Oh tu, tu che sei responsabile dei contenuti di una iniziativa video pro-raccolta fondi per i malati di AIDS, non puoi chiamarti GIOIA PISTOLA!
(il primo che dice cinica! lava i piedi a Calderoli)
Version 3.0
E' tutto un equilibrio sopra la follia
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Oh tu, tu che sei responsabile dei contenuti di una iniziativa video pro-raccolta fondi per i malati di AIDS, non puoi chiamarti GIOIA PISTOLA!
(il primo che dice cinica! lava i piedi a Calderoli)
Quando racconto di cinema ambirei al dono supremo della sintesi ma consegnare una recensione di un rigo – come piacerebbe a me – so mica se rende contento il Signor Editore. Quel che segue sono semplicemente titoli cotti e mangiati e sottotitoli, generati col Pesce Babele residente nel mio cervello. Che, a proposito, saluta tutti.
L’AMICO DI FAMIGLIA di Paolo Sorrentino
Cattiva solitudine, nefasta natura umana: il Cinema necessario
GRIZZLY MAN di Werner Herzog
Come perdere iscritti al WWF
CHILDREN OF MAN di Alfonso Cuaron
Sublimi fotogrammi in movimento e finale appiccicaticcio
MARIE ANTOINETTE di Sofia Coppola
(Ir)reali, ricche ragazze chic perse nella storia (quale?)
QUALE AMORE di Maurizio Sciarra
Quale amore? Quale prece!
IL VENTO CHE ACCAREZZA L’ERBA di Ken Loach
L'IRA funesta di Ken e del popolo irlandese
THE DEPARTED di Martin Scorsese
Bravi ragazzi, cattivi poliziotti: l'ombroso Scorsese ritrovato
UOMINI E DONNE di Bart Freudlich
Meglio i tronisti
MIAMI VICE di Michael Mann
Criminal greetings from Miami
SCOOP di Woody Allen
Non tutti i tarocchi vengono per nuocere
IL DIAVOLO VESTE PRADA di David Frankel
Il Diavolo le veste e poi le rattoppa la morale disneyana
Come raccontare/scrivere di qualcosa di estremamente generazionale, ché ogni generazione ha il proprio film di riferimento quel misto perfetto di libri-musica-film-fumetti-pruderie divorati e disciolti nei neuroni, senza essere pericolosamente nostalgici o patetici o peggio ancora accademici? Non si sa. Quel che si sa è che Clerks è stato l’American Graffiti dei nati negli anni settanta, adolescenti negli anni ottanta, ragazzotti negli anni novanta e attualmente quasi tutti precari se non lavorativamente, di sicuro sentimentalmente (e non fate gli scongiuri).
Dopo dodici anni dal folgorante primo capitolo Kevin Smith riprende i suoi commessi – bianco e nero, produzione indipendentissima, dialoghi irriverenti e disquisizioni scurrili sui massimi/minimi sistemi che gli adepti sanno citare a memoria – succede che ritroviamo Dante all’atto di aprire il drugstore Quick Stop come ogni mattina ma questa volta lo attendono le fiamme...
Così capita anche che dal bianco e nero amarcord si viri al colore e con l’amabilissimo terribile Randal (sempre devoti saremo a questo ragazzo per il suo santo cinismo terapeutico), finiscono a lavorare in un fast food gestito dalla bella Rosario Dawson.
Niente di meglio per Randal che mettersi a tormentare l’amico perché si vuole sistemare con la cheer leader di turno ma soprattutto crocifiggere impunito Elias, lo svagato-spanato-impedito aiutante. Una specie di cellino made in america che crede nell’esistenza di – prego segnate, segnate bene nelle memoria questi tre concetti/nomi – Pio Bernardo, Dio e il Signore degli Anelli. Ma altrettanto prontissimo a disconoscere i propri dogmi con una memorabile battuta (clicchi solamente chi non teme gli spoiler) se messi nella giusta relatività.
Ritroviamo anche Jay e Bob il Silente: usciti di prigione dopo essere stati pizzicati a spacciare, vivono nuovamente appiccicati al muro col loro inseparabile e truzzissimo (eh quanto tempo dall’uso corrente di tale aggettivo, finito un po’ la come lira, diremmo) stereo e che per passare il tempo s’ingegnano sino a partorire un altro rimando assai applaudito: l’imitazione del killer de “Il silenzio degli innocenti”. Da antologia la parodia geniale ad opera di Randal della Trilogia cinematografica di Peter Jackson: mentre litiga con un patito estremista opponendo che l’unica trilogia universalmente riconosciuta dai veri cinefili, è Star Wars, con l’ausilio della mimica del corpo, sintetizza i tre titoli tolkeniani consegnandoci per sempre una tesi recensiva pressochè indiscutibile. Si dirà che il resto della storia è fragilina e anche inauditamente romantica, che in alcuni punti s’innalza eccessiva sopra le righe ma capita di ridere di gusto e liberati e quasi felici sapendo che da qualche parte, stai sor-ridendo anche di te. Per fortuna.
PS capita tra le altre cose che ti siedi
in platea e che arrivi Gherardo Colombo.
Giusto lo spettatore che ti aspetteresti a un
film del genere. Eppure…
La sessantreesima Mostra di Venezia l’ho seguita in differita, come tanti cinephiles e recensori senza nota spese come me, in panoramica a Milano (poi arriva anche a Roma e a Bologna credo) e dopo aver visto 22 film, sembrerà folle, qualcosa di buono mi è rimasto.
In realtà i film inglobati sarebbero ventuno e mezzo. Durante “Fallen” di Barbara Albert, un grande freddo abortito, ho mollato sdegnata per la noia al trentesimo minuto circa e a “Retribution” (Sakebi) di Kurosawa – devo verificare parentela – un pietoso horror giapponese, mi sono addormentata senza appello. In quasi tre anni di onesta carriera non mi è mai successo. Nemmeno quando ho visto Musikanten di Battiato ché poi c’era Battiato in sala disponibile per farsi eventualmente insultare.
Come ha ben riportato Rachele, Crialese col suo “Nuovomondo” pareva il favorito. Si è preso un premio inventato che ogni tanto ciccia dal palmares, il Leone d’argento. Sono rimasta affascinata e rapita dalla pellicola. Ho davvero visto qualcosa, non solo immagini peraltro girate con grande mestiere e perizia e una storia scarna e struggente che poi è la storia di ogni persona che parte, è che proprio dei parenti così nelle foto, nei ricordi e nelle lettere di famiglia li avrei voluti anche io. Ma a pensarci li ho. Emigrarono in Argentina, nell’altra America e Crialese è come se mi avesse raccontato quello che non so di loro.
Avrei voluto vedere “Still life” di Jia Zhang-Ke, il vincitore ma la casa di distribuzione che lo ha acquistato non ha mollato la pizza. Quanto ad Amelio e la sua “Stella che non c’è” direi che oscilla tra l’onestà descrittiva del documentario e la didascalica pretenziosità ma la pervicacia del manutentore interpretata da Castellitto, colpisce.
“The Queen” a parte l’eccelsa Helen Mirren (premiata), il british humor, le meritate stilettate a Blair e consorte, è un film da pomeriggio televisivo della BBC, tivù che in ogni caso noi ci sognamo. Mi rimane oscura la ragione per cui la coppa Volpi è andata a Ben Affleck da sempre il peggiore attore sulla terra ma chi se ne frega a questo punto.
Ah a proposito, piacere, Daniela.