L’impostazione, dico, l’impostazione prima di tutto, prima di fare scelte, prima di mettere sui bilancini i prezzi, i costi e ricavi, la partita iva e la partita persa, prima di rintracciare avvocati per esaminare contratti da stracciare per avvolgerci il pesce di venerdì, i piedi il sabato, la testa la domenica, e il lunedì farci un buco per respirare, due buchi per guardare, tre buchi per piangere, quattro per ridere che tanto con tutti questi buchi finisce comunque per strapparsi ed arriva venerdì e il pesce senza carta inizia a puzzare.
Prima di scrivere uno spartito, fai caso a che giro di accordi vorrai usare, il do minore non sta bene con il si bemolle, il la fa rima con fa e non con il sol, il sol si piega, secondo me la corda sul sol si sente anche un po’ triste, facci caso a queste cose prima di buttare giù il pezzo della tua vita, quello che dedicherai alla tua fidanzata quando ti lascerà (perché ti lascerà, e lo sai), quello con cui festeggerai la tua nuova casa, quello che metterai sul al tuo funerale. Oggi ho cambiato idea, non voglio più Let it be, ma Ok with my decay, è più rappresentativa ed è sufficientemente lunga per perdere di vista il momento e distrarsi e dimenticarsi che siamo, siete peraltro, a un funerale, ringraziatemi quindi e procuratevi uno stereo e non abbiate paura a decidere finché siete in vita cosa mettere su al vostro funerale, non abbiate paura di cose che non potete controllare (a parte che canzone far mettere su). Non abbiate paura a dire le cose con il loro nome, a non fare male, a trattenersi quando vorreste sfogarvi e a strafare quando si dovrebbe tacere. A confondere voi stessi.
Sette anni fa (sette-anni-fa) avevo ventun’anni ed aprivo un blog scrivendo Salve mondo, una frase che solo gli ingegneri potevano capire, io che gli ingegneri mi stavano un po’ sul cazzo, io che un ingegnere lo sono diventato, almeno sulla carta, quella sì buona per avvolgere il pesce, invece sta nell’armadio a prendere polvere nel Reparto “Cose che non voglio vedere per un bel po’”, appoggiata sopra alla foto che mi hai fatto a Talamone, che non sono più riuscito ad appendere, anche perché svegliarsi ogni mattina e come prima cosa vedere me stesso mi fa un po’ impressione, sarebbe meglio vedere tipo te, o te, o voi, o magari anche nulla, va benissimo anche una porta socchiusa (così di notte fa corrente) di legno colorato, il legno fa un buon odore e la prossima volta che torno in montagna (perché non voglio far passare altri trentanni prima di fare le cose) non vado sulle rocce, a fotografare marmottine o a farmi screpolare le labbra dal vento e dal sole d’alta quota, mi infilo in una segheria e non esco più, tra montagne giganti di segatura, rotolarsi nei trucioli, mangiarsene anche qualcuno non perché è buono ma perché è bello, farsi una parrucca di trucioli, un vestito di frassino, delle scarpe in pioppo, un’avvolgente cuscino di larice, voglio dormire sopra delle assi di legno, sopra e sotto, non fraintendete, non voglio dormire in una bara ma tra i tronchi grandi così che non riesci nemmeno ad abbracciarli per intero, come quello che volevamo rubare di nascosto parcheggiando l’auto a fari spenti ai piedi della salita sotto l’hotel mentre tutti dormono. La prossima volta, sicuramente prima di trentanni, vado in montagna a farmi adottare da un falegname, che se devo imparare qualcosa, un mestiere, se voglio finalmente sentirmi qualcuno, non me ne frega un cazzo di sentirmi uno scrittore, un giornalista, un lavoratore, un proletario, un giovane, un non giovane, un non adulto, un quasi adulto, un tardoadolescente, uno simpatico, uno simpatico e basta, un lamentoso, un ipersensibile, uno che ascolta, uno forte, un rompicoglioni, un perdente, un perdente che non vuole vincere, un perditempo, un affettuoso, un romantico, ecco, non mi interessa romantico, io voglio essere un falegname anche se mi dispiace fare del male agli alberi, infatti mi volterei dall’altra parte mentre i taglialegna, quei cattivoni dei taglialegna li buttano giù nel bosco (dove tra qualche settimana iniziano a crescere i lamponi, ho controllato), il posto dove mi ritirerò quando avrò sessantanni e nel frattempo saranno passati questi benedetti trentanni in cui abbiamo rimandato tutto, le rivoluzioni delle persone, le risposte senza monosillabi che francamente hanno stancato, lo sai usare il vocabolario, i preventivi ribassati altrimenti non ci danno il lavoro. Ma tu pensa, trentanni di preventivi ribassati per il ricatto morale di un mondo che ci vuole a buon mercato (e a cattivo viso), con la penna che trema se bisogna aggiungerci uno zero, mentre dovremmo invece piazzarci ben due, di zeri, e ricalcarli ripetutamente con la Bic nera fino a bucare il foglio, poi infilarcelo davanti come una maschera e guardarlo dritto negli occhi, sopra le gotE, e dirgli: guarda che ti sbagli, guarda che noi facciamo i falegnami nei boschi, intagliamo il legno e costruiamo sedie, mobili, finestre, porte, case che sanno di legno e non sanno di intonaco, le nostre case se piove si gonfiano le tue crollano, le nostre case di legno se piove diventano più scure ma poi si asciugano e tornano come prima, come sette anni fa.
Hai capito insomma, smettila di mangiarti le unghie e fai come ti dico: l’impostazione, prima di tutto. Mettiti il vestito peggiore che hai, quello con le toppe, metti la tua tuta ecco, l’inseparabile tuta in crilico che puzza ancora di palestra da liceo, datti una spettinata, apri l’uscio di casa (in metallo, terribile il metallo), fai entrare le zanzare, e poi chiudile dentro, lascia che si pungano tra di loro, che si riproducano dentro il formaggio del tuo frigo (avrai lasciato aperto anche quello, sei un buon padrone di casa) e depositano le uova nelle nostre cocacole sgasate. Non ti servirà più scegliere, se hai scelto l’impostazione giusta. Che poi c’è sempre l’altro che mi dice che il giusto non esiste, che è tutto giusto e tutto sbagliato, che ci sta tutto. Ci sta tutto, anche che io non me ne vada mai di qui, magari resterò l’ultimo di noi, magari imparerò da solo a incidere il legno sfasciando camera mia, buttando giù a mazzate il mio lettone-armadio, lasciando in piedi solo quello di mia sorella per ricordo, il simulacro di un’esistenza fissa in un posto, di un’infanzia dove se ti alzavi di scatto dal letto finivi per sbattere la testa, un po’ come tirare le redini a un cavallo imbizzarrito, un bernoccolo per ogni erezione, prima o poi quella testa dura imparerà. Resto qui da solo mentre voi siete in Australia, Francia, Germania, Umbria, Toscana, Campania, Sicilia, Lombardia, Usa a curare l’impostazione (mi raccomando) e io tiro giù a mazzate la scrivania, il tavolo, le imposte delle finestre, tutto questo legno dipinto, rigato, tenuto insieme con colla e viti, tutto giù, per rimontarli in forme diverse che non devono, non devono per nulla al mondo ricordare quello che sono stati. Una sedia diventerà un comodino, un letto una scrivania, la porta una finestra, una finestra diventerà soltanto un buco rettangolare nel muro, da dove entreranno le zanzare e da dove si intrufolerà chi gli verrà voglia di tornare. E sarà bello non avere niente da dirci, perché dopo trent’anni si finisce per dimenticarsi che cosa si voleva dire, ce l’avevo qui, sulla punta della lingua, ma ho finito per morsicarmela.