Ma tu come mi vedi?
Ricordati di
me. Il nuovo film di Gabriele Muccino che fa molto pensare...
di
Fabio Zecchi
“Ma
tu come mi vedi?”. A turno, tutti i componenti della famiglia Ristuccia,
si fanno questa domanda. Si fanno, e la fanno, al primo che gli capita.
All’altro, all’esterno. Perché vogliono sapere come vengono giudicati
dagli altri. Ne hanno un disperato bisogno, di essere giudicati, e
soprattutto di sapere l’esito del giudizio; da esso dipenderanno infatti
le loro future azioni. Sarà il giudizio degli altri a sostenerli oppure,
in caso di sconfitta, a spronarli, a dargli la voglia di rivincita, o
sarebbe il caso di dire di rivalsa, tale è lo spirito competitivo in cui
sono sprofondati i Ristuccia. O ancora, il giudizio, che in fondo già
conoscono, già sanno infatti di essere mediocri perdenti, il giudizio
servirà loro a crogiolarsi nell’amarezza e nello sconforto. Garante della
loro inettitudine. Dentro Ricordati di me, il nuovo film di Muccino,
ci sono dentro molte cose, dall’implosione della famiglia moderna
all’accusa al mondo televisivo, e al condizionamento che ha provocato
sulla nostra società, arrivando persino a dettare i sogni delle ragazzine.
D’accordissimo. Ma delle critiche, e delle recensioni, sono sempre restio
a fidarmi completamente. Alcuni sollevano la critica che la famiglia messa
in scena dall’ormai affermato regista, sia in realtà un tantino
“patinata”. Troppo alto-borghese. Forse è così, forse non in tutte le
famiglie, si urla così tanto, e alla tragedia e all’ira si reagisce in
altri modi, magari con un silenzio ancora più snervante. Si parla tanto di
“neo-neo realismo”, per i film di Muccino, ma dietro l’angolo si
intravedono lievi accenni di “stereotipi”… Potrebbe anche darsi. In ogni
caso, ognuno è libero di scegliersi la propria interpretazione. Ma è
innegabile, e le diverse critiche lo stanno a dimostrare, che Ricordati
di Me porta comunque a un confronto interiore. Muccino ha successo
perché non inventa nulla, semplicemente mette in scena noi stessi. I
nostri sentimenti. Non aggiunge nient’altro. Non racconta una storia, ma
“ci” racconta noi stessi. E allora ecco scattare l’autoconfronto con la
propria situazione. E ci si immedesima. Si notano le molte similitudini…
quanti di noi infatti si fermano a parlare davanti allo specchio alla
maschera di noi stessi, a gridare tra i denti “ce la puoi fare, ce la puoi
fare” come l’impacciato Paolo, oppure a suffragare la propria vacua
bellezza, come fa Valentina che rivolgendosi al fratello sibila “Non sono
bella e maledetta?”… Siamo noi stessi quelli che urlano e sbattono le
porte in casa, che si rincorrono da una stanza all’altra, e non si
raggiungono mai. Siamo noi stessi quelli che arrivano a odiare i propri
familiari, sangue che ti ha tolto sangue, che accusiamo di averci tolto
ogni aspirazione, soffocandole, di non averci permesso di diventare quello
che volevamo essere. Senza renderci conto che glielo abbiamo lasciato
fare, per troppa nostra debolezza… come Carlo, così insopportabilmente
inetto, o per troppa insicurezza, come Giulia… la sua mano tremante che
stringe la sigaretta ne è un memorabile concentrato… Un film vero dunque.
Vero nella sua straordinaria capacità di far breccia nell’anima dello
spettatore. Non si rimane indifferenti, ancora una volta da Muccino si
riceve un colpo al cuore. E mentre Elisa canta “…sai, la gente è matta…
forse perché troppo insoddisfatta…” si rimane fermi ad ascoltarla. Non si
tratta di qualcosa di catartico… E’ come risvegliarsi dal torpore in cui
siamo perennemente sommersi. Ci si accorge che le cose vanno bene o male
alla maniera del film, si acquisisce una temporanea consapevolezza di noi
stessi e delle nostre miserie quotidiane. Questa è la vera forza del film,
aldilà di tutto il ricco contorno, degli altri temi che vengono buttati
sul piatto. Mi riferisco alla televisione onnivora, placebo dei nostri
mali, protagonista sino alla fine. Ma aldilà di questo, la carica
espressiva del film si libera tutta nel momento che intercorre tra i
titoli di coda e l’uscita dal cinema. Silenziosi, perché consapevoli che
siamo come i Ristuccia, siamo soltanto la materia prima di cui si nutre la
nostra società per alimentare questo esponenziale ciclo di frustrazioni,
aspettative, stereotipi e falsi miti. Con questa temporanea lucidità, in
cui finalmente “capiamo”, percorriamo i metri che ci separano
dall’ingresso. E fuori dal cinema, una folata del gelido vento invernale
riporta tutte le nubi che addensavano le nostre menti. Siamo pronti per
chiederci di nuovo : “Ma tu, come mi vedi?”
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