Una nave che si rispetti, naturalmente, possiede un capitano. Un gentiluomo, con lo sguardo malinconico, fedele solo al suo mare. Sue ospiti, tre donne molto belle. Una italiana, una francese e una greca.
Version 3.0
E' tutto un equilibrio sopra la follia
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Secondo capitolo della saga sui morti viventi di George A. Romero e forse il meno efficace dei tre (il quarto non riesco, per quanto appartenga sempre al maestro, a considerarlo parte integrante del lavoro). Nettamente inferiore a La notte dei morti viventi per l'utilizzo dei colori, che rendono meno cruenta e reale la scena. Certamente una scelta ben mirata: se il primo film voleva mettere in evidenza caratteri per lo più personali dell'umanità (complesso di Edipo, paura della società) in questo caso ci si sofferma molto più sul capitalismo e sullo sfrenato consumismo: sul bisogno di sottolineare con colori moderni la realtà contemporanea.
Forse è inferiore anche per la scarsa originalità del tema. Se il primo era totalmente innovativo (ha fatto scuola, d'altra parte) qui si ricalca esattamente la stessa vicenda. Inizia dove eravamo rimasti quasi vent’anni prima. L'umanità è perfettamente a conoscenza di quanto sta accadendo ed è presa completamente dal panico. La pellicola si apre sul set di un programma televisivo che trasmette un dibattito sulla tragedia onnipresente. Ma si nota da subito come non esista affatto un'organizzazione, né voglia di risolvere senza essere presi dal panico quello che potrebbe trasformarsi nel definitivo declino dell'Uomo.
Alla domanda cruciale: perché uccidono, gli Zombi? La risposta più chiara e concisa che l'intervistato può dare è che Uccidono per nutrirsi. Il problema però non sono davvero questi esseri immondi che si sono risvegliati. Il problema, e Romero non si stancherà mai di ripeterlo nelle sue opere, sono i vivi che continuano a non vedere la realtà. Mentre i morti cercano di sopravvivere, con l'istinto più primordiale della caccia, i vivi hanno trasformato l'intera società in un monito vivente che ripete incessantemente Mors Tua, Vita mea. Il programma tv viene trasformato in una vera e propria giungla deforme, ricca di derisioni, urla, insulti. Il cervello degli uomini è già morto in partenza. Forse è proprio per questo che si colpiscono alla testa i mostri. Sembrano utilizzare più loro l'intelletto, che noi.
In mezzo a tutta questa baraonda, un gruppo di persone cerca di fuggire con un elicottero. Due appartengono all'esercito (un bianco e un nero) e due sono giornalisti (un uomo e una donna). Poco prima di partire, i due soldati incontrano un prete senza una gamba (ricordiamo che anche nel primo episodio il personaggio del rappresentante di Dio è importante, in quanto portatore di verità) che li lascia con una scomoda quanto palese dichiarazione: Quando i morti camminano, signori, bisogna smettere di uccidere o si perde la guerra. Ma a cosa si può pensare di arrivare, in un mondo in cui è la morte a far da Regina? Gli Zombi oramai banchettano allegramente con i resti della civiltà. I Due soldati cominciano la loro fuga con lo sterminio di un'ipotetica ultima cena: decine di apostoli professano l'imminente distruzione, priva di perdono e gloria. Uccidono senza pietà, i soldati. Se poi è uccidere, questo. Stanchi, devastati, alzano ancora una volta il grilletto, verso la telecamera. Lo premono e siamo noi a perire questa volta.
Romero è totalmente negativo, ci fa intendere che nemmeno per noi, che stiamo guardano un semplice film dell'Orrore, ci sarà qualcosa denominato salvezza. Verremo uccisi. Se non dai vivi, sicuramente dai morti. Per farci capire meglio a quale deleterio stato siamo caduti, il regista ci mostra la Nostra caccia. Se i morti cacciano per sopravvivenza, noi lo facciamo per puro e semplice divertimento.
La musica, dei Goblin, da cupa e angosciante, si trasforma in una tiritera da circo, accompagnata da risa di uomini che colpiscono facendo a gara, quello che invece dovrebbe spaventarli e farli riflettere. Morte è uguale a divertimento. Niente rispetto, niente alleanza. Solo voglia di sangue. Ma la scena più famosa del film è sicuramente l'entrata nel supermercato. Un supermercato, tra le altre cose, pieno zeppo di morti che camminano. Il motivo è presto detto: ci tornano per abitudine, per loro doveva essere un posto molto importante quando erano in vita. Non credo che abbia bisogno di commentare ulteriormente questa frase che si fa onore da sola. Altrettanto eloquente è il salire sulle scale mobili dei mostri: si calpestano a vicenda. Proprio come facevano in vita, a loro tempo.
La Squadra di Fuggitivi irrompe dunque in questo supermercato e fa razzia di tutto ciò che NON serve. Perché, strano a dirsi, neanche alle strette l'uomo riesce a comprendere quali siano le cose fondamentali della vita. Volere TUTTO e subito è ciò che caratterizza il nostro secolo e ciò che ci ridurrà a dei mentecatti bavosi (è il Romero-pensiero, chiaramente). Il restante tempo del film viene vissuto in questo Tempio del Consumismo, tra razzie, divertimenti e tragedie (in fondo è pur sempre un film dell'Orrore, non tutti possono arrivare alla fine). Fino a raggiungere il classico Tocco romerico, con l'irruzione di Harleysti nel supermercato e la guerra civile tra i vivi. I Protagonisti si alleano in qualche modo agli Zombi, morte e non morte uniti per un solo scopo comune: il Potere. Potere differente: se i fuggitivi possono rappresentare velatamente il governo costituito, gli Zombi sono il Popolo, che si accontenta dei resti e ne banchetta. Romero non lascia spazio alla speranza. Gli unici due sopravvissuti (il nero e la donna, incinta) lasciano il supermercato in elicottero; il seme dentro di lei lascia intravedere una possibilità: un mondo nuovo potrebbe esser possibile. Ma è solo un diversivo.
Le ultime parole pronunciate dai sommersi e salvati sono: Quanta benzina abbiamo? - Non molta. L'esodo continua, dunque. Per quanto si cercherà di fuggire, il problema è sempre dentro di noi: nell'Io che, quando meno te lo aspetti, può trasformarsi nel più grande incubo mai concepito dall'uomo. Quell'Io destinato a deteriorarsi fino a diventare quello che, in modo molto pagano, chiamiamo Morto Vivente.
Un buon film dell’orrore, ho scritto qualche tempo fa, deve essere in grado di riportare alla luce le paure più recondite di ognuno di noi. E, aggiungo, dovrebbe trasfigurare la nostra realtà, creando così dei paradossi o uno specchio di ciò che vediamo e viviamo ogni giorno. Una sorta di satira sociale e, se vogliamo, politica. Romero, con la sua trilogia sui morti viventi ( “La notte dei morti viventi”, “Zombie”, “Il Giorno degli zombie”)ha delineato indubbiamente un profilo abbastanza chiaro della società non solo degli anni settanta, ma anche dell’imminente futuro, quello in cui oggi viviamo. Mi soffermo solo sul primo capitolo della serie, girato nel sessantotto e prima opera del regista. Ha creato letteralmente uno stile cinematografico e tutti hanno attinto e attingono dalla sua pellicola cult. Basta citare “Zombie 2”, il remake de “La notte dei morti viventi” e i più recenti “L’alba dei morti viventi” e “28 giorni dopo”. Persino Resident Evil, videogioco di successo da cui hanno tratto un film tra i più guardabili (Nel genere) degli ultimi anni, ha sicuramente da ringraziare il Vecchio George. Sarà che è stato il primo a trattare l’argomento?
Può essere, certamente però è la sola opera a terrorizzare ancora oggi. Privo d’effetti speciali, con una fotografia in bianco e nero, la vicenda avviene quasi solamente dentro una casa, diventata rifugio per sette persone disperate. Fuori, infatti, il mondo sembra impazzito. I morti sono tornati a vivere, sono pericolosi e soprattutto sono cannibali. Insomma, gli Zombie hanno invaso la Terra. Per tutto il film, di conseguenza, i protagonisti cercano di sopravvivere. Storia semplice, direte voi, quasi banale. Peccato che le cose non sono proprio come sembrano. Innanzi tutto soffermiamoci sulla figura del “morto vivente”, sull’”uomo mangia uomo”. Non è un mostro, ma è il nostro modo di campare. Non viviamo (Generalizzo, chiaramente) forse godendo del soccombere altrui? E, diciamola tutta, non siamo noi spesso i carnefici della vita altrui? La radio spiega nel film che si tratta di “Automatismo ossessivo”, quasi fossero tutti sotto ipnosi. Se vogliamo fare un parallelo con la Realtà, è ciò che capita a tutte quelle persone ormai talmente assorbite dal sistema da spingere i propri gesti verso il motto: PRODURRE – CONSUMARE – MORIRE. Una catena di montaggio senza senso, ma approvato dall’umanità. Gli Zombie, appunto. Zombie che, assai simbolicamente, possono perire solo se colpiti alla testa. Il regista ci suggerisce, quindi, che il potere, la massa (chiamiamolo come vogliamo) è poco intelligente e con la forza del singolo è possibile abbatterlo. La forza del singolo è rappresentata dai sette superstiti, quelli che non si sono arresi, quelli che uniti possono creare la rivoluzione. Peccato però che esista qualcosa chiamato: “Guerra fra poveri”. E’ vero, non siamo arrivati a mangiarci l’uno con l’altro, ma siamo in gara per ottenere quanto più potere possibile. Abbiamo l’uomo con ego di superiorità e il nero che si sente capo nell’animo. Il gruppo quindi è portato a dividersi in due fazioni che apparentemente collaborano ma, in realtà, attendono solo un passo falso per avere supremazia. Insomma, se il potere riesce a dividere, il nemico vince. Gli Zombi prenderanno il sopravvento. Perché, si sa, ogni divisione di razza, credo e politica, altro non è che un miraggio e inganno, solo un qualcosa creato ad arte per metterci gli uni contro gli altri. Infatti, durante il film anche i superstiti si ammazzeranno a vicenda, per il predominio di una semplice casa disabitata. Allucinante se ci si pensa, ma reale se si contrappone la nostra società. Persino tra “amici” non si può mai voltare le spalle se non vogliamo essere pugnalati.
Per quanto sia strano a dirsi, amore e amicizia non legano spesso insieme. Tutti noi cerchiamo un compagno (o una compagna) che possa completarci e con cui potere parlare proprio di tutto, ma nessuno penserebbe ad una relazione con il suo migliore amico. Difficile da spiegare. Come se l’amico non possedesse una sessualità, quasi fosse un cartone animato. Ma, in qualche caso, può un’amicizia decennale nel grande amore della nostra vita? Nella realtà non lo so, ma nel campo cinematografico l’esempio per eccellenza è rappresentato da Harry e Sally. Harry e Sally, incontratosi mille volte nell’arco di dieci anni e odiatosi sempre più, senza motivi ben precisi.
"Helen ha piegato il tovagliolo". Quanto può essere importante un gesto semplice come questo, consueto, automatico, ovvio? E' degno di nota, è possibile pronunciare questa frase con enfasi, con le lacrime sgorganti, con una prospettiva del futuro più ampia e lucente? Naturalmente sì, se a pronunciarla è la mamma di Helen. Se è il risultato di ore ed ore di lotta (metaforicamente riassunte in nove minuti), di anni di isterismi e di insensibilità cieca.
Helen è una bambina, cieca, sorda e, conseguentemente, muta. E' figlia di una borghesia medio ricca, in anni in cui psicologia e pedagogia, probabilmente, non potevano fornire soluzioni semplici ed efficaci per confrontarsi con patologie di questo genere. Vive in casa, lasciata a sè stessa. Non c'è comunicazione, nè sembra che Helen la desideri. Non ha nessun tipo di educazione, ogni suo capriccio viene soddisfatto scambiando la pietà estrema in libertà. In realtà, tutto questo viene percepito dalla bambina con ostentata indifferenza, e la violenza è l'unico linguaggio da lei assimilato. Fino a quando, nella sua esistenza, entra Anna. E' una ragazza problematica, ha subito nove operazioni agli occhi ed ha vissuto insieme a un fratello storpio. I suoi ricordi le permetteranno di avvicinarsi ad Helen, fino ad adottarla e diventare sua Madre, nel senso più profondo del termine. Perchè Madre non è colei che ci da la luce, ma colei che ci insegna l'amore, la vita. La parola può riassumere ciò che noi stessi siamo. Senza di essa, scompare anche la nostra individualità.
Il film è annichilente. La violenza colpisce lo spettatore. Helen, per lo meno, è immune al rumore, ma noi no. Le urla, gli oggetti rotti, rendono ogni scena insostenibile. Helen non vede, ma noi dobbiamo superare gli spaventi per i gesti inconsulti, per quelli troppo veloci e improvvisi. O per quelli di Helen, che si muove a scatti, probabilmente perchè non possiede nessuna idea, nemmeno artefatta, di se stessa. Helen è perfetta estranea per gli altri, ma anche per se stessa. Anche noi non riusciamo a provare nè quella pietà che la madre le regala, nè quell'affetto crescente di Anna. Solo quando pronuncia, come grazie a un piccolo miracolo, la sua prima parola ("Acqua") cominciamo a capire che si tratta di una persona viva. Prima di quel momento, era il dolore protagonista della vicenda. Non la persona che lo provava.
La violenza non è solo fisica. Una persona è violentata pur mantenendo l'integrità che la natura ha donato. Ma mai avevo trovato una descrizione tanto realistica del concetto. Non accade nulla, eppure l'indignazione sale. Una bambina bistrattata, non valorizzata, insultata. Non comprende, certo, non con le parole. Ma in quel buio la sofferenza deve essere lancinante, sempre sola, sempre inascoltata.
Non riesco a perdonare nemmeno Anna, per la verità. Quei nove minuti di cui parlavo all'inizio, sono distruttivi. Helen si rifiuta di sedersi a tavola, quindi Anna le insegna l'educazione e, soprattutto, le fa comprendere chi comanda. Nove minuti di piatti lanciati in aria, di urla e di capricci portati all'estremo, di sberle e tirate di capelli. Ma, come vi ho già detto, alla fine "Helen ha piegato il suo tovagliolo". Sì, ma a che prezzo? Insegnare l'educazione con la violenza? Inculcare educazione PRIMA di arrivare ad assorbire il male impregnato in lei? A che pro? A che serve, soprattutto? E come avrà vissuto, Helen, da dietro il suo muro di silenzio?
Ma Anna, naturalmente, non è solo quello. E' colei che le insegna le espressioni del viso, colei che le regala fiducia e le insegna l'esistenza. Che le restituisce quella dignità negata in partenza. Colei che diventa la sua Maestra (e non è un titolo che si regala...). Acqua è vuota parola. Ma quando "Acqua" è associata a qualcosa di freddo o di caldo, che scorre, che ha una sua consistenza... quale mondo racchiude!! Acqua, ramo, terra, cielo, mare....
Helen uscirà dal suo silenzio. Forse, dal Buio, Mai.
Il vagabondo è innamorato.
E' rimasto rapito, vedendola. Una piccola, dolce fioraia.
Cieca.
Non si rende subito conto del fatto che non veda. Ma è proprio n quel momento, quando le raccoglie il fiore che le è scivolato per terra, che perde la testa per lei.
Tanto da trovare un lavoro. Da aiutarla nei suoi problemi con l'affitto. Tanto da rubare per lei e finire in galera, per permetterle di operarsi agli occhi. Così vedrà. Anzi, lei aggiunge, LO vedrà.
;a il volto del vagabondo, a queste parole, si impaurisce.
Forse è meglio che lei non sappia.
Perchè non si tratta di un milionario, come pensa. Perchè non è bello e distinto, come sicuramente immagina. Lui è Charlot. Con i pantaloni troppo larghi, la bombetta e il bastone. Lui non è ciò che desidera.
Ma per lei, questo e altro.
Uscito di prigione, tristemente, si aggira per la città. Due ragazzi lo deridono. Abbassa gli occhi... e vede dei fiori.
E pensa alla sua piccola e dolce fioraia...
Ma lei è lì. Lo guarda e ride. Ride di lui.
Rimane inebetito, con un sorriso, sincero, felice. Lei vede. Ed ha un negozio tutto suo. E poi, soprattutto è bellissima. Tanto bella. Ma non può toccarla. Non può farsi riconoscere. Non così, non lì. Non con lei che ride.
Lei esce, per regalargli dei soldi e un fiore. Ride ancora.
Lo tocca. A quel punto, tutto si ferma. Capisce. E' il gentiluomo. Colui che ha sempre desiderato incontrare. Lui è lì. E il suo sorriso diventa ancor più dolce.
... Luci della città è uno di quei capolavori che Chaplin ci ha regalato. Una storia d'amore dolcissima e tremenda, nella sua semplicità. Un film muto, nonostante fossimo negli anni del sonoro (ma Chaplin lo odiava... credeva sarebbe stata "una moda passeggera").
Quando la parola fine campeggia sul video, non si può non chiedersi "Ma cosa succederà, ora? Lei lo potrà amare?".
Ma no, il sorriso di lei non era d'amore. Forse di sorpresa... ma non d'amore...
... Meraviglioso.
Quando racconto di cinema ambirei al dono supremo della sintesi ma consegnare una recensione di un rigo – come piacerebbe a me – so mica se rende contento il Signor Editore. Quel che segue sono semplicemente titoli cotti e mangiati e sottotitoli, generati col Pesce Babele residente nel mio cervello. Che, a proposito, saluta tutti.
L’AMICO DI FAMIGLIA di Paolo Sorrentino
Cattiva solitudine, nefasta natura umana: il Cinema necessario
GRIZZLY MAN di Werner Herzog
Come perdere iscritti al WWF
CHILDREN OF MAN di Alfonso Cuaron
Sublimi fotogrammi in movimento e finale appiccicaticcio
MARIE ANTOINETTE di Sofia Coppola
(Ir)reali, ricche ragazze chic perse nella storia (quale?)
QUALE AMORE di Maurizio Sciarra
Quale amore? Quale prece!
IL VENTO CHE ACCAREZZA L’ERBA di Ken Loach
L'IRA funesta di Ken e del popolo irlandese
THE DEPARTED di Martin Scorsese
Bravi ragazzi, cattivi poliziotti: l'ombroso Scorsese ritrovato
UOMINI E DONNE di Bart Freudlich
Meglio i tronisti
MIAMI VICE di Michael Mann
Criminal greetings from Miami
SCOOP di Woody Allen
Non tutti i tarocchi vengono per nuocere
IL DIAVOLO VESTE PRADA di David Frankel
Il Diavolo le veste e poi le rattoppa la morale disneyana
Tutti, ma dico tutti, hanno visto Psyco, il celebre film di uno dei registi più importanti della storia del cinema (posso non scrivere il suo nome, visto che sicuramente ne sbaglierei l'ortografia?).
Ma il vero quesito del giallo/thriller non è "chi sia la donna sepolta nel cimitero, se non è la madre di Norman Bates".... nè dove siano finiti i quarantamila dollari...
La vera domanda è:
Perchè sia Norman Bates che l'investigatore privato continuano a uscire e a entrare dalle macchine passando per il sedile del passeggero?
La porta "giusta" è perfettamente funzionante, anche perchè si tratta di due automobili differenti.
Possibile che sia questione di inquadratura? Da un genio come Alfred?
E poi... Come fanno a sparire ben 4 automobili in uno stagno?
Cacciari l'ha presa con filosofia, commentando che la differenza sta nel fatto che a Roma hanno il Papa. E Veltroni. [Le malelingue poi dicono che là Veltroni ha pure Berlusconi, qualcuno sa perchè]
Solo la smettessero di dire che è "solo" una festa e che "non c'è nessun tipo di competizione".
Verità è che anelano da anni a "farci la zucca", come si dice da queste parti, e se il governo li aiuta ancora un po' come sta strenuamente cercando di fare visto la nostra scarsa tendenza alla paritocrazia, può anche darsi che ce la facciano. Avessero il buongusto di dirlo ad alta voce almeno la cosa avrebbe quasi una parvenza onesta.