E’ già tutto irrimediabilmente compromesso quando la palla viene blandamente respinta dalla difesa azzurra, sciolta come tanti cubetti di ghiaccio disseminati sul prato e dimenticati al sole, e inizia a planare verso il centrocampo. Siamo già nel secondo tempo, e siamo già affondati sotto le pugnalate della Spagna. Il pallone rinviato in qualche modo da Barzagli sembra un dirigibile forato, lascia dietro di sè una lunga scia di amarezza, e come una foglia morta, la palla cade flaccida nella zona di Andrea Pirlo, circondato da avversari molto più in forma di lui. Pirlo osserva il pallone con gli occhi spenti, una sfera che ancora non si adagia sul campo impedendogli di fare forse l’unica cosa che potrebbe salvare le sorti della nostra Nazionale: toccarlo con i piedi. Invece il pallone rimane sollevato da terra, sospinto da immanenti campo magnetici spagnoli che trascendono la gravità e i limiti umani, e così non può ascoltare le promesse che i piedi di Pirlo sarebbero pronti a fargli: “cadi pallone, e io ti porterò ancora una volta in spazi aperti, cadi pallone, lasciati prendere tra le mie gambe stanche e ancora una volta, forse l’ultima, io saprò ancora dirti le parole che vuoi sentirti dire”. Invece il pallone cadrà lontano, disegnando una parabola inutile su cui andranno ad appendersi gli occhi di Pirlo e le nostre speranze, bagnate come vestiti centrifugati, ed è in quel preciso momento che si manifesta tutta l’impotenza dell’Italia contro la Spagna. Perderemo 4 a 0, quattro(cento) colpi ai nostri sogni covati durante giugno che non hanno saputo resistere all’estate. Primule sfiorite.
Se siamo arrivati a singhiozzare dopo una finale di un Europeo, lo dobbiamo essenzialmente al curato di provincia che ha rivoluzionato il nostro modo di giocare a pallone. Prandelli ci ha portato a giocarci la coppa con la Spagna, a dispetto di limiti strutturali nella rosa e nel movimento, e forse sarebbe giusto giudicare anche la finale attraverso i suoi insegnamenti. Ma le quattro ferite che portano i nostri ideali fanno liberare le gabbie dentro cui abbiamo tenuto nascosto gli avvoltoi, che già iniziano a volteggiare sugli schermi televisivi, sui giornali del giorno dopo e sulle teste di molti italiani che giocano a fare i tifosi.
Partita dopo partita, in questo Europeo abbiamo scardinato porte di antichi pregiudizi e retaggi insormontabili. Nessun nemico al nostro fianco, nessun salvatore della patria uscito dal cilindro, nessuna trincea scavata nell’erba. Molte parabole, sul nostro cammino, quella dell’Insegnamento, della Presa di Coscienza, dell’Ottimismo e dell’Attesa, valori quasi contadini innestati nel cuore di bulletti e mangiatori di merendine che si sono ricordati come si sta in campo. Restava l’ultima porta, da aprire, la porta del Trionfo, unico e definitivo giudice che dirime tra buoni e cattivi. Ad attenderci, al suo interno, seducenti femmine che intrecciavano passaggi come fossero acconciature, che lavoravano la palla come merletti, bagnando la punta dell’ago con il nostro sudore. Siamo arrivati di fronte ai Campioni di Tutto armati soltanto dello stupore per esserci, prima di tutto. Ma già sfiniti, sfibrati, sparpagliati sul tavolo in milioni di pezzettini: il prezzo da pagare, per superare se stessi. E’ finita nell’unico modo in cui poteva finire, come quando si sogna abbastanza da muoversi nel letto, e si cade sul pavimento sbattendo la testa. Lacrime.
Prima ancora di stabilire l’utilità di certe sostituzioni (panettone Motta), o di brandire il manifesto del logorio fisico (sebbene a mio modo decisivo, a parità di energie sarebbe finita ben diversamente, perlomeno nelle proporzioni della sconfitta), Spagna-Italia ci ha ricordato come non sempre basta voler essere felici, per esserlo davvero. Eppure fermiamoci a un passo prima, sul ciglio della porta, appunto, fermiamoci allo snodo decisivo di questa Storia in sei atti, mentre studenti erasmus iberici ghermiscono le nostre piazze svuotate immediatamente dalle lacrime puerili di Bonucci e Balotelli.
Ho amato molto questa Nazionale 2012 di Prandelli non perché sia arrivata così vicino dal vincere, o perché ci abbia mostrato un livello di gioco moderno ma ragionevole, affascinante senza scadere nello stucchevole, dal piglio artigianale, di quelle cose fatte a mano che sanno unire grazia nei movimenti e praticità negli approcci. No, ho amato questa Storia se vogliamo molto da oratorio, quasi da fiction di Raiuno, per averci inchiodato ai divani e ai maxischermi con una semplice domanda: vogliamo provare ad essere felici, ogni tanto? Aldilà dei moduli tattici, delle giocate dei singoli e dello spirito di gruppo (concetti se vogliamo anche un po’ aleatori, funzionano quando funzionano, un po’ come gli oroscopi che ci prendono il giorno dopo), resta prima e dopo di tutto questa domanda.
C’è stato un momento, nella storia del Calcio italiano, in cui la Nazionale si è fatta questa domanda, e di riflesso l’ha posta a noi, vogliamo provare ad essere felici, almeno una volta, ogni tanto? Una domanda da tradurre in campo, e non nell’economia, nella politica e nelle nostre vite di tutti i giorni, perché trattasi sempre di partite, o di metafore, eventualmente, ma qui nessuno ha il fegato di spacciarle per consigli di vita. Per una Nazionale avere voglia di essere felici è cercare di vincere rinnegando retaggi, proponendo un centrocampo di piedi buoni e idee argute, quasi divertendosi, a giocare in modo illuminato, provando a inventare qualcosa, invece che distruggere soltanto. E’ solo calcio, deve aver detto Prandelli negli spogliatoi, ed è tutto qui: è solo provare ad essere felici, deve aver chiesto Prandelli ai suoi giocatori, e se dopo un Europeo così, ci è venuto il dubbio anche a noi che guardavamo soltanto, forse essere tifosi della Nazionale ha ancora un qualcosa di dignitoso.
Ed è molto inquietante e molto inevitabile, in un certo senso, vedere come porci certe domande, su di noi, e sulla felicità, abbia frantumato le ginocchia di De Rossi, abbia colorato di rosso gli occhi del nostro pianista, Andrea Pirlo, ci abbia fatto precipitare come primule sfiorite. Sommersi dalla maestria spagnola, da 4 colpi alle nostre velleità che ora, spenti i riflettori, ora che si torna alla normalità disgustosa del calcio italiano, rimarranno davvero molto sole. Lontanissime da qui.
(su Someone Still Loves You, Bruno Pizzul ho fatto le due ogni notte dopo la partita della Nazionale, provando a tracciare un bilancio più emotivo che tecnico. Questa è l'ultima analisi emocore, quella della Finale. Ed è solo calcio, per fortuna)