci la stessa cosa e t'assicuro
che avrei voluto ballare in quel momento. "Vai, vai", gridò
quell'uomo col cappello, e tornò indietro agitando le mani per aria e disse :"Gran bel giorno
stamattina!" così forte come un vecchio corno antinebbia sopra tutto il
rumore. Whoo, era divertente. Be', ora Slim iniziava a suonare perchè nessuno
voleva fermarsi e continuò a suonare in quella cornetta finché il sudore non
cominciò a colargli giù per il viso come
la mattina quando spalava. Oh, allagò la pedana con il sudore.Nemmeno gli
mancavano le cose da suonare: tutte le volte che ne finiva una ne aveva
un'altra, aveva centinaia d'anni lui. Oh, era grande lui. Quella canzone durò
venti minuti e la gente al bar andò di
fronte alla pedana e battevano le mani a
tempo con Slim tutti uniti
in un'unica banda di jumping
music. Io potevo vedere Slim sopra le loro teste con la sua faccia nera e
coperta di sudore e come piangeva e
rideva allo stesso tempo. Solo i suoi occhi erano chiusi, e non poteva vedere
la gente, ma sapeva perfettamente che erano lì. Teneva e spingeva quella
cornetta di fronte a lui e stava dandosi da fare con la sua vita, e lo faceva
solennemente e infelicemente. E ogni tanto faceva anche ridere, e tutti ridevano con lui. Oh,
parlava e parlava con quel suo arnese e
raccontava la sua storia a me, a Sheila, a tutti. Lui aveva nel suo cuore
quello che gli altri volevano nel loro e
l'ascoltavano per un po’ di esso. Quella gente si dondolava sotto di lui, era
proprio come un'onda e lui sembrava un
uomo che creava una tempesta nell'oceano con la sua cornetta. Una volta lasciò
partire un grande nitrito con la sua cornetta
e lo prolungò fino a quando tutti strillarono per sentirne di più, e lui
ci fece un sacco di variazioni sopra fino a quando non fu più un nitrito ma un
raglio di mulo. Be', gli chiesero di continuare con quello ma si spense troppo
in alto, un lungo fischio continuato che suonava come il richiamo per cani e perforava le orecchie, ma dopo un
attimo non le perforava più, ma era la' a rendere tutti eccitati come
Slim nel tenere quella lunga nota. Ti
faceva sentir comprensione prima di
saltar giù di nuovo su una nota normale e farti ridere e saltare di nuovo ".
Federica
DUE DI DUE
“Due di Due” di Andrea De Carlo, è un libro che rasenta la perfezione talmente è scritto bene, racconta la storia di due amici, due scelte, due avventure. Le difficoltà di vivere il mondo contemporaneo e la ricerca di valori nuovi. La storia indimenticabile di un’amicizia, un romanzo intenso e profondo che attraversa gli ultimi vent’anni di vita italiana. Mi ha colpito molto il personaggio di Guido Laremi, anticonformista fino all’eccesso, fino a rinunciare a tutte le comodità, alla fama di scrittore, alla vita stessa.
DIARIO DI ANNA FRANK
“il Diario di Anna Frank”, un libro sempre attuale, e se possibile adesso ancora di più, considerando i nuovi sviluppi politici avvenuti in Austria, questo libro è senz’altro una delle testimonianze più toccanti della persecuzione antisemita perpetrata dal nazismo durante la Seconda guerra mondiale.
Anna comincia a tenere il diario nel giugno 1942:
siamo già nel pieno della campagna antiebraica, ma ancora lontani dalla
“Soluzione Finale”, di cui anche l’autrice del libro sarà, da ultimo, innocente
vittima.
Le prime pagine, infatti, descrivono una vita quasi
spensierata, comune a quella di tante altre ragazzine di condizione benestante,
allora come oggi: le passeggiate con le amiche, la scuola, le discussioni in
famiglia, il rapporto con i genitori e con la sorella maggiore.
Lettera per lettera, giorno per giorno sfilano
dinanzi al lettore gli avvenimenti grandi e piccoli di quei terribili anni:
battaglie e scontri sui fronti di guerra, notizie di vittorie e di sconfitte,
di massacri e di persecuzioni si alternano a vicende di conoscenti e di amici,
a fatti personali e privati della comunità clandestina.
Il 26 maggio 1944 Anna scrive: “È un perpetuo contrasto: un giorno ridiamo per
gli aspetti umoristici della nostra situazione di clandestini, ma il giorno
dopo o meglio, quasi sempre, tremiamo di paura e ci si leggono in viso
l’angoscia, la tensione nervosa e la disperazione.
Il 4 agosto 1944, la polizia tedesca fece irruzione
nell’alloggio segreto, deportando tutti i suoi occupanti nel campo di
concentramento.
Il signor Frank fu l’unico superstite; Anna morì nel
marzo del ‘45nel campo di Bergen Belsen, due mesi prima della liberazione
dell’Olanda; il diario venne ritrovato da Elli e Miep, miracolosamente scampato
alla perquisizione della Gestapo.
I NOMADI!
Nello scorso numero abbiamo fatto un piccolo omaggio ad Augusto Daolio, leader dei Nomadi. Ma , parlando con altri appassionati come me (una a caso.. ANY), si è pensato che fosse giusto parlare anche degli attuali Nomadi, che non hanno nulla da invidiare a quelli vecchi. Per farlo ci limitiamo a parlare del popolo nomade e di tutti i componenti del gruppo, sperando di non scrivere troppe scemate e di non essere troppo presi emotivamente dalla descrizione. Dunque, cosa hanno di diverso questi Nomadi per avere una durata così lunga (sono nati nel 1963) e un pubblico così vasto? Un pubblico fatto di tante generazioni, da signori di 70 anni a bambini di 3- 4 mesi. Una grande famiglia, dove tutti sono amici e dove tutti credono in qualche cosa. Credo che i Nomadi non siano così tanto speciali in confronto a ogni persona che ogni giorno vediamo intorno a noi. Sono semplicemente delle persone che portano avanti le loro idee in modo abbastanza coerente, cercando di rimanere gente semplice, alla mano o, come dice anche una loro canzone, GENTE COME NOI. Il pubblico è tutto formato da persone che si sentono in qualche modo diverso dalla massa, perché crede davvero in qualcosa. Il pubblico va ai concerti e non va solo per la musica. Va per conoscere nuova gente (io stessa ho trovato i miei migliori amici in concerti), per trovare quella fratellanza che ESISTE DAVVERO, non è illusione, UTOPIA. Quando una persona va a sentire i Nomadi per la prima volta rimane stupito. Bottiglie di grappa che salgono sul palco, bambini che vengono invitati a cantare, persone del pubblico che si abbracciano e si baciano e continuano a incontrare vecchie conoscenze, persone che hanno fatto 1000 km per vedersi un concerto. E poi loro, così disponibili e vicini ai loro fan, che non giudicano semplicemente come una massa di caproni che comprano i loro dischi, ma come dei veri e propri Amici. Non è raro che alcuni di questi fan diventino amici intimi dei Nomadi. Ed è bello tutto questo, perché per la prima volta ci si sente alla pari con l’artista. Poi iniziano a suonare e vedi che c’è qualcosa di diverso. Vedi che Beppe, Cico, Daniele, Danilo, Massimo e Sergio (perché questi sono i Nomadi) suonano davvero. Io la prima volta sono rimasta incantata quando ho visto Cico con la sua chitarra. Totalmente perso, dentro, passionale. E Beppe, con la sua tastiera, più volte mi ha commosso. Durante il concerto si leggono biglietti mandati dal pubblico che poi li omaggia anche di regali simpatici e soprattutto molto GOLOSI.. Credo che solo con i Nomadi si possano trovare persone sconosciute che ti ospitano a casa per la notte o ti accompagnano a casa se hai qualche problema. CI si fida ciecamente. Ed è bello. Perché credi che il mondo sia migliore, vedi che ci sono persone come te. E poi, ultima cosa fantastica di questi concerti, sono i valori che vengono insegnati. Amicizia, amore sì, ma anche tanta rabbia, rabbia per quello che non va e potrebbe andare. Si parla di Pinochet, haider, di tutti i poveracci morti per niente. E sai che non sono luoghi comuni, che quello che viene detto viene detto perché è vero e perché ci si crede. Si parla di Gino Strada, di bambini morti per niente. SI ricorda soprattutto ciò che accade. L’ultima volta che sono andata a un concerto, qualche giorno fa, Danilo (il cantante) ha dedicato TU CHE FARAI (una canzone sulla morte, su come tutto quello che fai alla fine verrà giudicato da Dio.. perché Dio paga tardi ma paga bene) a AUGUSTO PINOCHET. E non sono cose fatte per soldi, per successo. Sono cose che vengono dal cuore. Ora una piccola descrizione di ogni componente del gruppo. Non c’è un ordine di importanza, tutti hanno il medesimo valore. Mi limito a metterli in ordine alfabetico (per nome) di modo di non fare preferenze.
BEPPE CARLETTI
E’ il tastierista e quello che ha formato il gruppo, insieme ad Augusto, nel 1963. E’ nato a Novi di Modena (anche se ha vissuto per tanti anni e vive attualmente a Novellara (RE)) il 12 agosto 1946, del segno del Leone. E’ molto brusco, è una cosa che sanno tutti, ma è una persona meravigliosa, generosa e buona nell’animo. Indubbiamente sa farsi voler bene e credo che sia una persona che, se conosciuta a fonda, da tutta se stessa. Fa tutto quel che può per farti star bene, e si vede che adora suonare e fare quella vita. Per lo meno è quello che io vedo nel suo modo di fare. E’ un perno fondamentale per la storia dei Nomadi, indubbiamente. IL COMPOSITORE PIU’ GRANDE DI TUTTA LA STORIA DELLA MUSICA ITALIANA, accompagnato da qualche altro nome.. Unico difetto: è tifoso per la Juventus.
CICO FALZONE
E’ il mio preferito in assoluto, è la persona a cui tengo di più al mondo. Ma davvero. Lui è nato a Porto Empedocle (AG) il 31 luglio 1956, anche se ha sempre vissuto a Parma praticamente. E’ un chitarrista molto bravo, c’è chi dice “non eccezionale” invece per me è il maestro divino, soprattutto perché la bravura deve essere misurata anche insieme alla passione. La sua vita è la musica, ha insegnato anche in scuole e privatamente, ha suonato con Bubola e con altri artisti famosi e non. Come carattere è molto ironico, credo estroverso e mette di buon umore. Ma è anche molto dolce, sensibile (più volte lo si vede commosso per piccoli grandi gesti delle persone intorno a se), molto comprensivo, paziente. Sembra quasi perfetto, da come lo descrivo io. E infatti non riesco a trovare un difetto tangibile che non venga coperto da tutta la marea di pregi che ha dentro se. Prende la vita con allegria, si alza pensando di prendere tutto un po’ meglio, ride sempre. Ma forse, dietro a questo riso, qualcosa di più profondo c’è.
DANIELE CAMPANI
E’ il batterista del gruppo. E’ nato ad Albinea (RE) il 4 luglio 1961, segno del gruppo. E’ entrato nel gruppo insieme a Cico il 1° luglio del 1990. Molto timido e riservato, era un grande amico di Augusto e quando è scomparso ha provato un grande dolore. Ama la pesca, gioca nella Dinamo Rock e da Augusto ha imparato a stupirsi per ogni cosa. Legge molta poesia e saggistica, colleziona minerali, fossili, conchiglie e strumenti etnici.
DANILO SACCO
Voce del gruppo dopo la scomparsa del grande Ago. Una voce calda, fantastica, quasi perfetta. È’ nato ad Agliano (AT) il 6 giugno del 1965, del segno dei gemelli. E’ molto gentile, disponibilissimo, e spesse volte lo si vede dopo i concerti fermarsi ancora per qualche ora a parlare con il pubblico rimasto. Come artista è eccezionale e, almeno a mio avviso, è una delle voci più belle presenti nel mercato italiano e non viene apprezzato si dovrebbe dai media (ma questo vale per i Nomadi in generale..). E’ lui che durante i concerti parla e dice i cosidetti “luoghi comuni”. Chiamati così da persone molto superficiali, che ancora non hanno capito che sono le semplicità a portare avanti i nostri sogni.
MASSIMO VECCHI
Bassista del gruppo. Nato a Reggio Emilia il 30 dicembre del 1970, Capricorno. E’ entrato nei Nomadi nel 1998 e ha portato del sano rock nella sonorità del complesso. Canta spesso nelle serate dei pezzi dove può manifestare tutta la sua rabbia e grinta. A un primo ascolto non sempre si accetta il suo modo di interpretare i pezzi, ma piano piano lo si apprezza sempre di più. Pezzi come SANTINA e MA NOI NO! Cantate da lui portano una forte carica di adrenalina. Bassista eccelso, uno dei più grandi in Italia. Ma, come vale per gli altri, sconosciuto alla più parte della gente.
SERGIO REGGIOLI
Infine c’è Sergione, l’ultimo arrivato del gruppo. Purtroppo non so dove sia nato (so solo che è delle Marche) né quanti anni abbia, né cosa gl piaccia. So solo che gli piace mangiare, che è un bonaccione e una persona felice. Mette subito allegria, come lo si vede. E, oltretutto, è un bravo musicista. Suona chitarra, percussioni e , soprattutto, il violino. Sentire “il vecchio e il bambino” con solo violino e chitarra fa venire i lucciconi, è divino. Suona con una dolcezza incredibile, e sa incantare.
Ovviamente non sono descrizioni molto dettagliate e sono estremamente di parte. Ma le emozioni che ogni volta tutti e sei mi danno non mi permettono di essere obiettiva. Per me sono dei veri musicisti, in tutto e per tutto, i più bravi e i più presi dal loro lavoro. Anche per questa volta ho finito. Spero che ora i Nomadi vi siano entrati un po’ più dentro. Avrei voluto inserire una loro foto ma non c’è più spazio. Pazienza. VORRA’ DIRE CHE ANDRETE A UN LORO CONCERTO!!!
Se ti capita di incontrare e di conoscere qualcuno che è triste e deluso della sua vita, tu forse lo puoi aiutare. Avvicinati a lui e parlagli delle cose più belle che conosci, della fede e dei vari ideali. Fagli ascoltare le canzoni dei Nomadi, se vuoi portalo con te ad un loro concerto. Vedrai probabilmente spuntare il sorriso nel suo volto e ti sarai guadagnato un vero amico.
ALICE