Paolo Onofri si difende dalle infamanti accuse di pedofilia:
"Io non sono un mostro. Nel computer ci sono soltanto immagini di ragazzini come ne hanno tutti".
Non so se mi ha convinto.
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E' tutto un equilibrio sopra la follia
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Paolo Onofri si difende dalle infamanti accuse di pedofilia:
"Io non sono un mostro. Nel computer ci sono soltanto immagini di ragazzini come ne hanno tutti".
Non so se mi ha convinto.
"Stuprata a 15 anni da due uomini in un parco a Bologna" (fonte: Ansa)
"...lo fecero oggetto di lancio di immondizia e mattoni... la folla lo seppellì vivo. Ad alcuni non sembrò tuttavia sufficiente lasciarlo soffocare a morte. Invece lo dissotterarono, lo spogliarono, lo torturarono, lo castrarono, lo mutilarono e lo gettarono in strada dalle mura del convento. Per qualche tempo il cadavere venne trascinato per la città. Il corpo fu privato degli intestini, del cuore e degli altri organi interni, che vennero tagliati a pezzi e divisi tra i facinorosi. Questi li posero su bastoni, spade o quant'altro e li portarono in giro come trofei... i facinorosi andavano proclamando che volevano mangiare quei pezzi come si deve, ma alcuni addentavano direttamente la carne cruda, succhiandone il sangue." (fonte: E. Muir, Riti e rituali nell'Europa moderna)
Io non sono sempre stato Juventino. All’inizio tifavo Genoa, perché ogni volta che compravo le figurine, c’erano figurine del Genoa, così mi son detto che forse quello andava interpretato come un segno del destino. Poi però mi sono reso conto che il Genoa aveva vinto il suo ultimo scudetto nel 1899, e così, visto che non sono proprio scemo, ho scelto la Juventus.
Qualunque: ma tu non tifavi Genoa?
Chinaski: ma tu non eri morto?
E mi ci sono affezionato, chiaro. Ora, se sei della Juve, automaticamente devi odiare l’Inter.
Non ho sempre odiato l’Inter. Forse l’odio tra Inter e Juventus risale a quel famoso scudetto che abbiamo rubato nel 98, ma non credo. Per quanto mi riguarda, l’odio per l’Inter risale alla terza media.
C’era questo mio amico interista, correva l’anno 1989.
Sì. Quello lì.
Quello dei record, che l’Inter ha vinto 33 partite su 34.
E tutte le mattine, sullo scuolabus, mi dovevo sorbire questo mio amico che faceva cori da stadio. Non solo. Mi recitava tutta la formazione, tanto che ancora adesso la so a memoria. Non ci credete?
Zenga, Bergomi, Brehme, Ferri, Mandorlini, Matteoli, Berti, Diaz, Bianchi, Matthaus, Serena.
Ecco. Io e lui sappiamo che non l’ho dovuta cercare su internet.
Così, da allora io chiedo sempre due cose, a chi sa i risultati delle partite. Se la Juve ha vinto, e se l’Inter ha perso. Non mi interessa altro, entrambe mi danno il medesimo godimento.
L’apice, ovvio, è quando giocano contro.
Nella mia memoria storica di tifoso juventino, alcuni epici scontri mi sono rimasti impressi.
Tra questi, un 2-2 con doppietta di Seedorf. Solito stra-dominio bianconero, vittoria in rimonta sul filo di lana, poi questa scimmia col baricentro alle ginocchia tira una sassata a cazzo di cane, e segna. Ecco. Quella lì è una ferita mica male. Più delle sconfitte (per quanto rare).
Sono passati due anni e mezzo, e me la ricordo ancora.
Nel frattempo, c’è quella vittoria nostra, sempre a San Siro, dopo una partita senza storia.
A tempo scaduto, in seguito a una mischia furibonda assolutamente irregolare, succede questo.
L’inter pareggia con un gol del portiere.
Un gol del portiere.
Anche lì, giù sangue. E rabbia.
Oh, quanta rabbia.
Ancora adesso, se ci penso…
Ma niente, via, non gli si può dar soddisfazione: bisogna dissimulare.
Domenica sera, stavo tornando in macchina. Accendo la radio e scopro che a 15 minuti dalla fine, vinciamo due a zero. Sorrido compiaciuto. Stavolta è fatta, mi dico.
Spengo la radio, e guido. Il mio corpo comincia a produrre qualche chilo di serotonina, per brindare alla vittoria tanto attesa. Guardo Milano, grigia e piovosa, e mi immagino gli ottantamila interisti, allo stadio, tutti depressi. E quelli nei bar, tutti incazzati. E io che mi faccio una meritata passerella, lungo una città deserta. Mi sono sentito come una pattuglia militare dopo la conquista.
Per suggellare il momento, mi assicuro che Pussycopy si sia addormentata, sul sedile passeggero, e poi sibilo, silenzioso:
“Vediamo se pareggiate anche stavolta, figli di puttana”.
Il resto, è risaputo.
Non so.
Forse ci sono tanti modi di tenere un blog.
Puoi scrivere a giorni alterni, come per dare quel tanto di respiro, evitando di soffocare sotto una coltre di parole sempre più grigie.
Puoi scrivere quando ti pare, così la gente va e viene, e tu non hai quell’assillo che non devi tradire il tuo lettore, e simili stronzate.
Oppure, scrivi praticamente sempre, e quando scrivi praticamente sempre, arriva un giorno, magari dopo un paio d’anni, che hai finito gli argomenti.
Hai scritto della morte, dell’amore, della vita e della piscia. Hai scritto di tua madre, tuo padre, tua sorella e tua nonna. La tua prima ragazza, l’ultima, quelle di mezzo. Il tuo cane, il gatto e il pappagallo del vicino. Hai scritto di politica, di cinema, di libri, di mozzarelle.
Finché arriva un giorno.
Che hai scritto tutto.
Il post quotidiano è diventato un cartellino, e tu sei l’operaio frustrato da un monotono lavoro.
Se prima pensavi di essere uno scrittore del futuro, ora sei una catena di montaggio.
Io credo che ci sia un tempo.
Un tempo ben determinato, che poi magari varia per ciascuno. Forse per alcuni è un mese, per altri invece un anno. Forse dovresti sfruttare la novità e la voglia e l’entusiasmo, e poi rendertene conto.
Del fatto che hai finito, intendo.
Che hai fatto un giro completo. E da lì, c’è solo un ripetersi di te stesso, un riflusso mascherato da impulso. Risacca creativa di uno stagno putrefatto.
Non ti ci specchi più, in quello stagno.
Penso a tutte le parole che hai scritto, che ho scritto.
Dodici mesi di parole d’ogni tipo.
Niente più racconti, niente più romanzi, solo piccoli, brevi, essenziali compendi.
Certo, prima scrivevi solo per te stesso, ora per duecento lettori al giorno.
Ma non stai scrivendo letteratura. Scrivi baci perugina.
Ti sei sempre detto: il blog è una palestra.
Ora capisci che un posto dove i muscoli si atrofizzano, invece che diventare tonici, dove la tua ispirazione si sgonfia, invece di crescere a dismisura, non lo puoi chiamare palestra.
Esiste un altro luogo, che meglio s’identifica con questa cosa: la discarica.
Il blog è un cumulo di rottami e ferrivecchi. Sono tutte le tue idee solo abbozzate. Tutte le possibilità, bruciate velocemente. Ogni giorno hai fatto la spola, scaricando le suppellettili della tua vita.
Ora ti rimane una stanza vuota.
E così, dovresti accendere il tuo portatile, caricare l’editor di Splinder, un’ultima volta, e scrivere l’unica parola che ancora ti rimane: fine.
…
Ma no, lascia stare.
Tanto, neanche due giorni, e apriresti un nuovo blog su Clarence.
Sono sempre molto contento, quando vado dalla mia dentista.
Ché io, dalla dentista, ci chiacchiero. Lei mi odia perché continuo a togliermi l’aspiratore, scostando lo spruzzino con la mano, per dirle una qualsiasi idiozia fuori luogo. Però secondo me si diverte, alla fine, e forse in questo momento sta scrivendo su un multiblog di dentisti che lei è sempre molto contenta, quando Chinaski deve fare un controllo o un’otturazione, perché lei, con Chinaski, ci chiacchiera.
E infatti parliamo di tutto.
Di solito, del fatto che io sono un fallito.
Però anche di droga, sesso, amore, lettera e testamento.
L’ultima volta mi giro e le faccio, serio: “nessuna donna mi ha fatto soffrire come lei”.
Poi, mentre mi fa sorbire un discorso sul mio essere un disadattato, alienato, e che dovrei mettere i piedi per terra, io mi distraggo e penso: “bel post”.
E questo, alla fine, è il succo del discorso.
Il motivo per cui non inserirò queste righe nella categoria racconti, ma in quella mondoblog.
Perché quando hai un blog, vedi il mondo come un post.
E tutte le stranezze e i dettagli ti sembrano aneddoti divertenti, e vorresti sempre avere un portatile a portata, o una penna, o chissà che altro. Diventa una specie di malattia introflessa.
Come quel giorno che stavo in autobus e l’autobus passa davanti a un locale con la scritta “compro rottami”, e io mi sono messo a scrivere un post sul cellulare che parlava di un mio amico rottame, che avrei voluto rivendere.
Come quel giorno che mentre aspettavo di essere chiamato a un esame, tutti ripassavano e io, invece, stupidamente scrivevo. Scrivevo del fatto che stavo scrivendo, invece di ripassare.
Però, la mia dentista mi fa sempre l’effetto di una doccia fredda, e mi tiene a galla.
Lei, con il suo pragmatismo odontoiatrico.
Lei, con il suo realismo radiografico.
Lei, ricca e sposata e laureata e con il fondo pensione.
Io.
Chinaski: “sa che stanotte ho sognato una Porsche? E poco fa, nella sala d’aspetto, sfogliando il giornale ho visto la pubblicità di una Porsche. Non trova che sia…
Dentista: “trovati un lavoro, Mauro”.
Se guardi come mi hanno cresciuto, sembra impossibile che io sia tanto educato.
Mi hanno insegnato a strofinare le scarpe sullo zerbino, quando entro in casa d’altri.
Strofinare fino a cancellarne il disegno inscritto.
Mi hanno insegnato che a tavola non si rutta, anche se può essere inteso come segno di gradimento, e non si scoreggia, soprattutto perché non puoi intenderla in nessun modo, una scoreggia. È una scoreggia, e basta.
Mi hanno insegnato che si ride sempre alle battute del padrone di casa, e se proprio non fanno ridere, rimani impassibile, e quando ti chiedono spiegazioni, tu inventati riflessivo, e fai un commento arguto sul quadro alla parete, o sull’umorismo in generale.
E così, quando sono in casa d’altri, non piscio mai in piedi, ché spesso ci ho il tiro storto e firmo il pavimento a getto. Mi siedo, come una qualsiasi rispettabile signora, e prego che nessuno entri e mi veda.
Ah, sì.
Perché nemmeno chiudo la porta a chiave.
Non voglio dare la sensazione di avere segreti.
Se poi addirittura mi scappa quella grossa, perlopiù trattengo il fiato, e resisto.
Solo che.
Solo che a volte non ci puoi fare niente.
A volte saltano le convenzioni, il buon senso, le tacite regole mai scritte.
E ci vai giù pesante.
Come quando ero a ripetizione dalla mia insegnante di latino, ai tempi del liceo.
Mi dava lezioni private (leggi: mi faceva i compiti) nella sua casa lucida e pulita, lei che era una donna come quelle di una volta. Fine, garbata, al punto che io mi ero convinto cagasse petali di rosa.
Per tanti anni sono riuscito a essere un ospite ammodo.
Fino al giorno che mi sono presentato, e nel silenzio più assoluto, interrotto soltanto dai rintocchi di un orologio a muro, il mio intestino ha prodotto una specie di boato.
E poi un altro.
E un altro ancora.
Lei si ferma nel bel mezzo di Cicerone, e mi fa:
“Stai bene, caro?”
E io, sudaticcio: “Oh, sì…cioè…mica tanto”
“Vuoi andare in bagno?”.
“Corro.”
Vado in bagno, mi tuffo sulla tazza del cesso, e mi libero del mio demonio.
Era un bagno niente male. Talmente pulito e profumato che ci avrei mangiato uova al tegamino, sul pavimento. Standomene lì, raggomitolato e dolorante, mi viene da pensare che avevo ragione.
Quella donna cagava petali di rosa, probabilmente.
Lei, e tutta la sua famiglia.
Io, invece, meno.
Ancora adesso cerco d’immaginarmi la faccia che ha fatto, quando le è capitato di entrare nel cesso, più tardi, quel giorno.