Se il buongiorno si vede dal mattino, entrare in paese dalla naturale porta di ingresso della statale 17bis del Gran Sasso rende bene l'idea della situazione drammatica che vi si potrà trovare. Villa Santa Lucia degli Abruzzi è un paese di una sessantina di anime, a 40 km in linea d'aria da L'Aquila, sulla strada che dalla statale per il capoluogo sale su verso Castel del Monte e poi Campo Imperatore. Un paese piccolo, con una piazza, un bar, una chiesa, un campo di calcio e un cimitero, senza molte pretese, all'interno del Parco Nazionale d'Abruzzo. Da circa 26 anni è il paese dove trascorro parte delle vacanze estive, invernali, e svariati weekend durante l'anno: ci vive la nonna paterna, e sono spesso da quelle parti anche cugini e zii. Ho una casa in cui abito, un'altra più piccola finita di ristrutturare da poco appena adiacente e un terzo appartamento che affittiamo a chi cerca un po' di pace per un weekend, o per trascorrere le vacanze estive e che su questo sito è reclamizzato più in basso con il nome "Casa Ciccsoft". Da circa dieci giorni Villa è anche uno dei 49 comuni colpiti dal devastante terremoto del 6 aprile scorso.
Entrare in paese, dicevo, lascia subito disorientati: la statale è completamente chiusa e il traffico viene fatto deviare su stradine secondarie in mezzo ai campi, che costeggiano la frazione Carrufo, e risalgono una volta superato il paese proprio sotto casa mia, sull'aia antistante il cimitero. Non passano corriere, non passano camion o mezzi pesanti: il paese è completamente isolato a causa di alcuni edifici prominenti la strada che in apparenza presentano appena qualche crepa ma che all'interno sono parzialmente crollati o comunque dichiarati non agibili.
A differenza del capoluogo abruzzese, dove è crollato l'intero centro storico e in larga parte sarà necessario radere al suolo per ricostruire, Villa mantiene apparentemente la sua dignità esteriore. Non fosse per le recinzioni che circondano gli edifici pericolanti e le numerose transenne che impediscono di girare liberamente per il paese sembrerebbe tutto a posto. Ma non è così. La zona più colpita è la piazza principale: una grossa casa di tre piani presenta delle crepe profondissime e se continuano le scosse rischia di collassare da sola. Era stata da poco ristrutturata e nonostante tutto sarà probabilmente demolita. Insieme ad essa la casa poco distante che un tempo si affacciava come baluardo sulla piazza, proprio sopra la tettoia del mitico Bar Bellavista, ormai chiuso da anni. Le crepe sono così profonde che l'intero edificio si è appoggiato letteralmente a quello a fianco, che a sua volta ha messo a rischio quello a fianco e così via. Un intero blocco di edifici che va dall'inizio della piazza all'attuale bar di Pierino è talmente in bilico che basterebbe qualche nuova scossa sopra la media a farlo venire giù come un castello di carte. Chi ricorda le estati nel grottino di Ezio a seguire Olimpiadi e Mondiali di calcio sa che parliamo di un luogo quasi mitico, come la stretta scalinata davanti, teatro di ritrovi e chiacchiere infantili, o il muretto su cui trascorrono le serate gli adulti del paese.
La via che conduce alla tabaccheria di Bina è chiusa, parte delle strade nella zona più a sud sotto la fonte sono chiuse o pericolose. La chiesa è inagibile e una grossa crepa squarcia la navata centrale, il ristorante aperto da poco è chiuso, i proprietari impauriti scappati verso il mare in attesa di tempi migliori. L'asilo e il comando sono pericolanti, l'edificio che avrebbe dovuto diventare il nuovo alimentari dopo la scomparsa di Fioretta e del suo storico bazar è danneggiato. Il bar, teatro di quel residuo di vita sociale rimasto durante l'anno in paese è stato dichiarato inagibile pochi giorni fa e ha le ore contate. Ci vorranno anni per ricostruire le case danneggiate, o per ottenere i finanziamenti per sistemare quelle agibili. Quel poco di turismo che timidamente iniziava ad affacciarsi complici un paio di bed&breakfast e un ristorante, sparirà nel caos dei mesi che verranno, riportando il paese indietro di vent'anni in una sola notte. Facile capire che il colpo al cuore di questo paese tra le montagne dell'appennino è stato ampiamente dato e il morale della popolazione locale è ampiamente a terra. Non è solo il crollo di una casa a portare disperazione, ma stravolgere le abitudini e l'identità di una terra, cambiarne tradizioni consolidate. A creare disagio è avere ottant'anni e stare in una tenda: che la casa sia crollata con quei quattro mobili vecchi non ha poi molta importanza se non puoi comunque viverci dentro per mesi perché inagibile.
Nuovo centro della vita del paese è ovviamente la tendopoli allestita dalla Protezione Civile. Ai bordi del paese, sul campo di calcetto in cemento 6 grosse tende blu marchiate "Ministero dell'Interno" assicurano riparo da freddo e pioggia per alcune famiglie. Hanno tutto l'occorrente per dare assitenza medica, per le trasmissioni radio e tutto il resto: quando andiamo a vedere la situazione ci mostrano orgogliosi tutta l'attrezzatura, in parte acquistata per passione dagli stessi volontari. E' in casi come questi, ci viene spiegato da un volontario di Cremona, che la Protezione Civile si organizza e opera al meglio. Fino a pochi anni fa era un'organizzazione molto disordinata e in generale durante l'anno le esercitazioni e i test non sono sufficienti a dare compattezza tra i volontari della penisola. Per i bagni vengono utilizzati un paio di wc chimici e quelli degli spogliatoi del campo. Fortuna vuole che verso la fine degli anni ottanta venne costruita una grossa struttura proprio a fianco del campo, un bocciodromo coperto, un grosso capannone quasi mai utilizzato ma perfetto per gestire un'emergenza simile. Qui si sono stabiliti in particolare gli anziani del paese, la maggioranza, creando piccole zone all'interno, una con i letti, una con i tavoli, una per la cucina. I pasti arrivano dalla tendopoli di Castel del Monte e vengono distribuiti in abbondanza a chi è presente in paese anche solo qualche giorno. In un tentativo di ricerca di normalità si celebra perfino la Messa, la domenica mattina alle nove e mezza all'interno del capannone, tra gente che russa ancora e devote raccolte in preghiera.
Di giorno la salita che conduce al bocciodromo e al campo di calcetto funge da nuova piazza, dove incontrare gli sfollati, la gente di passaggio venuta a controllare lo stato della propria casa, e le forze dell'ordine che pattugliano continuamente la situazione. Solo i suv dei giornalisti Rai passano e non si fermano: qui non c'è molto da raccontare o da mostrare a loro avviso.
I più anziani di giorno stanno seduti su seggiole di plastica a far passare il tempo: chi taglia l'insalata, chi gioca a carte, chi guarda per aria triste senza dir nulla. Quando hanno vissuto la Guerra erano giovani ed oggi rimanere fuori di casa è per loro doppiamente faticoso. La notte qualcuno si sveglia per le scosse che non finiscono mai e grida esasperato che vuol tornare a casa, qualcuno non prende sonno, qualcuno russa e disturba gli altri. La convivenza forzata ha i suoi alti e bassi: i bagni non sempre puliti, orari ed abitudini diverse, mancanza totale di privacy. I volontari della Protezione Civile sono presenti per ogni evenienza e stanno svolgendo un lavoro eccellente: sono giunti in elicottero persino degli scatoloni con vestiti e derrate alimentari da distribuire ad ogni famiglia sfollata. Chi può di giorno fa una passeggiata, cerca di riprendere il suo lavoro nei campi, si distrae cercando di non pensare al futuro: qualcuno ha la casa distrutta dove risiede a L'Aquila, è fuggito a Villa per constatare che anche la casa natìa è danneggiata e ora si trova nelle tende, mandando i figli a studiare altrove per non fargli perdere l'anno.
Il pensiero di tutti ora va all'estate, solitamente il momento in cui il paese si ripopola e tornano gli emigranti dal Canada o dal nord Italia dove sono andati a cercare fortuna. Tutte persone che troveranno le proprie case inagibili e forse non verranno del tutto, o dovranno fare i conti con la tendopoli ancora allestita in attesa della ricostruzione berlusconiana che per orgoglio pretende di passare dalle tende alle case senza passaggi intermedi. Niente feste patronali, niente banda che passa tra i vicoli, niente fuochi d'artificio: sul paese è calato un silenzio spettrale e sono appena un paio le case con un comignolo fumante, compresa la mia dove si è rifugiata la mia stoica nonna che resiste solitaria al primo piano mentre al piano di sopra grosse crepe minacciano le camere da letto. Casa sua è inagibile per almeno sei mesi, pare. Il momento di rimboccarsi le maniche non è comunque ancora arrivato, in attesa della fine delle ostilità dopo quasi quattro mesi di scosse da dicembre. Un'attesa logorante per tutti, convinti di non rivedere più il paese come era una volta e come forse a questo punto non sarà più.
L'augurio è che oltre a ricostruire quello che è stato ampiamente danneggiato non ci si perda d'animo e non si lasci morire un paese che iniziava a darsi da fare e a farsi conoscere. Che non si resti in attesa solo dei finanziamenti statali o non si colga l'occasione per furbizie di ogni tipo: c'è bisogno prima di tutto dello spirito degli aquilani, della forza e dell'unione di tutti per proseguire quel cammino che è stato interrotto un mese fa. C'è bisogno che tutti quei cantieri aperti, davvero tanti, vengano ripresi e conclusi, e non rimessi in vendita scoraggiati da ulteriori danni che ora bisogna mettere in conto prima di proseguire con i restauri. Ci sono ancora molte case bellissime da ristrutturare, alloggi, attività commerciali che si possono intraprendere senza attendere pigramente il mero contributo per sistemare il minimo. Nessuno si creda assolto: il dovere morale di proseguire nello sviluppo di una terra è ciò che più di ogni altra cosa dovrebbe stare a cuore a tutti i cittadini colpiti da questa disgrazia. Serviranno anni ma se sapremo guardare oltre il confine del nostro orto e, sistemate le nostre case, rimboccarci le maniche per ricostruire innanzitutto un paese, la sua storia e le sue tradizioni, potremo dire di aver vinto la battaglia.