Libri: LA CASA IN COLLINA
di Cesare Pavese
di Lara Cantarelli
Per tutti
quelli che, come la maggior parte di noi, vive nella propria inattaccabile
e prospera casa in collina, un invito a riflettere sulla brutalità
della guerra (di tutte le guerre), sul suo potere annichilente e accecante
nei confronti degli individui e sulla sua tragica dimensione umana che,
uguagliando nella morte “il Male, il nemico” o “un alleato”, non può
lasciare indifferenti, ma obbliga chi resta a interrogarsi sulle
proprie responsabilità di “sopravvissuto”.
La casa in
collina, scritta da Cesare Pavese fra il settembre 1947 e il
febbraio 1948, è un’opera chiave della maturità pavesiana, inserita
dall’autore (insieme al racconto lungo Il
carcere), nel volume dal
titolo Prima che il gallo canti,
biblica metafora del tradimento (ovvero del rinnegamento) dell’ideale
della Resistenza, della lotta partigiana. Strutturato in forma di
rievocazione dell’immediato passato di Corrado, il romanzo si presenta
come una lucida riflessione sulla guerra (in particolare sulla Resistenza)
e sulla posizione che l’intellettuale, come Corrado e Pavese, deve
prendere nei suoi confronti. La narrazione abbraccia un arco di circa due
anni, dal giugno 1943 al novembre 1944.
La casa in collina è un
romanzo dai toni fortemente autobiografici, che si presenta come “il
momento più chiaro e coraggioso di una autoanalisi, che solo pochissimi
altri scrittori italiani ebbero la forza di fare nel periodo
post-resistenziale”. E’ “una
confessione cruda e spietata, anche se non priva di morboso compiacimento
della propria irrimediabile impotenza, del proprio egoismo e
[...] della propria insormontabile
solitudine” (A. Asor Rosa, Scrittori e
popolo).
Il personaggio principale del romanzo è
Corrado, professore torinese di mezza età, ormai ritornato nella casa
natia, che rievoca, in prima persona, le vicende dell’immediato passato.
E’ Corrado che giudica ciò che accade intorno a lui, svelando
progressivamente, attraverso un sempre più lucido ed approfondito esame di
coscienza, i contrasti interiori originati dalla scissione tra il
desiderio innato di solitudine e la consapevolezza che i tempi richiedano
una partecipazione attiva agli eventi. E’ su questo contrasto che si fonda
la più evidente delle analogie riscontrabili tra scrittore e personaggio.
Corrado, intellettuale quarantenne, si rifugia, come Pavese, in collina
durante la guerra. Egli considera la collina “un aspetto delle cose, un
modo di vivere”, non si tratta soltanto di un temporaneo rifugio dai
bombardamenti, è un rifugio della coscienza, estraneo alla realtà storica
e lontano dai drammatici avvenimenti della guerra:
“dietro ai coltivi e alle strade, dietro
alle case umane, sotto i piedi, l’antico indifferente cuore della terra
covava nel buio, viveva in burroni, in radici, in cose occulte, in paure
d’infanzia. Cominciavo a quei tempi a compiacermi in ricordi. […]
Sotto ai rancori e alle incertezze, sotto alla voglia di star solo, mi
scoprivo ragazzo per avere un compagno, un collega, un figliolo. Rivedevo
questo paese dove ero vissuto. Eravamo noi due soli, il ragazzo e me
stesso. Rivivevo le scoperte selvatiche d’allora. Soffrivo sì ma col
piglio scontroso di chi non riconosce né ama il prossimo. E discorrevo,
discorrevo, mi tenevo compagnia. Eravamo noi due soli”.
In questo contesto, simbolo privilegiato di
rifugio e di punto di vista straniante rispetto alla realtà, comincia
l’autoanalisi, la lucida, impietosa confessione di Corrado che prende
coscienza del suo colpevole amore per la solitudine, della sua propensione
a compiacersi in se stesso, nei ricordi d’infanzia e nella ”indifferente”
natura mentre i tempi richiederebbero un’attiva presa di posizione. Egli,
infatti, dichiara: “si direbbe che la guerra io l’attendessi da tempo e
ci contassi, una guerra così insolita e vasta che, con poca fatica, si
poteva accucciarsi e lasciarla infuriare, sul cielo della città,
rincasando in collina”.
L’iter psicologico di Corrado è
quello di una coscienza costretta dai tragici avvenimenti storici e
dall’esempio degli uomini delle Fontane (di “chi è cresciuto”) ad
analizzarsi, distaccandosi con forza dall’amore per sé per scoprirsi
colpevole di avere da sempre coltivato l’ “illusione” che bastasse
“accucciarsi, lasciando infuriare” la vita.
Sarà Cate, la ragazza con cui Corrado aveva
avuto una relazione in gioventù, ritrovata alle Fontane, cresciuta e
maturata con gli anni, a richiamarlo alla realtà, ad accusarlo della sua “immunità
in mezzo alle cose”.
Cate, una donna forte come molte delle donne
amate da Pavese, si contrappone dunque alla figura di Corrado, rimasto “come
un ragazzo, un ragazzo superbo”. E’ la manifestazione della coscienza
critica dell’autore, già approdato, al momento della stesura del romanzo,
alla conclusione della sua analisi interiore. Attraverso la figura di Cate,
Pavese ripropone il processo di accusa e di problematico raffronto con la
realtà umana e storica che Corrado dovrà attraversare per giungere alla
piena consapevolezza di sé (“sei come un ragazzo…per non farle, ti
rendi le cose impossibili”).
La guerra, nei confronti della quale il
protagonista pensava bastasse “starsene soli come se gli altri non ci
fossero”, anziché prendere posizione, è percepita da Corrado come “tana
e orizzonte” della coscienza incapace di affrontare la vita adulta,
con le responsabilità e le decisioni che essa comporta. Insieme alla
presunta paternità di Dino, desiderata ma nello stesso tempo temuta come
limitazione alla propria libertà, essa costituisce l’avvenimento
fondamentale nella vita del professore, che gli consente di razionalizzare
la sua più intima vocazione di uomo che ama vivere “solo e dimenticato”.
Corrado, nonostante frequenti assiduamente
Le Fontane, luogo di ritrovo di molti uomini e donne di età diverse, resta
fondamentalmente chiuso e compiaciuto della sua “solitudine
intellettuale”, che gli consente lunghi monologhi interiori, e l’unico
personaggio con cui riesca ad instaurare una rapporto di affetto è Dino,
figlio di Cate che egli sospetta suo, nel quale egli può riconoscersi
(“vedevo me stesso”). Con Dino, Corrado si diverte a rivivere le scoperte
dell’infanzia, legate ai miti dei boschi e della terra, trasfigurati dalla
fantasia dei ragazzi.
Nel frattempo, però, la guerra si fa sempre
più aspra fino a raggiungere anche le colline:
“La collina, la Torino in distanza, la
valle, tutto zittì sotto il cielo […] mi chiesi quanti cuori in
quell’attimo cessavano di battere, quante foglie sussultavano, quanti cani
s’appiattivano al suolo. Anche la terra, la collina e la sua scorza,
dovette rabbrividire. Capii d’un tratto quanto fosse sciocco e futile quel
mio compiacermi dei boschi, quell’orgoglio dei boschi che nemmeno con Dino
smettevo. Sotto il cielo d’estate impietrito dall’ululo, capii che avevo
sempre giocato come un ragazzo irresponsabile. Che cos’ero per Cate altro
che un bimbo come Dino? Che cos’ero per gli altri, per me?”
Corrado si trova, dunque, a dovere
affrontare la realtà. Sulle colline si organizza la Resistenza ma egli è
incapace di parteciparvi attivamente, sebbene ammiri Cate e gli altri per
il loro coraggio (che ormai ha capito consistere nella volontà e nella
decisione ad agire, anziché nel “coraggio di starsene soli”, come
aveva sempre pensato). In quella circostanza egli si sente “braccato e
colpevole”, prova vegogna per i suoi giorni tranquilli.
Ha inizio, sulle colline torinesi, la
Resistenza, e la narrazione assume un ritmo incalzante. Si assiste alla
rapida successione degli eventi bellici che coinvolgono solo marginalmente
Corrado, impegnato nella ricerca di un nuovo rifugio per l’anima, oramai
messa a nudo di fronte ai suoi limiti e alla sua viltà. In questo stato di
smarrimento, Corrado ha una breve crisi religiosa (ennesima analogia tra
il personaggio e l’esperienza pavesiana) e spera, pregando, di poter “vivere
un istante di pace, rinascere in un mondo senza sangue”, di ritornare
“all’innocenza” dell’infanzia, a un mondo che non richieda all’uomo
di essere forte per sopravvivere alla crudeltà degli eventi.
La pace raggiunta in chiesa non può, però,
essere duratura, la realtà è ancora quella angosciante e incombente di una
guerra che “sembra non debba finire […] se non dopo avere
distrutto ogni ricordo e ogni speranza”.
Rifugiatosi a Chieri dopo il rastrellamento
delle S.S. alle Fontane, Corrado trascorre giorni tranquilli, ma
l’appagamento della vita religiosa viene interrotto dalla fuga di Dino per
raggiungere gli uomini impegnati nella lotta sulle colline. Questo
episodio è per il professore la definitiva conferma della sua
inadeguatezza agli eventi: “l’immagine di tutti che andavano mi metteva
la smania ma […] ripetevo: c’è tempo”.
Una mattina, trovando le S.S. al collegio,
Corrado cede dinanzi all’ineluttabile realtà e decide di spostarsi “oltre
Dora”, nelle Langhe, le sue colline natali. E’ in questo viaggio di
ritorno verso i luoghi “mitici” della sua prima infanzia e giovinezza che
si raggiunge l’apice dell’autoanalisi del personaggio (e dell’autore
stesso) che, in questa lunga via crucis, intrapresa per raggiungere
i luoghi ancora incorrotti e risparmiati dal conflitto, si scontra
dolorosamente con le immagini di morte e distruzione seminate dalla
guerra. Spingendosi sempre più lontano da Torino, città teatro della
storia, dei brutali eventi causati dalla volontà umana, Corrado attraversa
i luoghi della resistenza partigiana e vede “i morti sconosciuti, i
morti repubblichini”. Soltanto allora egli è in grado di comprendere
la dimensione umana della guerra, una guerra totalizzante, che con la sua
crudeltà e spietatezza travolge, travalicando gli schieramenti ideologici,
tutti gli uomini:
“ma ho visto i morti sconosciuti, i morti
repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un
nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a
scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno […] per
questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta,
e gliene chiede ragione”.
Con questa intuizione, che coglie pienamente
l’aspetto umano della guerra e della storia, dinanzi al quale ci si sente
impotenti, “umiliati perché si capisce […] che al posto del
morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo
dobbiamo al cadavere imbrattato” si conclude il lungo monologo di
Corrado che, dall’analisi introspettiva dell’inizio del romanzo, può
allargarsi, dopo avere fatto esperienza della storia, all’intera
condizione umana: gli uomini, i sopravvissuti, sono destinati alla
consapevole umiliazione di vivere a costo del sacrificio altrui: “vivere
per caso non è vivere. Mi chiedo se sono davvero scampato […] e forse solo
per i morti la guerra è finita davvero”.
MAIL
REDAZIONE
COLLABORA CON NOI
BACHECA
ISCRIVITI ALLA MAILING
LIST
La riproduzione del materiale dalle
pagine di LiberaUscita è libera e incoraggiata. E' gradito lasciare un link
alla nostra home page!
|