LA PRIMAVERA DI PRAGA
di Giulia
Piccolino
Nel marzo 1968, con la destituzione del filo-sovietico e
autoritario Novotný e la nomina di Alexander Dubcek a segretario
generale del Partito comunista cecoslovacco inizia la Primavera
di Praga, un intensissimo periodo di democratizzazione e
rinnovamento della società a cui tutta la popolazione dà il suo
contributo. Ma le volontà riformatrici dei cechi si scontrano
con la repressione sovietica: il 21 agosto dello stesso anno le
truppe del Patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia,
mettendo fine all’esperimento che si era meritato il nome di
“socialismo dal volto umano”. Un libro ci aiuta a rievocare
quell’epoca, un libro che potrebbe servire anche per una
riflessione più critica e profonda sull’oggi e sulla nostra
società….
“Per i vincitori
di ieri e di oggi la Primavera di Praga è un capitolo chiuso.
Gli uni, con la loro precisione inquisitoria l’hanno condannata
come controrivoluzione, gli altri si comportano nei suoi
confronti con compiacente orgoglio come nei confronti di
un’anticipazione timida e imperfetta della perfezione
contemporanea che è la restaurazione del capitalismo e la
mediocre, limitata democrazia a esso corrispondente”
Karl Kósik,
dicembre 1998
Nessuno pare ormai
più ricordare la Primavera di Praga. Essa non è entrata nel mito
come la Rivoluzione cubana o la guerriglia zapatista, né nessuno
attaccherebbe le foto di Dubček alle pareti della propria
camera, forse anche perché in un mondo dominato dall’immagine e
dal sensazionale è difficile che a un personaggio tranquillo e
prudente che non ha voluto morire da martire sia riconosciuto lo
status di eroe. Eppure sarebbe il caso di tornare a interrogarsi
su quell’esperienza, che ha rappresentato il tentativo più
originale e coerente, anche se sfortunato, di passare da un
“socialismo reale” a un “socialismo vero”. Come mai intorno a
essa si è steso questo velo di dimenticanza? Forse perché, in
fondo, non fa comodo a nessuno. Non fa comodo ai sovietici che
soffocarono il processo di rinnovamento (per dare un’idea, per
l’invasione della Cecoslovacchia furono mobilitati 6300 carri
armati, mentre Hitler per invadere la Francia ne aveva
utilizzati solo 2500). Non fa comodo ai neo liberali occidentali
(che di liberale nel senso originario della parola hanno ben
poco) che si affannano a dimostrarci che il comunismo è
un’ideologia intrinsecamente e inevitabilmente totalitaria e lo
equiparano al fascismo (così hanno anche una giustificazione per
sdoganare il fascismo). E non fa comodo alla sinistra
istituzionale, che è passata dalla subordinazione al comunismo
reale e all’URSS alla subordinazione al liberismo sfrenato e
agli USA.
Ma che cosa
stavano veramente tentando di fare i cittadini di Praga in quei
frenetici giorni del 1968? A leggere il libro da poco pubblicato
da una piccola casa editrice fiorentina (Edizioni cultura della
pace, il titolo è: “Primavera di Praga e dintorni. Alle origini
dell’89”) non pare che l’idea dei riformatori cechi fosse di
imitare i paesi occidentali ritornando al glorioso capitalismo
liberista (cosa che ora nell’est Europa accade fin troppo). Ma
non pare nemmeno che si accontentassero di “correggere” un
tantino il sistema vigente in modo da renderlo più accettabile
senza cambiarne la sostanza autoritaria e illiberale o che si
riproponessero di tornare alle radici del comunismo, come diceva
di voler fare Gorbačëv. Piuttosto, l’idea era di battere
sentieri inesplorati, di creare una vera democrazia socialista
in cui “l’Uomo, e non il Partito o il Capitale veniva messo al
centro della vita collettiva, né i partiti in quanto tali” come
scrive Francesco Leoncini, curatore del libro. Ciò che stupisce
maggiormente fu la straordinaria partecipazione popolare al
processo riformatore. Ecco quello che scrive un giornalista
dell’Unità da Praga:
“appena saliti
sull’aereo i viaggiatori cechi si precipitano alla ricerca dei
giornali del loro paese. A Praga alle dieci del mattino non c’è
più nessun quotidiano… Se non è a qualche assemblea la gente si
affretta a casa per essere puntuale davanti alle radio e ai
televisori e ascoltarvi i dibattiti politici che vi si
succedono. Quasi improvvisamente l’intera Cecoslovacchia è stata
presa da un’autentica febbre politica…. Si è potuto vedere il
compagno Černík parlare ad una grande riunione operaia in una
acciaieria. Ma non parlava lui solo. Parlavano anche gli operai
con ogni sorta di intervento, di domanda e di proposte. Credo
che non si sia mai vista una simile esplosione di generale
democrazia quale quella cui si assiste oggi in Cecoslovacchia”
Schierati in prima
linea nel processo di rinnovamento furono gli intellettuali che
iniziarono una profonda riflessione sulle forme da dare alla
società cecoslovacca in trasformazione. Si riscoprirono anche le
radici umanistiche della cultura ceca e l’esperienza della
Repubblica Cecoslovacca tra le due guerre, un’esperienza segnata
dalla figura carismatica di Tomáš Masaryk, leader politico
socialista e nazionalista (nel senso ottocentesco e progressista
del termine: Masaryk non vedeva contraddizioni tra identità
nazionale e internazionalismo ma complementarietà) per cui la
democrazia era “la realizzazione politica dell’amore per il
prossimo”. La fine della Repubblica Cecoslovacca fu determinata
dall’aggressività dalla Germania hitleriana e dalla colpevole
debolezza e cecità politica delle potenze occidentali
(essenzialmente Francia e Gran Bretagna) che decisero di cedere
a Hitler la regione di lingua e cultura tedesca dei Sudeti senza
consultare neanche il governo cecoslovacco.
Questo dato
storico spiega anche il motivo della sfiducia dei cechi verso
l’occidente e la conseguente svolta verso il comunismo: a
differenza che negli altri paesi dell’est europeo prima del
colpo di stato sovietico, in condizioni di libere elezioni, i
comunisti erano già la più importante forza politica del paese.
Il partito comunista in Cecoslovacchia era quindi una forza
vitale e radicata nella società, ma allo stesso tempo la
Cecoslovacchia era stata uno dei paesi in cui, a causa della
politica di Novotný, il processo di destalinizzazione era stato
più lento e meno incisivo. Nel paese e nello stesso partito era
perciò nata una fortissima domanda di rinnovamento e libertà a
cui la Primavera di Praga tentò di rispondere. Ma, ancora una
volta, i cechi dovevano vedere negato il proprio diritto a
scegliersi un sistema politico libero e democratico: malgrado
Dubček (che aveva presente il fallimento della rivolta ungherese
nel 1956) non avesse mostrato la volontà di cambiare la
posizione della Cecoslovacchia nel contesto bipolare, le
autorità sovietiche non potevano accettare l’evoluzione che
stava maturando nel paese. Né i paesi occidentali, impegnati nel
processo di distensione con l’URSS, potevano e volevano fare
qualcosa. E così il 21 luglio la forza bruta delle truppe del
Patto di Varsavia stroncava la Primavera di Praga. Il famoso
filosofo marxista György Lukács, che era stato tra i
protagonisti del tentativo democratico ungherese nel 1956
avrebbe detto a proposito dei fatti Praga che con essi
“l’esperimento iniziato nel 1918 è finito”. Ma in occidente
molti comunisti continueranno a non accorgersene ancora per
molto tempo.
Il grande fascino
del libro “Primavera di Praga e dintorni” sta nel fatto che non
si tratta di un vero e proprio saggio storico ma di una raccolta
di testi e testimonianze di diversi autori e di diversa
tipologia che aprono spiragli su aspetti vari e talvolta curiosi
di un momento storico ma anche di un’epoca, una società e una
cultura. Tra quelli che più colpiscono, anche per i suoi forti
legami con l’oggi, c’è l’articolo commemorativo del filosofo
Karl Kósik, che è anche un duro atto d’accusa contro la
democrazia contemporanea, a cui viene contrapposta un’idea di
democrazia profonda e radicale, quella stessa idea che era stata
alla base dell’esperimento cecoslovacco. Sempre riguardo agli
aspetti culturali della Primavera è affascinante il saggio su
due intellettuali da noi sconosciuti, Richta e Patočka, che
furono tra i più attivi partecipanti al dibattito politico
promosso dai comunisti cecoslovacchi. In particolare dagli
scritti di Patočka (morto nel ’77 dopo un interrogatorio della
polizia) emerge una visione molto alta e morale della scienza e
del ruolo degli intellettuali e dell’ ”aristocrazia operaia” che
potrebbe farci sospettare che Patočka abbia scoperto in anticipo
su Paul Ginsborg il “ceto medio riflessivo”. Un altro scritto
particolarmente curioso per noi italiani è quello in cui si
analizzano le posizioni della stampa italiana (e il risultato
dell’analisi, va detto, non fa particolarmente onore a nessuno,
né alla stampa cattolica né a quella di sinistra). Non mancano,
ovviamente, i richiami all’esperienza della Cecoslovacchia
repubblicana (è il primo saggio del volume a occuparsene).
Infine, gli ultimi saggi allargano lo sguardo sull’intero
movimento del ’68 nell’est europeo (altro argomento troppo
spesso ignorato e dimenticato): sono particolarmente
interessanti quelli che riguardano la Polonia, dove gruppi di
studenti coraggiosi e anticonformisti si diedero da fare per
smontare le falsità e ipocrisie del governo di Gomułka,
piccolo-borghese, autoritario e venato di antisemitismo.
Insomma, il libro è bello,
appassionante e vale assolutamente la pena di leggerlo, magari
anche per riflettere sull’oggi e sui mali di una sinistra priva
di ogni prospettiva ideale e vittima del “pensiero unico”
neo-liberista. Ma per la rinascita della sinistra i nostri
dirigenti dovrebbero imparare un po’ da Dubček, per cui le doti
fondamentali di un uomo politico erano l’onestà intellettuale e
la capacità di ascoltare la gente, due doti che nell’attuale
classe politica spesso scarseggiano.
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