Archive for the 'Racconti' Category

Page 3 of 11

Il non più giovane Holden.

[Dedicato agli incompresi.
Ai giovani che sono diventati vecchi
tra ipocrisia, false ideologie, politica e retorica.
Dedicato a chi si consuma dentro a un bar.]

Il non più giovane Holden sta ritto sotto la pensilina della fermata dell'autobus: ha i capelli lunghi e lisci e baffi da spagnolo. Le ragazze si girano a guardarlo perché sembra Johnny Depp. Il non più giovane Holden tira su col naso e si strofina le narici con l'indice e il pollice: assomiglia a Johnny Depp ma perfino lui ha capito che i baffi da spagnolo, che i capelli lisci e compagnia bella non gli salveranno la vita; perfino lui, che non sa niente del mondo perché non gli vuole fare questo favore, ha capito che Johnny Depp senza Tim Burton oggi farebbe il commesso della Feltrinelli a Largo Argentina. Lui no, lui assomiglia a Johnny Depp, lui non è Johnny Depp: lui non ha bisogno di Tim Burton per essere qualcuno. Lui non ha bisogno di essere qualcuno. Lui non è nessuno. Non gli serve una benda da pirata sull'occhio: lui lavora da Vobis a Piazza Mancini, assembla i computer e consiglia schede grafiche ai ciccioni brufolosi che vogliono giocare a Warcraft come dio comanda. E sniffa cocaina.

La cocaina la prende a Via dei Volsci il mercoledì sera, il giorno in cui i cinema sono pieni: lui spende così i suoi soldi, lui non ne vuole sapere. Lui i soldi che non butta in benzina li investe in cocaina a Via dei Volsci. Il non più giovane Holden sniffa, assomiglia a Johnny Depp, tutte le ragazze si voltano a guardarlo: una volta gli è andata male ed è stato ricoverato per quattro settimane. Da allora non ha mai più cambiato angolo. Il non più giovane Holden ce l'ha con le autorità perché proibiscono tutto alla povera gente: il non più giovane Holden, che assomiglia a Johnny Depp e sniffa cocaina, sostiene che la liberalizzazione totale delle droghe, leggere e pesanti, converrebbe soprattutto allo Stato che otterrebbe in questo modo una schiera di elettori rincoglioniti e contenti che non avrebbe più tempo e cervello per considerare l'operato dei politici. Perciò si droga. Il non più giovane Holden. Per non pensare. Per non considerare. La cocaina un po' se la fuma un po' se la sniffa. Sul lavoro, da Vobis, a Piazza Mancini, i ciccioni che vogliono giocare a Warcraft non si accorgono di niente e tornano soddisfatti a smanettare sulla loro droga al silicio: lo stipendio gli arriva puntuale ogni mese. Dentro una busta gialla. In contanti. In nero.

Alle otto di sera il non più giovane Holden torna a casa. Dai genitori. Perché una casa in affitto costa troppo. Torna a casa dai genitori a via della Balduina e cena in silenzio senza appetito. In bagno gli scende il sangue dal naso e lui rovescia la testa all'indietro come per una risata esplosiva, solo che non c'è niente da ridere: quando torna a guardare il proprio riflesso nello specchio gli sembra che quello non l'abbia seguito nel movimento ma sia rimasto a giudicarlo con severità. "Che vuoi?", gli dice il non più giovane Holden. Al rilfesso. "Che vuoi? Ci tieni o no ad assomigliare a Johnny Depp?".

Il non più giovane Holden è bello, ha i baffi da spagnolo, assomiglia a un attore famoso di Hollywood. Sul 2 tutti lo guardano, anche gli uomini: gli uomini, soprattutto, sono affascinati da ciò che piace alle donne. Sono affascinati e disgustati e per tutta la corsa del tram cercano un solo motivo per non desiderare di essere come lui. La maggior parte di loro si convince che uno che assomiglia a Johnny Depp non può essere anche intelligente e che l'intelligenza, al giorno d'oggi, è qualcosa che non puoi barattare con la bellezza. Così si regalano la loro concessione quotidiana: chi non si droga deve trovare un altro modo per arrivare alla sera senza impazzire.



Il non più giovane Holden prende il 2, prende gli autobus, tira su col naso tutto l'anno. Il non più giovane Holden non può guidare perché la patente gliel'hanno ritirata: ha messo sotto un passeggino che era stato spinto nonostante il rosso pedonale. Il passeggino è sfuggito dalle mani della mamma e ha fatto un volo esagerato finendo nel Tevere. Il non più giovane Holden è uscito dalla macchina e si è piegato sulle ginocchia sulle strisce pedonali: il non più giovane Holden, allora, portava i capelli legati con un elastico rosso. Il cofano della sua Audi era accartocciato e il tratto di asfalto di Lungotevere, tra lo Stadio Olimpico e il Ponte Duca d'Aosta, bagnato e scivoloso e sembrava assorbire i suoni del mondo, tutti i suoni tranne uno, il pianto del bambino in braccio al padre. Il padre del bambino. Aveva gli occhi talmente spalancati, l'uomo, che un altro po' e i bulbi gli sarebbero colati sulle guance. Allora gli avevano tolto la patente, gli avevano fatto le analisi del sangue ed era risultato pulito, pulitissimo, solo che la presenza in macchina di tre bottiglie di Moretti vuote risalenti forse all'estate precedente avevano fatto eccitare i titolisti della cronaca locale: le diciture "alcolizzato" e "ubriaco" avevano fatto piangere sua mamma. Il tg regionale, inquadrando il piccolo adesivo "S.S. Lazio" sul parafango della sua auto, aveva intervistato un esperto sociologo in merito al fenomeno degli "Ultras": la vicinanza allo stadio, secondo il luminare, era stato l'elemento che aveva "suggerito all'Ultras il delirio di onnipotenza". Il processo è ancora in corso e il bambino adesso ha quattro anni e va pazzo per i gianduiotti e Bart Simpson.

Il non più giovane Holden lavora da Vobis senza contratto, guadagna in nero e aiuta i ciccioni ad aggiornare il computer al massimo livello possibile. Non ha mai messo piede in uno stadio di calcio. Coi genitori non parla più da quando quella carrozzina vuota è volata nel Tevere davanti allo stadio Olimpico: non è mai riuscito a convincerli che non era ubriaco. Se i giornali lo hanno scritto, se la Tv l'ha detto, sono convinti loro, allora deve essere vero.

Il non più giovane Holden abbassa tutti e due i finestrini. Guidare gli mancava e anche la Salaria. Il palazzone di Sky gli sfila via sulla sinistra, mette la freccia, scala di marcia: non s'è dimenticato come si fa. D'agosto è più facile farla franca: meno controlli, meno gente. Usa sempre lo stesso metodo: appena ne trova una che gli piace, si ferma e domanda il prezzo. Poi si fa un altro giro per rifletterci su e se quando torna sul posto lei è ancora lì allora la fa salire. Si chiama Merlin, che nome del cazzo, è rumena e ha 24 anni: con 30 euro te la scopi in macchina. Sa perfettamente dove andare e infatti ci va: durante il breve tragitto lei cambia le frequenze alla radio e dice banalità sul caldo. Canticchia una canzone di Jovanotti: il non più giovane Holden la guarda mentre non se ne accorge. A macchina ferma non perde tempo: per lei è solo lavoro. Sul pianale dietro al volante sistema una confezione di kleenex umidificati, un pacchetto di fazzolettini normali, da naso. Poi tira indietro il proprio sedile senza domandare come deve fare, si infila in bocca una gomma americana, si sfila le mutandine e scarta il preservativo. Il non più giovane Holden le dice che anche lui ha qualcosa da scartare e lei sorride, perché il cliente ha sempre ragione, solo che non ha capito e quando lui tira fuori una bustina di carta stagnola con dentro polvere bianca, invece che il cazzo, Merlin si tira indietro sul sedile come se avesse visto spuntare un fucile, e dice no no no, quella roba no io, no. Il non più giovane Holden insiste, col sorriso sulle labbra da Johnny Depp, tira fuori dal vano portaoggetti la confezione di un cd e la usa come pianale di lavoro. Merlin insiste: lei non lavora così, non le piace. Ma come, dice il non più giovane Holden, canticchi Jovanotti e poi ti indigni per un po' di coca? E intanto continua a preparare, come se la troia non esistesse nemmeno, come se il suo dissenso fosse sperma già colato dentro un preservativo. Ma la troia esiste eccome e forse fa la cosa sbagliata, perché rimette dentro la borsetta i ferri del mestiere e allora il non più giovane Holden la prende per un polso e si gira tutto verso di lei, però stando accorto a non disperdere la polverina in giro. L'ha già fatto, sa come si fa. Le dice di guardarlo in faccia, le dice, guardami in faccia, guardami in faccia. Però intanto stringe più forte e le ossa sottili del polso scricchiolano come fieno bagnato. A me non mi piacciono quelle come te, però mio padre dice che mi devono piacere per forza perché lui ha faticato una vita intera, così mi dice, si è fatto il culo per cinquant'anni e allora a suo figlio, cascasse il mondo, gli devono piacere le donne, hai capito come mi dice mio padre? Non ne vuole sapere mica di quello che voglio io. Così digrigna il non più giovane Holden, prima di zittirsi del tutto. Quando le lascia il polso, due cose rimangono dentro l'abitacolo: i segni bianchi sulla sua pelle che si asciugano mano mano che il sangue ritorna a scorrere e gli occhi spalancati dal panico. Sono gli occhi circondati di rimmel di una puttana che è abituata ad essere picchiata e lasciata livida in un angolo e sa riconoscere gli istanti che precedono le botte. Il non più giovane Holden deglutisce e dice qualche altra cosa a voce troppo bassa. Merlin non ha reazioni: guarda e aspetta il momento di saltare fuori. E' abituata a farlo: rotolare ai lati della Salaria. Il non più giovane Holden si tira indietro i capelli dalla fronte e si china sulla confezione del cd per aspirare la polvere bianca. Mentre aspetta con gli occhi chiusi sente un rumore secco e poi tanti piccoli rumori che spariscono in lontananza: adesso è solo in macchina. Al centro del sedile del passeggero c'è un preservativo ancora arrotolato e una borsetta da donna. Cerca di ricordare. Prende la borsetta che non contiene niente a parte altri preservativi, un pacchetto di sigarette, due accendini e un calendario, la annusa, tirando su col naso a fondo per la seconda volta in pochi secondi, e poi si masturba spargendo il suo seme dentro la borsetta di pelle finta. Quando torna sul posto dove ha caricato Merlin, lei non c'è più: al suo posto ci sono altre tre o quattro ragazze che lo guardano in cagnesco e quando fa per rallentare gli lanciano addosso dei piccoli sassi. Non vogliono ferire, non vogliono offendere, non vogliono mettersi nei guai: vogliono solo lasciare intendere che sanno. E che non permetteranno.

Lo capisce Anche lui fa così col padre. Gli lascia intendere che sa, conosce la sua rabbia. Gli fa capire che non lo perdonerà. Il non più giovane Holden assomiglia a Johnny Depp, gli piace tirare di cocaina, prova a farsi piacere le donne a forza di scoparsi puttane. Il non più giovane Holden lavora da Vobis a Piazza Mancini e il sabato pomeriggio, quando ritorna a casa un po' prima del solito, non trova nessuno ad aspettarlo perché entrambi i genitori sono a Messa. La Santa Messa. Vanno a messa il sabato sera e poi la domenica mattina: il padre si prende la Comunione tutte le volte e quando torna al posto masticando piano domanda le sue preghiere al Padreterno. Il non più giovane Holden sta sulla Salaria, sta cercando Merlin, le vuole parlare, le vuole far capire. Merlin è sparita, Merlin adesso ha paura. Il non più giovane Holden vorrebbe tirarsi su la camicia e farle vedere la cicatrice longitudinale che si porta sul fianco destro: il ricordino di papà. Papà è frustrato, papà prega il Padreterno, gli dice: Dio onnipotente fai che mio figlio porti una donna a casa, soltanto una volta, ma il Padreterno non lo ascolta, allora papà aspetta che il figliolo vada a farsi la doccia e mentre è nudo e indifeso lo immobilizza sotto il getto d'acqua calda e lo minaccia con il coltello per tagliare il pane. Il non più giovane Holden si porta il ricordino di papà tutti i giorni dietro e anche papà se lo porta dietro tutti i giorni, a messa, sull'inginocchiatoio, nel confessionale. Il non più giovane Holden è bello, le ragazze lo guardano. Lavora da Vobis a Piazza Mancini e gli hanno ritirato la patente perché hanno deciso che è un Ultras: cena sempre coi genitori a casa, perché al padre dà fastidio e a lui piace che suo padre provi fastidio. Suo padre se lo merita di mangiare insieme a lui. La Salaria gli mancava. Gli mancava il vento in faccia. Il non più giovane Holden passa di nuovo vicino al palazzone di Sky, scala di marcia, mette le freccia. Merlin non c'è più: sarà andata a casa, sarà andata a farsi una doccia. Sarà andata a farsi colare di dosso tutti gli altri uomini che le hanno ansimato sopra. Prima di girare per la tangenziale Est guarda un'ultima volta nello specchietto e le vede ancora lì, in fila, tutte ad aspettare il prossimo clistere di carne che le nutrirà trenta euro alla volta: chissà, il non più giovane Holden si chiede, dov'è che vanno le puttane quando la Salaria è ghiacciata.

[Liberamente ispirato da questo fatto di cronaca realmente avvenuto]

Conoscere gente sul treno

binario.jpgOgni mattina sul binario quattro ad attendere il treno, quasi sempre puntuale, ci sono le medesime persone. Nessuna di loro apre bocca con il vicino o un passante, immersa nei propri pensieri, nel battito di una canzone scandito tra le cuffiette alla moda bianche, nelle pagine di un romanzo che non può attendere, nelle tristi notizie di un giornale che parla di furti e morti per nebbia. Alle otto e trenta precise, ogni giorno, il gruppo di pendolari per studio o per lavoro si ritrova nella stessa stazione, entra convintamente per la porta principale, si tuffa nel sottopassaggio fino all'altezza del binario numero quattro, operando infine una determinante scelta di campo. Le due rampe di scale che risalgono in superficie segnano il confine tra il gruppo che ogni mattina sceglie la metà sinistra del binario, e quella che opta per la destra, senza mai cambiare la propria scelta, quasi fosse politica o legata a riflessioni profonde.
Io milito nella squadra di destra, se non altro per la convenienza forse ovvia di essere in testa al treno andando a nord, scendendo così più vicino alla stazione di arrivo. Scelta così banale da non farmi capacitare la scelta del ramo di sinistra per un pendolare qualsiasi delle otto e trenta, andando il treno in una sola direzione. Dev'essere una questione di abitudine tra chi, fin dai tempi delle medie, saliva sul pullman correndo per accaparrarsi i posti nella loggia in fondo, notoriamente la più chic per chiacchiere e quantità di ragazze, e chi si affrettava ad occupare quelli di testa perchè soffriva il viaggio. Lo sfigato insomma.
E allora eccoli qui sfilare davanti ai miei occhi, gli "sfigati" del binario quattro, indossare sempre uguali giorno dopo giorno la maschera del loro Personaggio, quasi fossero veri e propri attori che recitano la parte ogni mattina, perchè la vita del pendolare è per eccellenza ripetitiva e monotona e sembra un po' che tutti si siano calati nella parte.

Maria, 40 anni timidi e solitari, capelli lunghi, neri e sporchi, raccolti in una lunga coda sempre uguale. Gli stessi pantaloni, le stesse scarpe, la stessa giacca a vento sportiva tutto l'inverno che chissà ormai quanto puzza. Arriva trafelata con la sua mountain bike che parcheggia nel mare di catorci all'uscita della stazione, cuffione nere sony nelle orecchie, collegate anacronisticamente ad un walkman a cassette. Cascasse il mondo Maria sale sul primissimo vagone e la sua preoccupazione non è tanto trovare un posto quanto procurarsi una copia di qualche free press abbandonata sui sedili o perfino in terra. Scandagliato l'intero vagone alla ricerca del trofeo sorride tronfia con la sua copia stropicciata in mano e si siede dove capita conciliando lettura e musica.
Maria lavora a Mestre, in una toelettatrice per cani, dove viene sfruttata per uno stipendio misero in uno sgabuzzino pulcioso, sufficiente per la sua vita pendolare e la convivenza prolungata con i genitori. La sera, inforcata nuovamente la bicicletta, fa rientro nel suo appartamento, dove la stanza ancora tappezzata di poster di quando era giovane, l'accoglie per un poco di conforto prima della nuova giornata piena di stress. Mai un'espressione felice, sul viso rugoso nonostante l'età, se non in quell'attimo in cui si aggiudica il suo ritaglio di notizie quaotidiano, il suo cordone ombelicale con il mondo che gira veloce, fuori della carrozza numero uno.

Michele è una persona riservata e gentile. Un uomo d'altri tempi garbato e vestito di tutto punto, sia con pioggia che con il sole. Svolge il suo compito con meticolosità, dal giorno in cui l'hanno chiamato a Padova per una cattedra alla facoltà di Economia: zainetto in spalla con libri e ombrellino portatile, gilet e occhiali da sole, talvolta un cappello da uomo, quasi più un ometto in gita che un professore. E' benvoluto dagli studenti che vedono in lui una persona onesta, seppure agli esami non faccia sconti a nessuno, tantomeno alle rampanti padovane che esibiscono la mercanzia sperando in qualche sconto. Il prossimo anno verrà assegnato altrove e cambierà città, treno, aria. Forse sceglierà il lato sinistro del binario in un impeto di ribellione verso la sua vita ordinata.

Giulia è una studentessa di Padova minuta e piena di ricci. Il viso duro le conferisce un'aria attenta e corrucciata, talvolta celata da giganti occhiali da sole alla moda. Abbina scarpette trendy a borsette originali e colorate da mercatino, alla lettura di romanzi pesantissimi e saggi sociologici da pochi soldi, dovuti forse agli studi, per antonomasia in Psicologia. Le parole Studentessa, Padova e Psicologia rappresentano forse il più grande clichè del mondo accademico italiano dopo Studente, Bologna, Nonfauncazzo.
Giulia ha un iPod nero, al quale ha abbinato cuffie dal filo nero, perchè è nata negli anni '80, o perchè si sposa bene il colore e quel bianco apple non l'ha mai potuto soffrire. Ascolta rock d'oltremanica, e qualche cantautore italiano di sinistra, ma con moderazione, perchè diligentemente trascorre la sua ora di viaggio evidenziando dispense o ricopiando appunti su un quadernetto ad anelli. Nel imperfetto equilibrio pendolare femminile delle otto e trenta la vediamo scendere a Padova e restituirci al suo posto una quindicina di colleghe che dalla città patavina migrano ancora più a nord inseguendo l'agognato pezzo di carta e un futuro posto fisso. Giulia odia le pettegole venete che parlano solo di Amici, prodotti per capelli e icone pop. Sarà per quello che quando salgono loro lei scende e il tragitto per l'università lo compie a piedi scegliendo di esser sola piuttosto che mal accompagnata.

Gianni ha l'aria baldanzosa di chi la sa lunga, la boria sicura di chi è stato in vacanza proprio dove andrai tu, che conosce perfettamente lo sport che pratichi, è esperto dei tuoi hobby e dall'alto dei suoi cinquant'anni abbronzati le ha già viste tutte. Forse per tali motivazioni Gianni ogni mattina riesce ad occupare l'intero spazio tra le colonne a metà binario e la linea gialla da non oltrepassare, gonfio del suo ego oppure a causa del suo zainetto ingombrante tenuto su una spalla sola come un ragazzino figo di prima liceo. I passanti devono aggirarlo sull'interno, strabordando sulla banchina del binario tre o scegliere di cadere sulle rotaie e poi risalire oltre sperando che il treno non passi proprio in quel momento.
Gianni è sempre vestito elegante perchè il suo posto in banca lo esige, mentre la scelta delle cravatte vistose è del tutto sua, così come il cappellino firmato che indossa con l'aletta in su appena calzato sulla testa che gli conferiscono l'aria di un anzianotto Carletto. Gianni trova sempre posto sul treno, trova sempre un giornale sul sedile, qualcuno che conosce con cui chiacchierare nel breve viaggio verso la stazione successiva dove scende ogni mattina. Gianni è il re nudo del binario quattro, lato destro, ma nessuno gli ha mai fatto notare che a lui sarebbe più utile scegliere il sinistro, maggiormente vicino all'uscita nella sua stazione di arrivo. Un giorno ribelle forse lo cacceremo dal nostro territorio, facendolo passare sulle rotaie.

NdA: ogni riferimento a cose, luoghi, persone NON è puramente casuale ma in buona parte frutto di fantasia.

La verità sul tennis

tennis_pallina.jpgNei luminosi ed interminabili pomeriggi estivi, quando c'era luce fino a tardi e la scuola andava ormai finendo, iniziava il nostro Campionato di Tennis. Contrapponeva due giganti della scena degli anni '90, a loro modo entrambi campioni, seppure in mondi un po' diversi tra loro. Jim Courier aveva una racchetta verde smeraldo Dunlop, residuo del corso pomeridiano di qualche anno prima, lunga e leggera, con un bel fodero completo blu scuro. La racchetta di Andrea Gaudenzi era una Head corta corta, fuori misura anche per un ragazzino delle medie, decorata da un mix di colori prettamente tennistici quali il bianco, il giallo, il rosa. Il fodero ne avvolgeva soltanto la parte superiore. Gaudenzi, a differenza del suo avversario, non aveva mai fatto un corso di tennis, pertanto si arrangiava come poteva ed anzi aveva imparato buona parte della sua tecnica proprio in quei pomeriggi estivi, durante il consueto campionato.

Il campo delle partite quotidiane, forse, non meritava il rango di "campo di tennis" quanto piuttosto quello di area di cemento. Abbandonato al rapido logorio degli anni, ai bordi di un giardino scolastico tra un asilo e un campo di basket, proprio a fianco dell'istituto tecnico, non possedeva nemmeno una rete. Passi quella esterna, di recinzione, andata consumandosi negli anni tra buchi vari fino a scomparire del tutto una volta ridotta a brandelli contorti di ferro acuminati ed arrugginiti. La rete che mancava era - ahimè - proprio quella centrale, sostituita all'occorrenza dal nastro di plastica rosso e bianco a righe alternate tipico delle recinzioni dei lavori in corso. Le righe di delimitazione erano a malapena visibili, ormai dello stesso colore del cemento terra di siena del campo: appena si percepiva il quadrato davanti a rete entro il quale battere. Si aggiunga al quadro già fantozziano della situazione una fitta rete di radici e buche di vario genere che spuntavano riempendo il campo di imperfezioni, zolle sollevate, rametti caduti, fogliame vario. Per farla breve: nessuno a parte noi poteva e soprattutto voleva utilizzare un campo simile.

Tuttavia Gaudenzi e Courier erano li ogni pomeriggio, alle cinque in punto, per la sfida quotidiana. Le bici chiuse contro la cancellata, poi scavalcata per entrare, racchette in mano e borraccia al collo, rigorosamente piena di thè solubile, moda importata dal Canada e protagonista indiscussa delle nostre bevute adolescenziali.
A onor di cronaca va detto: Courier vinceva praticamente ogni partita, inizialmente in maniera molto plateale, poi via via che l'avversario prendeva confidenza con la racchetta e la sua antica arte, in maniera più sofferta e combattuta, fino a perdere qualche incontro ogni tanto. Negli anni che vanno dal 1994 al 1997 Gaudenzi portò infatti a casa almeno quattro o cinque vittorie.

Lo sfidante era però un avversario meticoloso e puntuale. Leale e disciplinato sul campo, disposto a mille incontri faticosi pur di passare un buon pomeriggio di sport (il calcetto sarebbe venuto solo qualche anno dopo). Il protocollo rigidissimo prevedeva la ripetizione della giocata in caso di rimbalzo su qualche gobba del campo, la discussione interminabile è-sopra-è-sotto in caso di difficile valutazione di un tiro vincente raso rete, o meglio raso filo, a volte sfociata in nervosismo e litigio. Prevedeva altresì che il campo rimanesse sempre lo stesso, senza alternanza, per anni, che al termine di ogni set si facesse una pausa a bordo campo per bere il thè freddo e che ognuno andasse a riprendere la pallina nella sua metà campo. Già, la pallina. Una soltanto, per non perderle nel campo con l'erba alto proprio a fianco. Era molto faticoso giocare in quel modo, bisogna riconoscerlo, eppure sono state forse le più belle partite di tennis che si potesse sognare. Spontanee e rustiche come solo due ragazzini potevano accettare. Genuine nel loro ripetersi costante, sempre uguali, con la stretta di mano finale a bordo rete, come i veri tennisti e un altro thè freddo offerto al perdente, a casa di chi aveva vinto la sfida.

Poi sono arrivati gli sbandati, con motorini e qualche siringa, i bonghi e le pentole. Occupavano il campo tanto per fare, qualche volta tagliavano nottetempo la rete. Gaudenzi e Courier diventavano grandicelli e iniziavano a non giocare più come un tempo. Restano le pagine su un'agenda elettronica ormai fuori uso, a registrare una ad una le partite svolte, con tanto di risultati, tempi di gioco, set dopo set. Poco tempo dopo sarebbe esplosa la passione per il calcetto, che tante altre sfide epiche avrebbe regalato ai due imberbi tennisti, sulla scia del Chino e di Cannavaro. Ma questa, è un'altra storia.

Jim Courier

Un Natale mediocre

Il corpo di Babbo Natale fu ritrovato in un garage tagliato a pezzetti (il corpo di Babbo Natale, non il garage) il 7 gennaio 2008 dopo che un miliardo e duecentotrentatré milioni di denunce erano arrivate concomitanti la mattina del 25 dicembre, mandando in tilt i centralini telefonici.

La mattina dell'8 gennaio 2008 i giornali titolarono a piena pagina la tragedia, mostrando una rara foto di Babbo Natale da giovane quando frequentava il seminario, con sotto la didascalia: "Babbo Natale ai tempi del seminario": in quella foto Babbo Natale assomigliava a Paul Newman da giovane, occhi azzurri tagliati sottili, naso prominente, maglioncino a V e mascella da attore americano. Tantissimi giornali, nelle pagine interne, riportarono anche un'altra foto, sempre risalente ai tempi del seminario, (fa sempre un certo effetto mostrare le foto dei morti ammazzati "ai tempi" di qualcosa) in cui Babbo Natale giovane posava insieme ad altri ragazzi giovani, del tutto simili a lui tranne per il fatto che nessuno di loro riportava, intorno alla faccia, lo stesso circoletto rosso che i grafici dei quotidiani gli avevano tributato per renderlo facilmente riconoscibile. Anche in quest'altra foto, questa del circoletto, la didascalia molto ovviamente ribadiva: "Babbo Natale quando frequentava il seminario".

Allora quella mattina dell'8 gennaio la disperazione nel mondo fu tale che in tutto il mondo piovve. Chi prima, chi dopo, (a seconda del fuso orario) la gente osservò attentamente quella foto, la foto di Babbo Natale da giovane, in particolare quella dove stava insieme agli altri cerchiato di rosso, rimanendo colpita dall'alone di predestinazione che quel volto portava. Nessun altro, in quello scatto, sembrava essere bello a tal punto, così convinto, così fiero, come Babbo Natale da giovane cerchiato di rosso. Sembrava quasi, nella foto, che Babbo Natale giovane se lo vedesse già intorno alla faccia il circoletto rosso che i giornali, un giorno nel futuro lontano, gli avrebbero disegnato attorno. E sembrava che anche tutti gli altri ragazzi del seminario presenti potessero vederlo e che per quello apparissero meno convinti, più sconfortati, perché tanto, qualsiasi cosa avessero fatto, con qualsiasi voto fossero usciti da lì, con qualsiasi ragazza si fossero presentati al ballo di fine anno, ebbene, il circoletto rosso non sarebbe toccato a loro.

I giornali, quell'8 gennaio 2008, ma anche tutti i giorni a venire, per almeno un anno, parlarono diffusamente di Babbo Natale, raccontando vizi e virtù dell'uomo più famoso del mondo subito dopo Gesù Cristo e Briatore. (secondo un sondaggio di Forbes. In verità Forbes propose anche un altro sondaggio che si trascinò dietro una buona dose di critiche, sondaggio che elesse Babbo Natale secondo uomo più ricco del pianeta subito dopo Putin e i fondatori di Google) Arrivarono settimane atroci per la televisione e per il senso generale dell'inverno: la Borsa crollò pesantemente e "The Economist" scrisse che la morte di Babbo Natale si poteva paragonare, per gravità fiscale, al post 11 settembre. Naturalmente i più colpiti dal lutto furono i bambini: anche quelli che, da anni, avevano perduto la fede nella figura di Babbo Natale, tornarono improvvisamente praticanti e alla fine se ne contarono a milioni nei vari funerali che furono organizzati. (fu deciso che un solo funerale non sarebbe mai bastato a soddisfare la richiesta e, per questo, ne furono preparati 466 sparsi per il mondo: dove fossero realmente le spoglie di Babbo Natale non fu mai rivelato, così che tutti potessero segretamente covare il sogno d'aver scelto il funerale giusto e raccontarlo agli amici o nelle interviste televisive. Quelle giornate di grande unione e fratellanza furono chiamate dai media: "L'ultimo regalo di Babbo Natale". Sei milioni di T-Shirt furono stampate e vendute in poche ore)

Uno dei problemi principali fu che il cadavere tagliato a pezzi di Babbo Natale venne rinvenuto disgraziatamente nei pressi di una Moschea. Vennero perciò mesi difficili per gli islamici di tutto il pianeta: l'Italia, in particolare, si fece portavoce di una moratoria per ristabilire con "urgenza assoluta" la pena di morte. La moratoria fu approvata con grandissimo calore e in una dichiarazione, forse troppo affrettata, Prodi propose di dichiarare illegali tutte le persone di sesso maschile con la barba lunga e che avessero almeno un'acca nel nome o nel cognome. In più la Lega Nord si fece portatrice di una proposta, acclamata sulle rive del Po in uno storico giorno di febbraio alla presenza di 400 bifolchi, quattro vacche e sedici maiali coi paramenti sacri, secondo la quale proposta, chiunque fosse in grado di elargire informazioni sul presunto killer di Babbo Natale (che per comodità tutti cominciarono a chiamare Mohammad) avrebbe ricevuto una cifra in danaro pari al suo peso. (il primo a presentarsi fu sorprendentemente Giuliano Ferrara)



Un dibattito politico senza precedenti si scatenò: durante una manifestazione pacifica il 7 febbraio, esattamente un mese dopo il ritrovamento del cadavere tagliato a pezzetti di Babbo Natale, la polizia sparò lacrimogeni ad altezza uomo per disperdere una folla di riottosi naziskin che s'erano riuniti al grido di: "Santa Claus Raus". Il Parlamento deliberò che fosse il caso di calmare le ire cittadine e con una mossa storica e tempestiva le Grandi Potenze mondiali firmarono un Trattato di Pace Internazionale per cui tutte le persone minimamente sospettate d'aver ucciso Babbo Natale furono immediatamente imprigionate. Tra loro anche Salman Rushdie. Davanti a una petizione proposta da sommi Figli di Papà, tra cui Luca Sofri, in cui veniva chiesta l'immediata scarcerazione del letterato di Bombay, e firmata da oltre 350 Intellettuali italiani, tra cui Daria Bignardi, il governo Italiano rispose con una nota ufficiale: "Poteva pensarci prima e levarsi quell'acca dal cognome. Per non parlare della barba".

Petizione o non petizione, il Trattato di Pace Internazionale venne visto di buon grado da quasi tutta la popolazione mondiale. Secondo un sondaggio incrociato italo-americano il 97% delle persone intervistate si dicevano d'accordo con l'incarcerazione preventiva. Il 2% non sapeva o non rispondeva, il restante 1% erano blogger. (sondaggio effettuato su un campione di 1 milione di persone sparse per tutti e cinque continenti, tranne quello asiatico)

Com'è come non è, di certo ci fu che, messi dentro circa 13 milioni di persone sospettate dell'uccisione di Babbo Natale, anche tutto il resto della criminalità crollò in maniera sorprendente: addirittura le persone cominciarono ad uscire di casa anche dopo le 21 di sera e a nutrire nuovamente fiducia verso il futuro. (dove per futuro s'intendeva, al massimo, tutto il resto della settimana) La presidenza del Consiglio dei Ministri promosse spot pubblicitari, che sono ancora in onda, in cui si invitavano i cittadini a rilassarsi e a credere che quanto s'era fatto e si stava facendo per la sicurezza di tutti era già più che sufficiente.

Naturalmente non fu tutto qui.
Le indagini proseguirono per oltre un anno: come consulente speciale, gli inquirenti convocarono la signora Franzoni, ma ugualmente non venne fuori niente di significativo, a parte un coltello sospetto recante sulla lama tracce di sangue riconducibili a Meredith. I Ris tirarono fuori riscontri di ogni tipo: dopo sei settimane di analisi alcuni peli di barba bianca furono fatalmente fatti risalire alla vittima e non all'assassino.

Le televisioni ci marciarono: i palinsesti furono variati per mesi e, per rispetto, le Veline di Striscia la Notizia non fecero stacchetti addirittura per tre puntate.

Il minuto di silenzio osservato negli stadi di Serie A fece discutere moltissimo, perché i temibilissimi Ultras lo disturbarono con irrispettosi fischi. (fu pensato di incolparli tout court dell'assassinio di Babbo Natale, tutti gli Ultras d'Italia tranne quelli del Vicenza, in quanto i colori sociali di Babbo Natale erano molto simili a quelli della squadra biancorossa) Il Viminale, per rispondere alle curve, ree d'aver esposto striscioni quali: "Luciano Moggi come Babbo Natale" e "Dieci, cento, mille Babbo Natale", deliberò che tutti gli attaccanti di Serie A non avrebbero mai più dovuto segnare goal di testa. Fu così che scese in piazza anche il Sindacato Calciatori: l'Osservatorio, allora, trovò che per mettere la parola fine alla questione "Violenza negli stadi" la maniera migliore fosse quella di spostare l'orario delle partite dalle 15 alle 15.15: l'idea ebbe un successo universale e la Federcalcio mostrò dei tabulati in cui si dimostrava senza l'ombra del minimo dubbio che le violenze tra le 15 e le 15.15 erano effettivamente diminuite del 100%.

La morte di Babbo Natale cambiò la vita delle persone per tutto l'anno a venire, fino a che, naturalmente, non arrivò nuovamente Natale e due fasci di luce furono proiettati verso il cielo alla mezzanotte precisa da tutte le piazze del mondo. Allora i bambini intonarono canti religiosi, Bush si fece il segno della croce in diretta mondiale, mentre sulle sue labbra le moviole carpirono il messaggio: "Lo staneremo" e Silvio Berlusconi montò sul tetto di un auto per annunciare a tutti alcune cose, per esempio che Babbo Natale era comunista e quindi coglione nonché omosessuale e che da quel momento in avanti il Natale si sarebbe festeggiato il 24 di marzo. (disgraziatamente l'auto si mosse prima che Silvio terminasse l'orazione ed è per questo che l'ex premier risiede attualmente al Centro Traumatologico in terapia intensiva. Una delle sue ultime dichiarazioni carpite sarebbe stata: "Cribbio, ma che bisogno c'era del catetere?")

L'assassino non fu trovato mai, ma secondo recenti dichiarazioni dei Governi di tutto il mondo: "è altamente probabile che sia comunque in galera". Ai bambini fu spiegato che Babbo Natale era dovuto partire e che "adesso stava molto meglio di prima perché in un posto incantato e pieno di giocattoli". ("...Rignano Flaminio?", avrebbe domandato rabbrividendo uno di loro, secondo testimoni) Non tutti vissero felici e contenti, ma quasi.

[... buone cose e felicità da Noantri]

Eternity

Erika arrivò davanti al Padreterno e si tolse gli occhiali da sole.
Dio la osservò riporli nella borsetta e sputare il chewin gum nel pugno chiuso della mano. Poi Erika avanzò e nella stanza perfettamente bianca ci fu solo un rumore e questo rumore era lo scalpiccìo prodotto dai suoi tacchi. Dio onnipotente si raddrizzò sul Trono facendo leva con le mani inanellate sui braccioli di legno importante: la Sua figura era ovvia, con la barba bianca e una veste dello stesso colore tanto liscia da non presentare nemmeno un'ombra, non una sfumatura. Quando i piedi di Erika, avvolti dentro deliziosi sandali allacciati alla schiava, si arrestarono la distanza tra i due era ridotta a mezzo metro scarso.

- Dio...
- ... Tu sei Erika – la interruppe l'Onnipotente in maniera perentoria, senza manifestare dubbio.
- Sì... – acconsentì la creatura mortale davanti a Lui abbassando il capo, ma solo per controllarsi la scollatura. – Sono Erika e ho chiesto udienza per appellarmi alla Tua Infinita Grazia e Giustizia… -. La voce della ragazza diventò esile in quell'ambiente a tal punto vasto che i confini non si riuscivano a distinguere. Erika alzò di nuovo gli occhi su quelli del Signore e le lunghissime ciglia nere le solleticarono la pelle appena sotto le sopracciglia. Dio sembrò riflettere: non respirava, non emetteva alcun suono tipico della vita. Il Suo costato non si sollevava, non aveva vene sulle mani né altrove: Dio onnipotente era qualcosa di completamente neutro. Lisciandosi la minigonna blu sui fianchi, Erika pensò che quella... Cosa davanti a sé non recava nulla a immagine e somiglianza degli uomini della Terra.

- Erika... - sentenziò ancora Dio seguendo il protocollo -. Il tuo assassino brutale verrà giudicato a tempo debito. La tua innocenza non sarà violata e il ricordo della tua vita sarà serbata nella memoria dei superstiti con tutto l'amore necessario... – Così Dio salmodiò parole a Lui abituali e con quello credette d'aver finito il compito. Gli occhi Onnipotenti non si discostarono mai da quelli della creatura che lo fissava, nemmeno quando questa fece oscillare con un movimento del capo le due treccine bionde all'indiana che s'era acconciata.

- Dio... - riprese Erika. Io... Sono venuta a domandarTi umilmente di essere rimandata sulla Terra nuovamente in vita. Perché ritengo che il mio compito non sia terminato...

Fu allora che Dio azzardò un'impercettibile emozione: la Sua fronte tradì qualcosa di interrogativo che Erika riconobbe come autentica esternazione umana. La ragazza mosse un altro passo verso di Lui, piccolo ma decisissimo, e in quell'attimo Dio onnipotente abbassò lo sguardo incuriosito dal rumore ticchettante dei tacchi alti e scoprì dieci piccoli indiani spuntare nudi dalle scarpe e smaltati di vernice rossissima. Erika ne approfittò per salire sull'unico gradino su cui era adagiato il Trono. Dio trasalì aderendo con la schiena allo schienale ma senza emettere un fiato.



- Dio... Sono stata vilmente ammazzata da un extracomunitario clandestino di colore. Brutalizzata e gettata in un fosso a soli 19 anni e con una vita davanti. E... Dio... Sono qui, umilissimamente, per domandarti la Grazia. Rimandami sulla Terra ad esaurire il mio... Compito.

Il Signore avvertì un profumo di albicocca provenire dal lucidalabbra che Erika aveva azzardato prima d'entrare. Mai quelle narici nobilissime e giuste avevano saggiato fragranze così, nemmeno durante la Creazione, neanche il giorno in cui plasmò la donna stessa, Dio si risolse a concepire un simile trucco seduttivo e ingannevole: più della celeberrima mela, quell'odore d'albicocca posticcio incarnava l'essenza caduca degli uomini, l'abominio della razza umana, l'indole naturale al peccato assoluto. Dio trasalì innanzi al riassunto del Suo stesso fallimento ma contemporaneamente non poté fare a meno di inalare con curiosità quell'ardore fatto sostanza che si mischiava ad altri pigmenti, ad altre minuscole particelle d'essenza di cui nemmeno Egli riusciva a dare conto perché, fuori da ogni dubbio, non era stato Lui a inventarle.

- Dio... Signore... - Erika disse poggiando entrambe le mani sopra le ginocchia di Dio. – Dio, io... Avevo solo 19 anni quando sono stata... E non ho mai... Non ho mai fatto in tempo a... - Rimase quella "a" a mezza altezza, sospesa come un palloncino gommoso tra la bocca profumata di Erika e quella secca di Dio. Dio respirò l'aria che lo separava dalla creatura femminile e quella "a" vischiosa Gli si infilò nelle narici: era il suo alito, era l'odor di albicocca, era il profumo che s'era messa sul collo usando l'indice destro. Dio chiuse gli occhi per la prima volta in oltre 4mila anni e poi li riaprì di scatto. Erika sentì la tensione e sollevò immediatamente le mani dalle ginocchia del Creatore. - Dio... a tutti è concessa una seconda possibilità... E io sono qui... Sono qui, innanzi al tuo cospetto... Per... Chiederti questa seconda possibilità...

Le mani di Erika tornarono sulle ginocchia di Dio e abbassandosi così, per la seconda volta in pochi secondi, il Padreterno conobbe a Sue spese il significato profondo dell'enigma che c'è dietro ogni femmina dell'Universo. Gli occhi azzurrissimi di Dio Onnipotente si soffermarono per un secondo di troppo sulle due coppe rosa e morbide che si celavano dietro la stoffa sottile del top rosa di Erika. La ragazza s'accorse, avvezza a quel vezzo dei maschi, del peccato di Dio e i suoi occhi si fecero morbidi e pieni di complicità: - Padre... Tu ci hai create così... La donna è composta da tanti e tali elementi di bellezza visiva che non può esserci dubbio circa il fatto che sia stata inventata da un uomo... Tu sei un uomo, Dio...?

Dio non rispose, non perché senza parole, ma perché come un uomo in terra straniera capisce a sufficienza ciò che gli viene detto ma non dispone degli elementi linguistici giusti per rispondere a tono, così Lui non poté fare altro che stare a sentire e stare a guardare, privato dei meccanismi logici per fornire risposte degne e sensate.

– Dio... - continuò Erika che sollevò una mano dal ginocchio del Creatore solo per togliersi un filo sottile di capelli che gli si era impigliato all'angolo della bocca. – Dio... Rimandami sulla Terra. Tu lo puoi fare e il mio cadavere non è ancora stato trovato. Rimandami lì... Tutto ha un prezzo, è la lezione che l'umanità ha insegnato a se stessa nell'arco dei millenni. Dimmi: qual è il Tuo prezzo?

Dio, immobile e solo nella Sua stanza Totale, non rispose una sillaba. Sotto di Sé la vita scorreva e migliaia di uomini morivano e nascevano rispondendo a un meccanismo misterioso ed eterno. Erika davanti a Lui respirò più a fondo perché sapeva benissimo che facendo così il suo seno risaltava come monti di pan di spagna: non indossava alcun reggiseno e i due capezzoli furono perfettamente visibili, appuntiti, come baionette puntate, distanti solo pochi millimetri dalla stoffa interna della maglietta. Fu in quell'esatto momento che Dio onnipotente, Signore del cielo e della terra, conobbe la Sua prima erezione.

Erika sorrise di quel sorriso che fanno le donne quando hanno deciso che faranno l'amore. Sollevò le mani dalle ginocchia di Dio e Gli si sedette in grembo, accavallando le gambe. Adesso alla destra del trono di Dio non c'era nessuno e lo spirito santo s'era incarnato sottoforma di sangue che scorreva potente all'altezza dell'inguine sacro.

- Dio... - Erika soffiò nella bocca di Dio. Poi Gli prese una mano e il tocco della pelle dell'Onnipotente le procurò un brivido elettrico lungo la spina dorsale... - Dio... - disse di nuovo, solo che non era più un'invocazione divina, ma l'esclamazione più ovvia che fanno le persone quando sentono l'eccitazione sessuale arrivare. Accompagnò la mano di Dio sulla sua gamba e la accompagnò in un movimento regolare che andava dal ginocchio al lembo della gonna che, in quella posizione, era risalita fino all'attaccatura della coscia. Dio saggiò il significato della parola "liscio" e si lasciò guidare dall'abilità che la giovane sembrava ostentare. Poi, proprio quando Gli cominciò veramente a piacere, Erika arrestò il movimento e si alzò un'altra volta. Immobile davanti a Dio, si sollevò il top proponendo a quel bianco accecante il dono del suo seno da adolescente, gonfio e sodo abbastanza da rimanere sollevato da solo.

Si inginocchiò tra le gambe del Padre e Gli sorrise dal basso in alto con la complicità necessaria perché Lui capisse a cosa si riferisse. Entrambi guardarono il bozzo che s'era formato, evidente e tonante, sotto la stoffa bianchissima della Sua Sacra Veste. Erika seppe in quel momento preciso che Dio non indossava mutande.

- Dio... Qual è... Il Tuo prezzo? – Domandò Erika prendendo a massaggiare, con la lentezza di una processione all'altare, il membro irrigidito dell'Onnipotente attraverso la stoffa. – Io sono giovane, Dio... E voglio vivere ancora... Sono sicura che tu... Dio... Troverai maggiore vantaggio nell'accontentarmi adesso piuttosto che nel punire il colpevole in seguito... - Dio rovesciò la testa all'indietro come per una risata, solo che non ci fu nessuna risata, e la Sua barba lunghissima Lo accompagnò nel gesto. Erika si sollevò, fece il giro del Trono e prese la testa di Dio tra le mani. Quindi si abbassò leggermente al Suo livello e Gli fece assaggiare la consistenza del seno sul volto. Affondato nelle tette di Erika, l'Onnipotente bofonchiò qualcosa di incomprensibile e tale enigmaticità fu senza dubbio interpretata da un cattolico praticante come incomprensibile testimonianza del dogma della fede.

– Dio... - disse ancora Erika, adesso anche lei a occhi chiusi, sentendo tra le tette il calore del respiro di Dio e la lanosità della Sua lunghissima barba. – Rimandami sulla terra... So che lo vuoi fare. So che puoi... - Quindi la giovane donna tornò al Suo cospetto e si chinò nuovamente. Stavolta Gli sollevò la tunica bianca e quello che vide fu il riassunto simbolico di millenni di evoluzione sessuale, dalla lotta delle donne alle guerre per i diritti degli omosessuali, fino allo sdoganamento dei costumi su Internet: milioni di chili di passione, ammesso che la passione possa misurarsi in chili, riversati in unico membro, il primo, quello Assoluto: il Cazzo di Dio.

Erika fece quello doveva fare, stordendo a tal punto Dio che quest'ultimo esaudì a casaccio mille preghiere. Mentre saggiava e suggeva, disse: - Dio... Io faccio mio il Tuo insegnamento e perdono il colpevole del mio assassinio. Ma voglio che tu... Mi rimandi sulla Terra... Perché io non ho mai... Ancora... A 19 anni... Non ho mai... Sai... Scopato... E tutte le mie amiche... - Erika continuò a riempirsi la bocca di parole e di Dio, producendo un osceno rumore liquido di salivazione. – Rimandami... Sulla terra... Dio... Dammi la possibilità di scoprire... Come tu stai scoprendo ora... Tali piaceri... Di...

Non fece in tempo a finire la frase perché la disabitudine di Dio a tali pratiche o, se vogliamo, l'accumulo di millenni di astinenza, portò all'eruzione anticipata del vulcano, così che la bocca di Erika fu tappata prima del tempo dalla lava di Dio. La giovane donna lo lasciò ultimare serrando gli occhi, sollevando, alla fine, lo sguardo sul Suo viso contrito che in pochi minuti sembrava aver perduto la ruvidezza della vecchiaia di millenni.

- Dio... - disse Dio in un filo di voce.
Quando un'ora più tardi entrò San Pietro con un plico di fogli per farGli firmare il Permesso Speciale, Lo trovò che fumava.

Un quesito ingegneristico

Oggi sono andato al terzo (e ultimo) colloquio presso una famosa multinazionale in cui spero di lavorare.
Ero molto curioso, dati i due incontri precedenti precedenti: nel primo mi hanno fatto raccontare le mie ultime vacanze in inglese, nel secondo usavano 2 parole in inglese e 2 in linguaggio strettamente tecnico ogni 5.

Infatti le mie attese non sono state deluse: i miei interlocutori erano due tecnici della filiale e il colloquio è diventato una specie di esame universitario.
Dopo un primo approccio tipico (studi superiori/universitari, accertamento delle mie conoscenze) si è passati a domande per testare la mia capacità di problem solving, per poi concludere con un quesito che giro a voi perché veramente assurdo e forse fuori luogo.

(vi porrò la domanda pari pari a come è stata posta a me, nel seguito troverete la risposta)

"Ipotizziamo che il raggio della Terra sia di 6000 Km per semplicità di calcolo.
Immagini di svolgere un filo lungo l'equatore in modo che sia aderente alla superficie in tutti i suoi punti (ovviamente perfettamente sferica).
Ora prendiamo questo filo, aggiungiamo 1metro alla sua lunghezza, rendiamolo di nuovo perfettamente sferico e stavolta anche rigido. Rimettiamolo attorno all'equatore in modo che in ogni punto sia equidistante dalla superficie.
La domanda è: un gatto riesce a passare sotto tale filo?"


Su due piedi stavo per ridergli in faccia.
Seriamente, facevo fatica a stare serio.
Attenendosi strettamente a ragionamenti teorici la risposta è no, 1 metro è infinitesimo rispetto 6 milioni di metri.
Poi ho cominciato a fare i seguenti calcoli:

circonferenza all'equatore (C1): 2πR

circonferenza del filo rigido (C2): 2πR+1

raggio di C2: (2πR+1)/2π = R+(1/2π)

Ovvero il secondo raggio è più lungo del primo di 1/2π metri, ovvero circa 16 centimetri.
Ovvero il filo è sospeso dalla superficie di 16 centimetri in qualsiasi punto.
Quindi il gatto passa, eccome se passa.

Soddisfazione dei due tecnici e "le faremo sapere". Eravamo già tornati alla routine.

Storie toscane – 2. Il problema dei pali

(la prima puntata è qui)

Vi avevo lasciati con la questione aperta: come far reggere una tenda con soli due pali? La soluzione, forse ovvia, è stata usare quello che doveva essere adibito a filo per stendere i panni come tirante del palo orizzontale, il tutto con l'ausilio di un alberello li a fianco. Una cosa del genere:

tenda4.jpg
Il picchetto a terra, che deve sorreggere il peso del palo e della copertura in tela, avrebbe dovuto essere piantato con somma perizia. Invece il sottoscritto lo lascia a metà infilato in morbida terra scura perchè quando si è imbranati lo si è fino in fondo.
La tenda sembra stare effettivamente su, sebbene sbilenca, in un assetto testimoniato in questa unica foto ricordo. Ci concediamo un giretto serale per esplorare la zona.
A sera rientriamo discretamente tardi. C'è vento, che fischia tra gli alberi e rende tutto più cupo. Pure la tenda, che sbilenca attende nell'oscurità il test vero e proprio della prima notte.
Verso le 4 del mattino Puntini si sveglia, o meglio MI sveglia.
- Sento dei rumori. C'è qualcuno attorno alla tenda
- Ma figurati, chi vuoi che giri a quest'ora! E' il vento.
- TI dico di no... è un po' che sono sveglia
- Sono gli aghi di pino che cadono sulla tenda vedi? Fanno quel rumore che sembrano passi. Effettivamente sembrano passi ma vedi? Sono quegli aghini che si vedono in controluce.
Puntini mi crede a fatica dopo mezzora o forse si addormenta o forse, più probabilmente, mi riaddormento io e mi lascia dormire. La prima notte è andata quando il sole posa i suoi primi raggi sul mio volto sonnacchioso trasmettendo una luce arancio simpaticissima.

Alle nove circa del mattino Puntini si prepara per la spiaggia e approfitta del mio pigrare nel sacco a pelo per il rito della ceretta. Alle nove e cinque la tenda collassa su stessa. Il picchetto si sfila da terra e il filo duramente provato dal vento cede definitivamente. In una scena comica la ritiriamo su davanti agli sguardi attoniti dei vicini di tenda. Che gli venga un colpo, toscani di merda, nessuno ci dà una mano o si propone per aiutarci. Loro, le loro capanne ultraspaziali e la tv via satellite affanculo.

La notte seguente la tenda è ancora (in)stabile al suo posto e possiamo andare a dormire tranquilli.
Alle quattro del mattino, di nuovo, Puntini mi sveglia.


- Sta arrivando il temporale. La tenda non reggerà.
- Ma che cazz...
- Senti i tuoni?
- Ehssi. Copriamo la tenda.
Così nella notte copriamo alla bene meglio la tenda con il rivestimento impermeabile. Sotto, dopo, fa un caldo infernale e sembra mancare il respiro. La pioggia, ovviamente, non arriverà mai.

Il mattino dopo ci svegliamo dalla sauna con un bel sole splendente in cielo così iniziamo a prepararci per andare in spiaggia.
- Allora sei pronta?
- Arrivo, un secondo, arrivo!
Un'ora e mezza dopo, arriviamo in spiaggia che è quasi ora di aperitivo. La gente sta venendo inspiegabilmente via.
Alziamo gli occhi e notiamo un cielo nero in arrivo che promette acqua e fulmini copiosi. Dalla pineta non l'avevamo minimamente notato. Restiamo circa quei dieci minuti in spiaggia prima che la tempesta porti via l'ombrellone di Puntini facendolo rotolare su una ragazza a fianco, per fortuna dalla parte dell'ombrello e non della punta altrimenti forse ora si era tutti a testimoniare ad un processo per omicidio colposo a Livorno. Arriva la tempesta e tutti corrono nelle loro fottute capanne a 5 stelle mentre il nostro pensiero corre ai pali mancanti e all'instabilità della nostra dimora.
Mentre tento di sprofondare il più possibile nel sacco a pelo per non sentire i tuoni e non pensare a dove diavolo ci troviamo vedo Puntini che mette via oggetti, li ricopre con sacchetti di plastica e così via.
- Ma che stai facendo?
- Ricopro gli oggetti di metallo così non attirano i fulmini.
- Ma siamo dentro la tenda... mica sono esposti.
- Fa lo stesso. E il palo come facciamo?
- In alto la punta è coperta... non ti preoccupare
- Io metto un sacchettino di plastica anche alla base del palo qui dentro non si sa mai che si propaghi...
- Uhm... vabbè.

Così, con i cellulari spenti e gli oggetti ricoperti anche dentro la tenda, attendiamo il diluvio. Persino le chiavi, i lucchetti, i gettoni della doccia (!) vengono messi al sicuro dove un fulmine cattivo non può colpirli.
Puntini prima della pioggia va in bagno e tornando scopre che i vicini ci deridono silenziosamente. Uno sta facendo all'altro un segno inequivocabile: indicando la nostra tenda fa il gesto di uno che nuota a rana. Come dire: questi quando inizia a piovere nuotano! Valgono i commenti espressi in precedenza su tali individui.
Arriva la pioggia, tanta, ma dura poco. Ci caghiamo un po' sotto ma la tenda, incredibilmente, resiste a tutto oscillando paurosamente in un paio di occasioni.
Trionfante al termine della pioggia esco constatando l'ottima tenuta del picchetto, poi rassicuro Puntini e mando un paio di gesti dell'ombrello agli amici vicini.
Poi qualche minuto dopo, mentre siamo di nuovo dentro la tenda, l'umiliazione finale: i vicini ci buttano addosso una secchiata d'acqua da un tinello usato in cucina. Simpatia portali via, il più presto possibile.

Riguardo il Problema dei Pali non ho altro da dire. Di sicuro la vacanza non sarebbe stata però così movimentata senza il Problema della Conservazione dei Pecorini. Ma questa è un'altra storia.

Il Signor Gambero

Sono uscito di casa che faceva caldissimo. Stavo per raggiungere la mia macchina parcheggiata - la mia macchina è rossa e da lontano si vede subito - quando qualcosa di molto più interessante m'ha distratto. Sul vetro di una Golf verde petrolio, appoggiato al tergicristallo, dove di solito gli ausiliari del traffico ci piazzano le multe, più precisamente subito accanto a quel cosetto di plastica che spruzza l'acqua sul parabrezza, proprio lì stava un gambero.

Un gambero arancione, uno di quelli che nei ristoranti fa bella mostra di sé in cima alle fritture miste o sul cucuzzolo della montagna di spaghetti allo scoglio. Aveva tutto di un gambero, aveva quelle antennine, la crosta arancione disarticolata che gli permette il movimento in acqua, le due perline nere sporgenti come occhi, le zampe disposte a raggiera sotto la pancia: era un gambero a tutti gli effetti e se ne stava lì, impossibile, sul parabrezza di una Golf verde petrolio. Morto, certo: non l'ho toccato, non ho idea se fosse cotto o cosa, ma di sicuro era morto. Volete che non sappia riconoscere un gambero morto da un gambero vivo?

Ho alzato gli occhi al cielo, tipo uno che ha appena pestato una cacca, come se in cielo, proprio sopra la Golf verde petrolio, potesse esserci, che ne so, una navicella spaziale a forma di gambero, oppure una nube gravida di uno di quei fenomeni meteorologici che ogni tanto si sentono al telegiornale in quei posti strani: tormenta di rospi ad El Paso. Epperò nel cielo sopra Roma, a parte un azzurro accecante e la pallina gialla del sole, non c'era niente.



E' stato allora che ho di nuovo guardato il gambero sul parabrezza dell'auto: era ancora immobile, sempre morto, forse crudo, forse cotto, di sicuro cotto dal sole. Ho dato un'occhiata anche nei balconi intorno, hai visto mai che qualche burlone non avesse deciso di impegnare così la sua mattinata, lanciando in strada i gamberi avanzati dalla cena della sera prima. Magari un bambino, un pazzo: se ne sentono di storie così, vai a capire.

Giuro che era un gambero: ho pensato al padrone di quell'auto, della Golf verde petrolio. Immaginatevi voi un tizio che alla mattina esce di casa e sulla macchina, al posto dei volantini pubblicitari della Tecnocasa, si trova un perfetto gambero.

Insomma c'era questo gambero.

E' incredibile a dirsi ma ho cominciato ad avere pensieri pieni di pietà nei confronti di quel gambero. Io non sono animalista, né niente, non sono nemmeno vegetariano, però giuro che ho cominciato a pensare a quel gambero. Voglio dire: se uno gli avesse detto, per ipotesi, due anni fa - adesso non ho idea della vita media di un gambero, ma supponiamo che un gambero possa vivere tanto - se qualcuno gli avesse detto, al gambero, che so, un totano di passaggio gli avesse detto: "Aho, gambero, quanto ci scommetti che da qui a due anni morirai bruciato dal sole sul parabrezza di una Golf verde parcheggiata a Roma Nord?", ecco sono convinto che quel gambero ci avrebbe scommesso qualsiasi cosa, un'intera piantagione di plancton! Quello è un gambero, un esserino abituato a ben altre morti - reti di pescatori, fauci di squali - altro che Golf verde petrolio. Vi immaginate un gambero e un totano fare una discussione del genere nel bel mezzo, bò, del Mar dei Sargassi?

Non ho idea se esista o no un linguaggio dei pesci, d'altra parte si dice che siano tutti muti, comunque può darsi che in qualche modo comunichino, perciò, se comunicano, è sicuro che adesso, laggiù nei fondali, stanno tutti raccontandosi delle vicende di Signor Gambero, finito a morire sul cofano di una macchina di produzione tedesca. Cose da pazzi: un gambero sul parabrezza di una macchina. Forse esiste, e io non lo so, da qualche parte, una strada come quella che scoprii una volta a Cuba, una strada con un cartello che avvisava del passaggio granchi e, infatti, mi ritrovai la macchina tutta tappezzata da pezzi di granchi, chele, cose così, perciò magari, ho pensato, esiste una strada simile anche a Roma, una strada dei gamberi, con un cartello stradale che avverte dell'attraversamento gamberi e quella macchina, quella Golf verde petrolio, c'era passata e poi s'era parcheggiata lì, non lontano dalla mia auto.

Tutto è possibile, questo è un mondo in cui continuamente accadono cose che non comprendiamo, quindi perché insistere a negare l'esistenza di un gambero sul parabrezza di una Golf verde petrolio? Può darsi che quel gambero sia stato messo lì da un'entità superiore (un SUPER gambero, o Dio) per ricordare agli uomini proprio questo fatto, vale a dire l'imponderabilità delle decisioni divine, l'ineluttabilità del mistero, il caos o vattelapesca.

Quando sono rientrato nella mia macchina ho pensato ad alcune cose, solo leggermente deluso dal fatto di non aver trovato a mia volta un bel Signor Gambero sul parabrezza: ho pensato che trovare un gambero sul parabrezza della macchina significasse essere un eletto, ho pensato che dio stesso fosse un gambero e che inviasse, in questo modo, segnali ai prescelti. Invece niente: la mia macchina era come al solito rossa e con le cacche di piccione sui cristalli posteriori. Quindi o dio non è un gambero o io non sono un prescelto. Oppure dio è un piccione. In quel caso sarei il prescelto tra i prescelti perché la mia macchina rossa è sempre piena di cacche di piccione.

Adesso lo so cosa state pensando: il racconto di questo episodio non può dirsi concluso fin quando non vi ho detto se, al mio ritorno a casa, Signor Gambero stava ancora lì o cosa. Ebbene, al mio ritorno non c'era più la macchina. Se n'era andata. E Signor Gambero stava per terra, lo avevano abbandonato, conteso dai gatti, più morto di prima, svuotato di tutto quel fascino mistico.

Ho pensato alla scena che m'ero perduto: un tizio che prende tra pollice e indice un gambero dal parabrezza della propria auto e lo lancia in terra. Ho invidiato la storia che che quel tizio avrebbe potuto raccontare, quella sera a cena, alla moglie, ai figli o chicchessia, durante il tiggì, eccetera, la storia di Signor Gambero sul parabrezza dell'auto, questa storia, che io adesso ho raccontato a voi. E ho pensato anche che è così che va, per ciascuno di noi, tutti i giorni della nostra vita: usciamo di casa e ci capitano cose su cose che poi raccontiamo agli altri, a voce, su un blog. E ci facciamo compagnia: le cose che ci capitano ci fanno compagnia. Sarà per questo che, nonostante tutto, continuiamo a fare quello che facciamo, volta dopo volta, nonostante le delusioni, i problemi, la depressione, lo stress. Sarà che, parafrasando Woody Allen, la maggior parte di noi ha bisogno di gamberi.

La mortazza è finita

La serata è finita male.
Ho dovuto camminare intorno al tavolo del salone per un sacco di tempo, finché non è venuta F. e abbiamo mangiato la pizza. (e pure quella l'ho mangiata in piedi) Mi sono guardato allo specchio un paio di volte, ho messo gli indici sotto gli occhi e ho tirato giù la pelle per vedere che effetto faceva. E ho respirato a lungo, naso-bocca, naso-bocca, per togliermi la nausea e fermare la vorticosa terra: ho un video di me stesso, risale ad almeno tre anni fa, in cui cammino alle 4 del mattino in camera mia alzando e abbassando le braccia: è quello che faccio, camminare, ogni volta che sono ubriaco. Perché come mi fermo, vomito. Me lo sono fatto da solo, quel video.

L'altra sera con Andy Capp è finita male: ci siamo ubriacati a metà pomeriggio per festeggiare un lavoro finito e finalmente anche pagato. Io non lo so perché la gente si debba ubriacare per festeggiare: quello che so lo so per bocca di Omer Simpson il quale dice che l'alcol altro non è che la causa di – e la soluzione a – tutti problemi della vita. Io amo Omer Simpson: amo quello che fa e come lo fa. Per me non dovrebbe esserci bisogno di nessun altro modello imitativo se non, appunto, Omer Simpson che riesce contestualmente ad amare se stesso, egoisticamente, e la sua famiglia nella stessa misura. Comunque non è di Omer Simpson che volevo parlare, a parte il fatto che sia Andy Capp che io, dopo sei Cuba Libre, eravamo gialli quasi quanto lui, quanto Omer Simpson.


Ho detto "sei" Cuba Libre non per intenderne "tre" o "quattro" o, genericamente, "un po'". Ho detto "sei" perché è quello che abbiamo fatto: ci siamo bevuti sei Cuba Libre. A testa. Il che non è né intelligente né sano, me ne rendo conto, ma il fatto è che avevamo un sacco di cose di cui parlare e molte cose per cui fare tintinnare i bicchieri. Ce li siamo bevuti tutti di gusto. Nella mia cucina: è stato bellissimo bere i Cuba Libre nella mia cucina. Sul tavolo ci stava: una bottiglia di Ron bianco (il vero Cuba Libre è col Ron bianco, bando alle ciance), una bottiglia di Coca Cola (il vero Cuba Libre è con la TropiCola, non con la Coca Cola, ma qui in Europa la TropiCola non si trova neanche da Castroni, quindi nisba), un bicchierino con dentro un po' di lime spremuto e una vaschetta di ghiaccio abbondante. Non eravamo né comodi né belli, però eravamo noi. Eravamo veri e a un certo punto, tra il quinto e il sesto Cuba Libre, abbiamo chiamato Fede ché anche lui stava bevendo, però a Ponte Milvio e invece noi nella mia cucina, aggratis, e allora gli abbiamo detto: "Fede, noi siamo completamente ubriachi nella mia cucina, perché non vieni anche tu?", al che lui ci ha risposto: "Maddeché, sto a Ponte Milvio a bere pure io, ci sentiamo dopo", e quindi abbiamo continuato a bere ognuno per conto proprio, finché, circa mezz'ora più tardi, non abbiamo mandato a Fede un sms in cui gli abbiamo scritto: "Stiamo a magnà mortazza", perché era esattamente quello che stavamo facendo, ovvero mangiare mortazza, mortadella, con il pan carré del mulino bianco, "una cosa da alcolizzati" ha detto Andy Capp a un certo punto, però era bello essere alcolizzati per un momento, per un pomeriggio di fine estate, col campionato di calcio già iniziato e l'abbronzatura già mangiucchiata dalla vita di città e dal lavoro, era bello essere ubriachi mangiando mortazza, alle 7 e 30 di sera, mentre fuori ci stavano tutte le macchine che si parcheggiavano a fine giornata, e la gente tornava a casa tra le cacche di cane.

Abbiamo brindato a un sacco di cose, davvero, certe serie, altre meno. Per esempio, tra quelle serie, abbiamo brindato a Carlo Verdone. Noi amiamo, stravediamo per Carlo Verdone: "Je vojo troppo bene" ho detto io a un certo punto. E Andy Capp ha aggiunto: "Il nostro modo di parlare, le nostre battute, qualsiasi cosa diciamo, ha a che fare con i film di Carletto" e da lì ne abbiamo tirata fuori una sfilza di film di Carletto, e io gli ho raccontato, ad Andy Capp, che sul sito suo  ci stanno un sacco di cose stupende, tipo le canzoni di Morricone di "Bianco, Rosso e Verdone", il tema di Marisò, e tutte le scenette più divertenti, per esempio quella dell'Aci di Furio, il personaggio comico di Verdone meno amato da Sergio Leone, insieme a un sacco di scritti suoi, di Verdone, uno su tutti quello in cui racconta la sua storia con Alberto Sordi, un altro che noialtri romani teniamo stretti sul cuore ogni volta che apriamo bocca o facciamo qualsiasi cosa. Abbiamo brindato a queste cose qui, a Verdone in particolare, ad "Acqua e Sapone" che io, ubriaco di sei Cuba Libre, non riuscivo a ricordare il titolo e allora a un certo punto ho detto: "Aho, quello che c'ha una cosa tipo er sapone ner titolo", perché noi, quando siamo appena appena brilli, ma che dico?, noi, appena ci allentiamo il nodo della cravatta, parliamo subito in romanaccio e facciamo proprio come Verdone in uno di quei film lì, a metà strada tra la timidezza e il dominio dell'universo e ci sentiamo bene, benissimo, ci diciamo un sacco di cose sulle donne che non dovrebbero essere dette e poi, sempre tornando sul discorso Verdone, che è stato il leit motiv dell'ubriacatura epocale, ci siamo trovati tutti e due d'accordo, Andy Capp ed io, che un altro grande romano, invece, non ha mai raggiunto le vette del collega e amico e cognato: Christian De Sica.

Uno con quel nome, ci siamo detti, lo ha mai fatto un film veramente indimenticabile? Ci abbiamo pensato, ravanando nella nostra memoria trash il più profondamente possibile e ci siamo detti no, a parte i primi "Vacanze di Natale" che però erano corali, fatti di tanti protagonisti, niente affatto "De sica-centrici", come invece sono tutti i più grandi film di Verdone, ecco, a parte, volendo proprio fargli una concessione, quei primi "Vacanze di Natale", si può dire che De Sica, a differenza di Carlo, non abbia mai fatto un film degno di passare alla storia degli uomini.

Comunque poi la mortazza è finita e io ho telefonato per farmi portare la pizza, boscaiola bianca per me e margherita per F., ed Andy se n'è andato a casa a mangiare la pasta, e dopo un po' è arrivata F. e abbiamo mangiato la pizza, io in piedi, perché sennò vomitavo, e poi ci siamo messi sul divano e abbiamo visto su Sky "Febbre da cavallo" commentando tutte le scene in romanaccio - si vede che era una serata così - e a me, che stavo perdendo l'ubriacatura poco a poco, m'è sembrato che, tutto sommato, non lo so, non mi ricordo bene cos'ho pensato, però mi è venuto da rannicchiarmi sul divano.

Storie toscane – 1. Il problema dei pali

Ferrara sud, tre giorni in ritardo sul previsto, caricata alla benepeggio la rombante MelaUno infine si parte per la Toscana.
- Scegli un numero da 1 a 25 - dico a Puntini
- Che significa? - mi fa incuriosita.
- Li dentro - indico il vano portaoggetti della MelaUno - ci sono 25 cd impilati nella torretta di plastica. Scegli un numero, conta e pesca il disco corrispondente, secondo tradizione vigente in ogni vacanza che si rispetti, dal Roadtrip con Attimo in avanti. Ma prima l'inno.
Metto su la sigla di inizio: Baba O'Riley degli Who, mentre l'asfalto dell'A13 avanza rapido verso la capitale del tortellino. Poi Puntini pesca: 883.883-GliAnni-front.jpg
- Cosa?
- 883. Gli anni. The best of.
- Che culo. Ti è andata bene eh? Sei contenta?
Ora non che fosse li per caso quel disco, l'avevo preso su casomai ci andasse una cantata revival della nostra infanzia ma quando è culo è culo. Puntini raggiante carica il disco e da li ai colli è un fiorire di Come mai, Nella notte, Nordsudovestest e parole mandate a memoria come solo un tempo ero capace di.

Arriviamo a Montepulciano che ha fatto notte da poco. Arrivare in Toscana è uno scherzo da Bologna, il problema maggiore è MelaUno che nei pezzi più ripidi fatica a tirare a velocità da autostrada e si becca abbaglianti, strombazzate, fanculi prepotenti di chi possedendo un Mercedes vuol sbizzarrirsi sugli italici viadotti. Tant'è, si arriva, si parcheggia e si va a mangiar qualcosina che la fame è tanta e la cucina è buona. Il mattino dopo saremmo ripartiti verso il mare, destinazione Castagneto Carducci, campeggio in pineta.
Alle otto e trenta del giorno seguente, sveglio da circa 3 minuti, riverso sul letto assaporando la luce filtrante da dietro la tapparella ho una visione: i pali.
- Ehm
- Che c'è?
- Sai una cosa? - dico beatamente come se non rappresentasse chissà quale problema - Temo di aver dimenticato i pali della struttura della tenda.
- Cosa cazz?
- Eh mi sa di si. Non ci sono nella borsona della tenda ne sono quasi sicuro. Ci sono i picchetti, il martello, ma è una sacca ovale non ci possono essere anche i pali. Mi sa che li ho lasciati in garage.
- Sei un disastro. Ed ora come diavolo facciamo?
- Eh... - prendo tempo cercando una soluzione geniale che non mi viene quindi propongo un banale - li compriamo nel negozietto interno del camping... li avranno di sicuro no?
- Lo spero  v i v a m e n t e  per te.


Per raggiungere Castagneto, in provincia di Livorno, siamo costretti a risalire l'autostrada fino a Firenze e poi prendere la famigerata Firenze-Mare. All'altezza del capoluogo toscano inizia a piovere, non forte. Di più. L'intera carreggiata è una pozza d'acqua e tutti procedono a rilento, così ci vogliono ore per fare pochi chilometri. Quando sono le sei e rotte del pomeriggio siamo ancora a Montecatini Terme, fermi in un autogrill per paura dei fulmini con delle schicchere che cadono poco lontano in un tripudio di festosi scrosci d'acqua. Il campeggio accetta gente fino alle otto di sera.

Passata la pioggia riguadagniamo velocità di crociera, che con la possente MelaUno si attesta a 130 massimo con punte sporadiche di 140 in discesa e forti vibrazioni che ti costringono a desistere. Arriviamo al campeggio alle 19.40 quando mancano soli venti minuti alla chiusura delle accettazioni. E' fatta. Vittoria. Appena in tempo.
Il tipo mi prende i documenti, ci assegna una graziosa piazzola in mezzo a campeggiatori di vecchio grido con tanto di roulotte, tv 16:9 e Sky, verande e divani, così tanto per far sfigurare noi albanesi. Senza pali per di più.
- Senta scusi, ho un problema devo comprare dei pali per la tenda altrimenti non posso accamparmi, a che ora chiude l'emporio qui dentro?
- Tra dieci minuti, spero che tu faccia in tempo. Salta su che ti porto io dai.
Saliamo su un caddy elettrico delizioso con il quale gironzoliamo in mezzo ai campeggiatori finchè il tipo del camping frena davanti ad una bella ragazza mora lungo il vialetto. Adesso questo si fa pure i cazzi suoi, penso io, e noi abbiamo fretta.
- Ma che hai già chiuso? - dice alla ragazza
- Si proprio ora... avevi bisogno? - fa lei.
- Ci son questi due ragazzi che vorrebbero comprare i pali della tenda che han dimenticato. Che bischeri! Via, non potresti riaprire?
Prendiamo a bordo la ragazza mora e proseguiamo verso l'emporio. La ragazza riapre, ci mostra i modelli e io spavaldo vado a colpo sicuro. Li guardo un attimo e concludo che vanno benissimo questi due. Due. Una tenda, due pali. Che pretese. Pago una fortuna degli stupidi pali che non userò mai più fregandomene della faccia dubbiosa di Puntini che fa notare:
- Con due pali come pensi che stia su?
- Tranquilla si infilano nella tela e reggono.
Zitta donna, lasciafareammè. Che ne sa lei di fisica? Io ho preso un sudatissimo 23 in Fisica Generale I, cribbio!

Il problema effettivamente c'era, e l'avrei scoperto a breve. Vi spiego con un grazioso disegnino. Questa è la mia tenda:

tenda.jpg

e questi sono i due pali che ho comperato all'emporio.

tenda2.jpg

Peccato però che alla struttura mancasse completamente un pezzo e per le sacrosante leggi della fisica che il mio 23 non mi aveva trasmesso non avrebbe potuto nemmeno per simpatia nei miei confronti stare su:

tenda3.jpg

Al limite avrei potuto sostituire le parti verdi con un semplice terzo palo centrale, da mettere interno ad innesto davanti all'ingresso della tenda. Scomodo ma efficace no?

No. Emporio chiuso. Scende la sera. Tenda montata a metà che non sta su. Puntini che sbraita. Ammissione di colpa, cenere in testa. Pubblico ludibrio. Vicini inutili pasteggiano nelle loro "case".
Voi, al posto mio, cosa avreste fatto? Pensateci e proponete una soluzione. Nella prossima puntata vi racconto cos'abbiamo combinato noi e perchè non è stata comunque una gran idea. 😉

Buffet

Le migliori foto di LondraNote sparse su alcune cose curiose
trovate a Londra

Le migliori foto di Berlino Do not walk outside this area:
le foto di Berlino

Ciccsoft Resiste!Anche voi lo leggete:
guardate le vostre foto

Lost finale serie stagione 6Il vuoto dentro lontani dall'Isola:
Previously, on Lost

I migliori album degli anni ZeroL'inutile sondaggio:
i migliori album degli anni Zero

Camera Ciccsoft

Si comincia!

Spot

Vieni a ballare in Abruzzo

Fornace musicante

Cocapera: e sei protagonista

Dicono di noi

Più simpatico di uno scivolone della Regina Madre, più divertente di una rissa al pub. Thank you, Ciccsoft!
(The Times)

Una lieta sorpresa dal paese delle zanzare e della nebbia fitta. Con Ciccsoft L'Italia riacquista un posto di primo piano nell'Europa dei Grandi.
(Frankfurter Zeitung)

Il nuovo che avanza nel mondo dei blog, nonostante noi non ci abbiamo mai capito nulla.
(La Repubblica)

Quando li abbiamo visti davanti al nostro portone in Via Solferino, capimmo subito che sarebbero andati lontano. Poi infatti sono entrati.
(Il Corriere della Sera)

L'abbiam capito subito che di sport non capiscono una borsa, anzi un borsone. Meno male che non gli abbiamo aperto la porta!
(La Gazzetta dello Sport)

Vogliono fare giornalismo ma non sono minimamente all'altezza. Piuttosto che vadano a lavorare, ragazzetti pidocchiosi!
(Il Giornale)

Ci hanno riempito di tagliandi per vincere il concorso come Gruppo dell'anno. Ma chi si credono di essere?
(La Nuova Ferrara)

Giovani, belli e poveri. Cosa volere di più? Nell'Italia di Berlusconi un sito dinamico e irriverente si fa strada come può.
(Il Resto del Carlino)

Cagnazz è il Mickey Mouse dell'era moderna e le tavole dei Neuroni, arte pura.
Topolino)

Un sito dai mille risvolti, una miniera di informazioni, talvolta false, ma sicuramente ben raccontate.
(PC professionale)

Un altro blog è possibile.
(Diario)

Lunghissimo e talvolta confuso nella trama, offre numerosi spunti di interpretazione. Ottime scenografie grazie anche ai quadri del Dovigo.
(Ciak)

Scandalo! Nemmeno Selvaggia Lucarelli ha osato tanto!
(Novella duemila)

Indovinello
Sarebbe pur'esso un bel sito
da tanti ragazzi scavato
parecchio ci avevan trovato
dei resti di un tempo passato.
(La Settimana Enigmistica)

Troppo lento all'accensione. Però poi merita. Maial se merita!
(Elaborare)

I fighetti del pc della nostra generazione. Ma si bruceranno presto come tutti gli altri. Oh yes!
(Rolling Stone)

Archivio